«Noi, globetrotters della diversità»
Mario Tronco (Orchestra di Piazza Vittorio) intervistato da Sabrina Bergamini 18 November 2009

Frutto dell’iniziativa e dell’impegno di Mario Tronco, una lunga esperienza negli Avion Travel, e di Agostino Ferrente, che ha girato il film documentario sulla sua genesi (Nastro d’Argento, Globo d’Oro e successo in molti festival internazionali) oggi l’Orchestra cammina sulle sue gambe e porta in tournée una versione tutta propria del Flauto Magico di Mozart. Lione, Barcellona, Atene, Londra, Roma, Napoli e a gennaio Parigi. La band come esempio altamente simbolico di tolleranza? A Mario Tronco, direttore dell’Orchestra, il suono della parola tolleranza non piace perché – racconta – «fa venire in mente le intolleranze alimentari. Fra persone si parla invece di amicizia e condivisione».

Ripercorriamo in breve la storia dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Come nasce e quali sono i passaggi fondamentali di questa esperienza musicale?

Nasce sette anni fa grazie all’idea di trasformare il suono di questa piazza in un’Orchestra. Un’idea che ha trovato la possibilità di nascere anche grazie all’associazione culturale che nasceva nello stesso periodo per salvare un cinema del quartiere Esquilino (l’associazione Apollo 11, ndr). E nasce dalla convinzione che la diversità produce cose magnifiche, belle, e non bisogna averne paura. Le tappe fondamentali sono state le esibizioni dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Dopo il fatto sociale, la mia intenzione e quella dei musicisti era quella di fare un progetto musicale valido. E se l’Orchestra esiste ancora è perché c’è un progetto artistico valido.

Quali sono i percorsi che vi hanno fatto conoscere a livello internazionale? Non so se siete la prima orchestra di questo tipo…

Non lo so neanch’io. Quando ho avuto l’idea ho cercato su Internet esperienze simili e non le ho trovate. Questo mi ha spaventato moltissimo perché pensavo: “Se non l’hanno fatto a Londra, a New York, ci sarà qualche motivo”. Invece ci siamo riusciti. Negli ultimi anni abbiamo viaggiato tantissimo, e anche il film di Agostino Ferrente ha contribuito a far conoscere l’Orchestra. Andiamo avanti in maniera curiosa, col passaparola, non siamo un fenomeno né radiofonico né televisivo, però il pubblico stranamente aumenta di concerto in concerto, perché evidentemente la gente lo raccomanda agli amici e ai parenti. E questo tipo di promozione crea un pubblico che si affeziona a te e non ti abbandona facilmente.

L’Orchestra è nata dall’unione di musiche e culture diverse a partire da Piazza Vittorio. All’inizio è stato difficile reperire musicisti…

È stato difficile perché era allora – e lo è ancora, non è cambiato moltissimo – un periodo difficile. Subito dopo l’11 settembre c’era una paura enorme, i musicisti arabi erano nascosti, gli stranieri erano in qualche maniera i “nemici”. Il clima non era favorevole. I permessi di soggiorno sono una sorta di spada di Damocle per l’Orchestra di Piazza Vittorio, è sempre più complicata la legge, con mille insidie, e rende ancora oggi molto difficile il lavoro dell’Orchestra.

Adesso siete noti a livello internazionale. È stato girato un film su di voi, e state portando in scena il Flauto Magico. Come viene accolta l’Orchestra all’estero?

Molto bene, con grande entusiasmo, con la sensazione del pubblico di stupore quando non ci conosce, e di conferma quando ci conosce. Abbiamo esordito a Lione, Atene, e Barcellona, a Londra col Flauto Magico. A Lione il pubblico era entusiasta ma era totalmente sorpreso perché non ci conosceva, mentre a Barcellona quando siamo saliti sul palco c’è stato un applauso lungo prima di iniziare lo spettacolo, quindi il pubblico già ci conosceva, ci aveva visto negli anni precedenti.

Qual è la sua esperienza della tolleranza?

La tolleranza è un termine che non mi piace tantissimo perché l’associo alla tolleranza e all’intolleranza al cibo, a quelle cose che fanno venire le bolle… E’ per me così normale avere a che fare con Pap, con Carlos, con persone che vengono dai posti più lontani, che non me ne sorprendo. Più che di tolleranza io preferisco parlare di condivisione, di amicizia. Si parla di esseri umani. Non mi piace proprio il suono della parola “tolleranza”.

Noi abbiamo usato questo termine prendendo spunto da un libro che distingue fra la sopportazione da un lato, che un po’ si avvicina all’idea che stava dicendo lei di questo termine, e dall’altro il fatto di mettere insieme le esperienze e di condividerle. Ecco, secondo lei l’Italia è un paese aperto alla condivisione degli altri?

L’Italia e soprattutto il Sud Italia è storicamente aperto. Vengo dalla Campania: Napoli e la costiera amalfitana in alcuni punti sono delle città arabe. Il Mediterraneo si è cibato di culture nomadi. Lo stiamo perdendo, perché c’è un gioco sporco da parte della politica, un gioco elettorale, quello del trovare dei nemici e indicarli come stranieri, e in questo momento porta voti, porta consensi. I politici non si fanno alcuno scrupolo a usare questi mezzucci, che fra l’altro cambiano totalmente le coscienze e rendono veramente impossibile la condivisione.

Lei dirige un’Orchestra con musicisti di tutto il mondo. Ha una ricetta per una società che sappia valorizzare le diverse culture che ne fanno parte e non vederle come nemiche?

Penso che per un’orchestra sia più semplice perché c’è il linguaggio comune della musica. Però ho sempre immaginato i musicisti dell’Orchestra non come nazionalità ma come persone. Secondo me è la valorizzazione dell’individuo con le sue capacità peculiari che dà la possibilità di convivere insieme. I musicisti dell’Orchestra sono miei amici, sono dei talenti. Ma no, non ho ricette.

Secondo la sua esperienza, fra l’Europa e l’America ci sono modi diversi di concepire l’immigrazione?

Penso di sì. Gli Stati Uniti sono una società che si è formata con l’immigrazione: sono arrivate genti da tutte le parti del mondo e hanno abitato quella terra. In Italia l’immigrazione è un fatto di cronaca: fino a poco meno di settant’anni fa eravamo noi che partivamo, quindi per noi è un fatto nuovo. L’Europa, penso a città come Parigi e Londra, ha affrontato queste cose costruendo dei quartieri ghetti che sono stati fallimentari. In qualche maniera negli Stati Uniti è uguale. Ho la sensazione che si faccia sempre lo stesso errore. Succederà anche a Roma, quando il centro storico diventerà ancora più largo, per cui si creeranno dei quartieri per gli immigrati… Purtroppo l’uomo fa sempre gli stessi sbagli.

A Roma si creeranno quartieri per immigrati…

Sta sempre più in mano agli immobiliaristi, per cui più aumenta il mercato delle periferie più si costruiranno quartieri periferici dove andranno ad abitare gli extracomunitari e le classi più povere.

Secondo lei c’è una via di uscita da questa prospettiva?

Si potrebbe togliere la città dalle mani dei palazzinari.

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