Il modello turco
Matteo Tacconi 21 April 2011

Può il “modello turco” ispirare i paesi arabi, che si apprestano a inaugurare una stagione densa di novità sociali, istituzionali e politiche? Molti osservatori dicono di sì. Il fatto è che la Turchia è una nazione musulmana, registra una solida coesistenza tra religione e Stato, vanta relazioni consolidate con l’Europa e con il mondo occidentale, è ponte tra culture diverse e ha una storia di successo in chiave economica. Ci sono tutti gli ingredienti, insomma, affinché il suo modello costituisca una bussola.

Tra chi accredita tale tesi figura l’acclamata scrittrice Elif Shafak. Intervenendo dalle colonne del New York Times, Shafak ha sostenuto che la Turchia ha trovato un giusto bilanciamento tra passato e futuro, tra tradizione e modernità, tra est e ovest, tra islam e democrazia. Bilanciamento che trova modo di esprimersi in un ricco mosaico sociale, scandito da una pluralità di etnie, lingue e culture che, malgrado periodiche divisioni e tensioni politiche, convivono sotto il tetto repubblicano, secondo i principi consacrati nella costituzione. «L’Egitto, la Tunisia e il mondo arabo si interrogano su come conciliare elementi islamici e orientali con una forma di governo democratica, moderna e secolare. La Turchia ha già fornito molte risposte», ha argomentato Shafak.

Anche Dimitar Bechev, responsabile dell’ufficio di Sofia dello European Council on Foreign Relations, ritiene che Ankara possa rappresentare un esempio. «Le società dei paesi arabi stanno reclamando libertà, esercitano pressioni e invocano una maggiore apertura. La stessa dinamica si registra in Iran. In questi contesti si guarda alla Turchia – spiega Bechev a Resetdoc – perché il suo modello è attraente. Soprattutto dal punto di vista economico, fronte sul quale Ankara vanta risultati importanti, dovuti a una lunga storia di integrazione con i sistemi occidentali. In chiave politica, invece, bisogna capire di che modello si discute».

Il punto è proprio questo. Si parla di via turca prendendo in esame l’intero tragitto che Ankara ha compiuto dal 1923, anno della sua nascita, a oggi? Oppure si ragiona sulla base delle caratteristiche dell’attuale governo di Ankara, espresso dall’Akp, partito di ispirazione islamica guidato dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan? L’impressione è che su questa seconda opzione venga riposta maggiore enfasi, proprio perché l’Akp porterebbe in dote ai paesi arabi i classici pilastri dell’esperienza turca – liberismo, ancoraggio a occidente e proiezione sullo scacchiere mediorientale – unendo a questi la capacità di conciliare il ruolo della fede nello spazio pubblico con il rispetto delle regole repubblicane. Se invece al potere ci fossero le forze laiche, eredi della tradizione di Mustafa Kemal Ataturk, il padre della repubblica, la via turca sarebbe probabilmente meno “sexy”. I kemalisti, infatti, arginerebbero l’influenza della religione nella politica e lo schema della democrazia islamica, incarnato dall’Akp, risulterebbe un po’ svuotato di significato.

C’è chi, comunque, nutre in generale dubbi sulla bontà del modello turco, a prescindere da come lo si declini. Fadi Hakura, analista della prestigiosa Chatam House di Londra, sentito da Resetdoc, ritiene che «quella turca è un’esperienza che si è sviluppata sotto circostanze particolari e che ha delle radici storiche uniche.

Non so se può essere importata». Quanto alla “democrazia islamica” dell’Akp, «ci si concentra troppo sul solo tema del bilanciamento tra istanze religiose e istituzioni repubblicane, dimenticando che sul piano dei parametri democratici, come indicano gli studi di alcune organizzazioni e centri di ricerca, ci sono delle imperfezioni». Anche Bechev, come Hakura, è dell’avviso che nella partitura dell’Akp si rilevi qualche nota stonata. «L’Akp sta allargando il peso dell’islam nel sistema politico-sociale e questo non favorisce, tra le altre cose, l’integrazione delle minoranze non musulmane», fa notare l’esponente dello European Council on Foreign Relations.

Resta il fatto che, al netto dalle riserve espresse, il modello dell’Akp esercita una sua indiscutibile forza, dovuta in una buona misura anche alle scelte di politica estera intraprese dall’attuale governo. La Turchia, in questi ultimi anni, ha affiancato ai capisaldi che dalla fine della Seconda guerra mondiale hanno informato la sua azione internazionale – atlantismo, occidentalismo, prospettiva europea e relazioni con Israele (Ankara è una delle poche capitali islamiche a riconoscere lo stato ebraico) – un grande dinamismo in Medio Oriente, Africa settentrionale e nei Balcani, vale a dire nel cosiddetto “spazio ottomano”. Il che ha ne ha accresciuto il prestigio internazionale, potenziato la capacità di fare da collante tra oriente e occidente, rafforzato il rispetto di cui gode nel mondo arabo e il ruolo di negoziatrice.

Qualche analista è arrivato a sostenere che il baricentro di Ankara si sia però spostato troppo a levante. La sua vocazione occidentale, uno dei cardini del modello turco, starebbe conseguentemente venendo meno. Sarebbe in corso una rottura, evidenziata dall’allentamento dei legami euro-atlantici e dalla contestuale ricucitura dei rapporti con paesi ritenuti poco affidabili quali Siria e Iran (fino a poco tempo fa considerati nemici dai turchi), oltre che dagli scontri diplomatici con Israele, originati dalla questione degli aiuti umanitari a Gaza.

Ma le cose non stanno proprio così, a sentire l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, ex vice segretario generale della Nato (dal 2001 al 2007) e profondo conoscitore della Turchia. «La proiezione strategica su Balcani, sul Mediterraneo e in Medio Oriente, ma anche sull’Asia centrale post-sovietica, come in Pakistan e in Afghanistan, non è una novità. Quello che è cambiato, se qualcosa è cambiato, è che – ragiona Minuto Rizzo – Ankara s’è riappropriata in parte del suo vicinato. Ma senza inventare niente. Ha soltanto intensificato il dialogo all’interno di un perimetro che è quello suo classico. Ciò dipende dal fatto che negli ultimi anni ha registrato pochi riscontri da parte americana e da parte europea. A occidente, infatti, il portato della storia continua a suscitare qualche perplessità nei confronti della Turchia».

«Il problema è che si guarda troppo spesso alla Turchia con la lente del passato», gli fa eco Christophe Solioz, segretario generale del Centre for European Integration Strategies, think-tank di Ginevra. «Bisogna invece inforcare la lente del futuro, immaginando che la Turchia sarà parte dell’Ue. Il ruolo importante, economicamente e politicamente, che Ankara gioca nei Balcani, in Medio oriente e in Africa settentrionale può solamente servire gli interessi dell’Europa. La presenza della Turchia può favorire la stabilizzazione, in queste regioni. Europa e Turchia, cooperando, possono rafforzare il quadro. A patto che Ankara non venga percepita dai paesi comunitari come rivale».

A patto che, riferisce Minuto Rizzo, Ankara non esageri. «Non so – dice l’ambasciatore – se la Turchia abbia le risorse per giocare a fare la potenza regionale. Certo è che forzando rischia di intaccare i rapporti con gli americani, con i quali, negli ultimi anni, ci sono stati numerosi disaccordi. Con l’Europa la questione è diversa. Le relazioni sono meno cerebrali. Ma i turchi, comunque, dovrebbero evitare l’eccesso di protagonismo».

Il modello turco può funzionare? Forse sì. Ma affinché funzioni la Turchia ha bisogno di una sponda. Ha bisogno dell’Europa. Sempre che l’Europa metta da parte pregiudizi e riserve. «Bruxelles – dice Solioz – deve lanciare messaggi e segnali chiari alla Turchia, perché della Turchia non se ne può fare a meno». Perché bisogna usare il futuro prossimo, non il passato remoto.

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