Così, in quella piazza, ho visto passare la Storia
Elisa Pierandrei 14 February 2011

Il Cairo

Barricate sul fronte Nord-Est di Piazza Tahrir, al Cairo. Parlo con il giovane Ibrahim che da circa due settimana dorme qui, insieme ad un pugno di attivisti egiziani, per difendere il sit-in permanente di protesta anti-Mubarak dagli attacchi dei sostenitori del presidente. All’improvviso arriva una telefonata. Gli occhi di Ibrahim si riempiono di gioia. Gli chiedo che cosa è successo. Lui mi risponde: aspetta. Poco dopo arriva un altro uomo e dice: “Fra un’ora circa la notizia ufficiale. Un generale dell’esercito annuncerà che si è dimesso”.

In realtà l’annuncio ufficiale delle dimissione del presidente Hosni Mubarak arriverà soltanto il pomeriggio del giorno seguente – e dopo un ultimo discorso in tv che getterà il popolo egiziano in uno stato di sconforto profondo – ma per gli uomini del cartello di attivisti egiziani, guidati dal movimento 6 Aprile e Kifaya, è fatta! A Piazza Tahrir inizia ad affluire un numero impressionante di gente (uomini, donne, famiglie intere con le bandiere in mano e darbouka e chitarra in spalla) pronta a festeggiare la vittoria della società civile egiziana.

Con la mente ripercorro i ricordi di quelle giornate trascorse insieme agli egiziani in piazza. Non più una qualsiasi del Cairo. Ma quella consacrata dal Time Magazine fra le 10 piazze di protesta più importanti della storia mondiale insieme a Piazza della Bastiglia, a Parigi, e Tiananmen, a Pechino. Una passeggiata in Piazza Tahrir era la prima cosa che facevi la mattina, prima di andare al lavoro, o la sera quando rientravi a casa. Era un’abitudine che avevano preso in tanti dopo il 25 gennaio 2011 al Cairo, giornata dell’inizio delle manifestazioni, e che seguivo ormai anche io. In egiziano questo luogo si chiama Midan Tahrir, che in italiano traduciamo con Piazza della Liberazione, ed è il luogo simbolo della rivolta egiziana contro il regime di Mubarak.

Una volta impraticabile per il traffico che congestiona questo importante snodo della capitale egiziana, nelle ultime due settimane era diventato forse il punto più sicuro del Cairo. Da quando, cioè, il sit-in degli attivisti anti-Mubarak era permanente (gli irriducibili di Piazza Tahrir avevano promesso di andarsene soltanto dopo che anche Mubarak l’avrebbe fatto). Erano spuntate tende dove i manifestanti riposavano la sera, avvolti in coperte di lana. Ogni sera c’erano nuovi attivisti che entravano per dare il cambio o per portare loro cibo e acqua. E c’era pure un ospedale per l’assistenza ai malati. Molti i giovani appartenenti al movimento islamico dei Fratelli Musulmani – banditi ma tollerati dalle autorità del Cairo – che inizialmente non aveva aderito alla protesta, ma che poi si era lasciato coinvolgere nelle operazioni di assistenza. Abituati a muoversi nell’ombra, sono stati i più rapidi ad organizzare i soccorsi.

Piazza Tahrir non è sempre stato un luogo di pace e di accoglienza durante questa rivolta. Nel corso delle prime manifestazioni, a ridosso del 25 gennaio, qui la repressione della polizia era stata dura e gli spari dei lacrimogeni avevano causato vittime (i nomi alla pagina web Egypt Remembers). Poi i violenti scontri del 2 febbraio contro gli attivisti pro Mubarak, fra cui si erano infiltrati i temibili baltagi (squadre pagate dal regime, ndr), che avevano braccato reporter e fotografi seminando il terrore in pieno stile sovietico. Ciò che ha reso questo luogo speciale è stata l’atmosfera di solidarietà e di umanità che qui un popolo grande come quello egiziano ha saputo dimostrare in un momento così difficile.

Mentre attraversavi il centro ti sorprendevano canti e slogan che inneggiano alla rivoluzione. Ventenni con il capo chino e il pugno alzato gridavano: “Il popolo vuole la caduta del regime”, “Noi non ce ne andiamo, è lui che se ne deve andare”. Chi entrava a volte veniva accolto con un applauso da un cordone improvvisato di attivisti. Qui si è officiato un matrimonio e cristiani copti e musulmani, uniti, hanno celebrato una messa. Un giorno ho incontrato un uomo che era entrato con suo figlio di 20 giorni. Il figlio della rivoluzione, mi aveva spiegato, perché era nato soltanto qualche giorno prima dell’inizio delle manifestazioni. C’è stato anche chi aveva pensato di organizzare in questa piazza l’edizione annuale della Fiera Internazionale del Libro, che era stata sospesa. Mentre secondo il quotidiano egiziano Al Ahram, qui dovrebbero svolgersi le riprese del film del cineasta egiziano Magdi Ahmed Ali, basato sulla storia vera del dottor Tarek Helmi, che dal 25 gennaio scorso guida l’equipe sanitaria che assiste i dimostranti.

Tutto questo è successo grazie ad una società civile che si è dimostrata forte. La sicurezza in Piazza è stato un punto importante a loro favore. Garantita negli ultimi giorni dai militari, ancora prima lo era stata da un cordone di volontari egiziani che spontaneamente, in corrispondenza dei principali punti di accesso, si erano messi a controllare passaporti e zaini per impedire che entrassero armi. Così in questo luogo sono stati visti nomi importanti dell’elite egiziana. Dal Nobel per la Pace Muhammed El Baradei allo scrittore Alaa El Aswani. A galvanizzare la folla c’è stato anche Wael Ghonim, il manager di Google Medio Oriente e Africa di cui si erano perse le tracce per 12 giorni perché finito nella mani della polizia. La sua colpa? Quella di aver lanciato la protesta dal suo Twitter (@ghonim) e dalla pagina Facebook Kullina Khaled Said (http://www.facebook.com/elshaheeed.co.uk. Significa “Siamo tutti Khaled Said”, il giovane ammazzato di botte dalla polizia egiziana ad Alessandria l’anno scorso).

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