Così le tv arabe stanno cambiando il mondo
Daniela Conte 17 July 2008

Questo testo è il discorso tenuto dall’autore alla Conferenza internazionale di Doha, organizzata in Qatar da Reset Dialogues on Civilizations il 26 febbraio 2008.

Viviamo nell’era dell’informazione, siamo circondati da un mare di fatti e dati che ci inondano e ci legano in maniera invisibile in una sorta di rete globale. Negli ultimi anni questa rete si è infittita connettendo in maniera sempre più complessa un numero di utenti impressionante. La sfera mediatica globale è cambiata molto sia in termini di offerta che di domanda: accanto ai cosiddetti nuovi media, anche quelli più tradizionali, come la televisione, si sono rinnovati e grazie al potente uso del satellite hanno raggiunto nuovi e consistenti segmenti di audience. Si tratta di quei network internazionali che hanno cominciato a utilizzare nuove lingue e linguaggi per comunicare con mercati emergenti, a partire dalle popolari Cnn e Bbc. Parte di questo nuovo trend è intrinsecamente legato alla nascita delle televisioni satellitari arabe che, nel corso degli ultimi dieci anni, hanno fatto emergere a livello globale un nuovo mercato e anche un nuovo modo di fare informazione. È particolarmente interessante analizzare come mai proprio le tv arabe, nate tutte in contesti politico-sociali fortemente autoritari e contrari alla tradizione tipicamente occidentale della libertà d’espressione, siano state in grado con il tempo di influenzare non solo il proprio sistema mediatico nell’insieme, ma addirittura quello globale.

In realtà, attraverso una prospettiva storica, si evince chiaramente come fin dal principio, dalla nascita dei mezzi di comunicazione tradizionali, i media arabi siano stati caratterizzati da una particolare tendenza verso il regionalismo prima e una dimensione globale poi, maturando la capacità di acquisire una posizione di rilievo ben oltre i confini nazionali. Basti ricordare l’esperienza di Voice of the Arabs, la radio egiziana risalente ai tempi di Nasser, che nacque con l’esplicito intento politico di fungere da piattaforma di coesione per tutti i paesi arabi. Anche l’Asbu, l’unione dei servizi radiotelevisivi degli stati arabi, risalente al lontano 1969, nacque come forma di cooperazione regionale, come espresso chiaramente nel documento della prima assemblea generale dove si legge che il compito dell’unione era proprio quello di «rafforzare la fratellanza araba e di contribuire alla nascita di una generazione di arabi consapevoli e orgogliosi della propria identità panaraba e (…) di diffondere a livello mondiale l’immagine autentica della nazione araba».

La prospettiva transnazionalista era dunque molto forte già in passato, ma soltanto la diffusione nella regione del satellite, agli inizi degli anni ’90, permise a questo progetto di rinvigorirsi con la creazione di una reale piattaforma regionale. In maniera apparentemente contraddittoria, i primi esperimenti satellitari, oltre a rafforzare il carattere panarabo dei contenuti mediatici, incrementarono anche lo scambio con i network occidentali, fino a una sorta di importazione di elementi estranei al sistema arabo. Se dal lato dell’informazione nascevano i primi reportage live all’occidentale e una struttura organizzativa interna ai network molto internazionale, grazie alla nascita di uffici di corrispondenza in giro per il mondo l’intrattenimento diveniva più moderno, per merito di tecniche nuove e dell’utilizzo di contenuti «inglesi» come la musica pop. La nascita di Al-Jazeera nel 1996 diede ulteriore vigore a questo trend, creando un’informazione nuova e professionale che adottò appieno gli standard internazionali del giornalismo anglosassone. In realtà, la rete del Qatar andò ben oltre: iniziò gradualmente a rivolgere la propria attenzione al di là dei confini della mezza luna cominciando nel 1999 a trasmettere anche in Europa e negli Stati Uniti per gli arabi della diaspora, e poi, nel 2006, con l’innovativo progetto di una versione inglese del canale che potesse esprimere il punto di vista arabo a un pubblico pienamente globale. Così facendo Al-Jazeera è risultata pienamente vincente nello stabilire una connessione reale con un popolo etereogeneo come quello arabo. Si pensi che secondo gli studi dell’Allied Media Corporation, la rete raggiunge non solo quasi 50 milioni di spettatori, ma delle percentuali per lo meno del 44% in tutti i paesi arabi. E’ insomma una rete davvero transnazionale, a tal punto da emergere come la voce araba nell’arena globale dell’informazione.

Gli effetti di questi fenomeni a livello globale sono tutt’altro che trascurabili. Oltre alla creazione di un nuovo grande mercato arabo, è emersa la potenzialità di ogni network di proporre un particolare approccio agli eventi, un certo sguardo sul mondo, ben oltre il proprio usuale bacino di riferimento. Non a caso, già prima del lancio della versione inglese di Al-Jazeera, il governo americano, su ispirazione di Norman Joel Pattiz già membro dell’agenzia governativa responsabile dei servizi di trasmissione internazionale (il Bbg), aveva fondato nel 2002 una radio e nel 2004 una televisione entrambe in arabo, rispettivamente Radio Sawa e Al-Hurra (La Libera). Entrambi questi esperimenti furono però caratterizzati da una volontà politica più che da uno scopo commerciale. Il governo americano era nel pieno della guerra contro il terrore e il lancio di media in lingua araba era parte della «battaglia per la mente e il cuore degli arabi», un tentativo di concorrere con le televisioni satellitari arabe e anche di rilanciare l’immagine del governo americano nella regione. Parzialmente motivati da ragioni politiche, anche altri paesi hanno lanciato il loro canale in arabo seguendo l’esperienza americana, come Deutsche Welle, France 24, Rusiya Al-Yaum, e perfino il governo iraniano ha diffuso il suo primo canale in inglese, Press Tv.

Al di là del caso dell’Iran, questi network non sono formalmente parte di progetti politici, ma esprimono un’indubbia volontà di comunicare con il popolo arabo e di presentare nella sfera mediatica globale la propria visione del mondo e la propria prospettiva degli eventi, in una nuova concezione delle dinamiche internazionali, quella «glocale», dove si rafforza il legame regionale proiettandolo in una dimensione di globalità, grazie a tecnologie potenti e linguaggi nuovi. Siamo spettatori di una sorta di confronto tra civiltà dove molte realtà socio-politiche cercano di «sponsorizzare» le proprie peculiarità per vincere quella che l’ex Presidente della Repubblica francese Chirac ha definito la «battaglia di immagini». Anche Cnn e Bbc, alla rincorsa di questa nuova «moda», hanno lanciato la loro versione in arabo per garantirsi come in passato il primato di «internazionalità» come network di informazione. Gli effetti globali di questo trend sono: la frammentazione e l’ampliamento dell’offerta mediatica, la segmentazione del mercato grazie alla scoperta di nuovi pubblici, etnici, linguistici o globali.

Tutto ciò ovviamente influenza il giornalismo internazionale arricchendolo di nuove fonti di informazioni, ma anche rinforzando il sensazionalismo e la spettacolarizzazione, data la crescente competizione con nuovi network. Anche i confini tra comunicazione e politica si indeboliscono e i media si impongono sempre più prepotentemente nella sfera della diplomazia (non a caso i governi investono milioni di dollari in questi nuovi strumenti di comunicazione politica). Insomma, viviamo in una sfera mediatica molto più complessa e interconnessa del passato, la quale potrebbe sfociare o in una sorta di sfera pubblica globale che faciliti il dialogo tra blocchi regionali, o anche in un’eccessiva polarizzazione tra contrapposte visioni del mondo che rinforzi la cosiddetta «guerra di idee».

Daniela Conte è dottoranda in sistemi politici presso l’IMT di Lucca

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