Erdogan, il nuovo leader della umma islamica
Marcella Emiliani con Ernesto Pagano 9 June 2010

L’Iran ha annunciato l’invio a Gaza nei prossimi giorni di due navi della Mezzaluna Rossa. Ennesima provocazione?

La reazione a livello internazionale per l’uso spropositato della forza contro civili ha invogliato i tradizionali nemici di Israele a osare l’inosabile. Per Teheran si è trattato di un’occasione più che ghiotta, che non andava lasciata cadere. A parte lo schermo della Mezzaluna Rossa, la cosa più grave è l’avvicinamento tra Iran e Turchia.

Come sta cambiando la politica estera turca?

Pur tenendo conto del fatto che il suo Paese fa parte della Nato, Erdogan ha agito da musulmano. E come musulmano ha rapporti con l’Iran. Si tratta di una partita che non si gioca  in quello che noi chiamiamo Medio Oriente, ma in una umma islamica molto allargata. Naturalmente un conto è ragionare in termini geostrategici e di opportunità politiche, un conto è pensare alle opinioni pubbliche di tutto il Medio Oriente, adirate contro queste operazioni militari così cruente nei confronti della popolazione di Gaza.

Quindi l’opinione pubblica ha inciso molto nel cambio di passo del premier Erdogan…

Erdogan è stato condizionato dallo stesso blocco sociale che lo sostiene. Questa stessa Ong turca che ha organizzato il movimento “free Gaza”, è riuscita a rifornire ben sette navi con più di dieci tonnellate di generi di prima necessità. Si tratta di una Ong ricca, finanziata dai grossi uomini d’affari turchi che sostengono politicamente il premier turco. In questo quadro Erdogan non ha molta scelta.

Come giudica invece la posizione dell’Egitto, altro attore strategico?

La mossa di Mubarak di aprire il valico di Rafah dimostra qual è il vero problema, tuttora assente nell’agenda della comunità internazionale: il blocco della Striscia. Mubarak intanto è anche lo stesso che sta costruendo dei muri d’acciaio sotterranei per risolvere il problema dei tunnel sotto il confine. Come si vede, il suo atteggiamento politico è molto ambivalente. Dal canto suo, il governo israeliano continua a dire per bocca del suo ministro degli esteri che non c’è un’emergenza umanitaria. Emergenza che invece esiste e sarà sempre foriera di tensioni politiche inaudite.

Dietro il blocco di Gaza c’è forse la volontà di creare due Palestine? Una Cisgiordania debole e mansueta e una Striscia di Gaza “canaglia”?

Il calcolo, in particolare dell’attuale governo Natanyahu, è quello di non avere né una, né più Palestine. Lo dimostra l’aumento indiscriminato di insediamenti. Basta vedere la situazione in Cisgiordania. Lo stesso primo ministro dell’Anp, Salam Fayyad, ormai non parla nemmeno più di Stato Palestinese, ma al massimo di integrazione tra economie. Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, il primo obiettivo – fallito – era quello di stroncare Hamas. Quello attuale è di portare la popolazione a uno sfinimento tale da ripudiare Hamas.

Tra i membri dell’equipaggio della “Freedom Flotilla” c’era anche lo shaykh Raed Salah, punto di riferimento per gli arabi israeliani: che ruolo giocano nel conflitto israelo-palestinese?

Da sempre vengono chiamati gli arabi invisibili. Ormai sono arrivati a un milione e mezzo in Israele. Vivono come cittadini di serie b, senza la possibilità di fare il servizio militare, unico vero luogo di integrazione del paese. Tradizionalmente sono elettori del partito laburista israeliano. Progressivamente però, dopo la prima e, soprattutto, la seconda intifada, si sono politicizzati a favore di una causa palestinese. Tuttavia non è chiaro in che misura seguano il filone Hamas e quanto, invece, mantengano quel profilo laico che li ha tradizionalmente caratterizzati.

Come giudica invece il comportamento della Casa Bianca?

In campagna elettorale Obama aveva promesso di riavviare il processo di pace tra israeliani e palestinesi: non ha mosso un dito. A parte i guai legati alla politica interna e le sciagure come la marea nera e la crisi economica, sin dall’inizio del suo insediamento Obama ha dichiarato che la sua priorità in Medio Oriente era l’Afghanistan, seguito dall’Iraq e poi, come fanalino di coda, dal “vecchio” conflitto israelo-palestinese. Nell’ottica di un premier come Netanyahu questo significa avere mano libera.

Ma l’episodio del blitz e la condanna da parte della comunità internazionale, non mettono un freno al governo israeliano?

Non è la prima volta che Israele sostiene infiniti isolamenti internazionali. Quando poi si arriva a votare per una commissione d’inchiesta internazionale che indaghi su quanto accaduto durante il blitz, gli Stati Uniti, seguiti dall’Italia, votano perché ci sia un’inchiesta condotta, non da giudici internazionali, ma israeliani. Basta questo ad Israele per andare dritto per la sua strada.

E cosa ne è delle dichiarazioni di Obama secondo il quale bisognava dialogare con Hamas…

Sono dichiarazioni totalmente decadute. Se c’è una delusione che oggi percorre tutto il Medio Oriente riguarda proprio Obama, incapace di articolare una politica nella regione. Peraltro nemmeno il Segretario di Stato Clinton si occupa della questione, ma delega tutto al “povero” emissario Mitchell, che nelle sue numerose missioni non è riuscito a cavare un ragno da un buco. Per non parlare della vecchia troika costituita da Stati Uniti, Europa e Russia che aveva indicato in Tony Blair il grande “tessitore di trame di pace in Medio Oriente”. Lei ha per caso visto qualcuno che si sia almeno recato in loco?

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