Erdoğan e la laicità
Nicola Mirenzi 27 September 2011

Sono stati in molti a stupirsi, qualche giorno fa, quando il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha detto in Egitto che «non bisogna diffidare della laicità». Si sono stupiti soprattutto quelli che in questi anni si sono sentiti dire a ogni piè sospinto che Erdoğan e il suo partito islamico democratico per la giustizia e lo sviluppo (Akp) avevano un’agenda segreta che mirava a rovesciare le istituzioni laiche della repubblica turca per instaurare la disciplina di un califfato islamico. Ma si sono stupiti anche i commentatori che a furia di ripetere le loro interpretazioni fasulle hanno finito poi per credere che fossero vere, e hanno così attribuito alle parole di Erdoğan il significato di una conversione.

Ma la realtà è che Erdoğan e i suoi da un decennio a questa parte pronunciano oramai quelle parole. Solo che molti – soprattutto in occidente – quelle parole fanno finta di non averle mai sentite. Preferendo credere che la proposta politica dell’Akp sia soltanto la prosecuzione con altri mezzi dell’islamismo politico vecchio stile.

Nel corso della sua visita a Il Cairo, invece, il leader dell’Akp ha ribadito con estrema naturalezza ciò che pensa della democrazia, del pluralismo delle fedi, dell’Islam: «Io sono un islamico non laico», ha esordito, «ma sono primo ministro di uno stato laico e dico: spero che ci sarà uno stato secolare in Egitto; non bisogna diffidare della laicità; l’Egitto crescerà nella democrazia e chi sarà chiamato ad elaborare la Costituzione deve capire che deve rispettare tutte le religioni e tenersi alla stessa distanza dagli adepti di tutte le religioni, perché tutta la società possa vivere in sicurezza».

Un parte dei Fratelli Musulmani, quella più islamista, ha avvertito queste parole come una minaccia. Un’altra parte, più moderata, le ha accolte come liberatorie. Quello che è però difficile negare è che l’Akp di Erdoğan questa concezione delle istituzioni democratiche e laiche ce l’abbia innestata nel suo Dna. Il partito per la giustizia e lo sviluppo nasce infatti da una rottura culturale e politica operata soprattutto all’interno del partito della virtù, il gruppo a cui era legato il leader storico dell’islamismo turco, Necmettin Erbakan. A un certo punto, però, dentro quel partito alcuni uomini cominciarono a sentirsi stretti.

La concezione antica dell’Islam politico e della modernità iniziò ad apparirgli semplicemente incapace di stare al passo coi tempi. E così Abdullah Gül (l’attuale Presidente della Repubblica Turca) e Erdoğan – due degli uomini più carismatici del gruppo – presero a citare nei loro discorsi gli Stati Uniti d’America. Sia perché in America essi ritrovavano il rispetto della religione che vedevano mancare in casa loro (entrambi adducevano come esempio il fatto che nei campus americani le ragazze potevano tranquillamente indossare il velo, mentre in Turchia non era possibile); sia perché quel richiamo al più importante e democratico dei paesi occidentali gli serviva per affermare il fatto che essi volevano stare del tutto dentro la contemporaneità. Che non erano né anti-occidentali, né anticapitalisti (come erano invece tutti i movimenti islamisti).

A ben vedere, quindi, l’obiettivo di Erdoğan e dei suoi uomini non è stato mai quello di rovesciare le istituzioni repubblicane turche, nell’intenzione di sostituirvi la legge religiosa. Sin dall’inizio il loro desiderio principale è stato quello di riconciliare la natura islamica della Turchia con le istituzioni laiche della Repubblica, ritagliando alla religione uno spazio di cittadinanza nell’arena politica. Un disegno, questo, che ovviamente è stato contrastato con tutta la forza che aveva dall’establishment kemalista. Ossia quel grumo di potere che si raccoglie intorno all’esercito, a una parte della magistratura e ad altri apparati dello stato, e che si sente chiamato a difendere a ogni costo la visione laicista del fondatore della repubblica, Kemal Atatürk. Vivendo come un minaccia mortale a quel sistema il fatto che qualcuno reclami il riconoscimento di un diritto della religione a far parte dell’arena pubblica.

Ora, i tre governi consecutivi presieduti da Recep Tayyip Erdoğan (l’ultimo eletto nelle elezioni dello scorso giugno) sono riusciti effettivamente a ridurre di molto il potere dei generali. E la strategia dell’Akp adesso che le cose in patria sono cambiate è diventata quella di far assurgere la Turchia a livello di potenza regionale di riferimento, esportando, insieme alle merci e all’influenza, anche il loro originale modello di coniugazione dell’Islam con la democrazia. Se questo disegno riuscirà e darà i suoi frutti, lo dirà il tempo. Sta di fatto che però Erdoğan e i suoi uomini hanno capito da tempo che per essere davvero incisivi nel mondo contemporaneo hanno bisogno di definire chiaramente i confini dello Stato e quelli della religione, senza lasciare spazio a nessuna ambiguità sul rispetto delle altre fedi, sulla tutela del pluralismo, sulla difesa delle istituzioni repubblicane. Come spiega a ResetDoc Niyazi Öktem, professore di filosofia del diritto alla Bilgi University di Istanbul, «il discorso sulla laicità che Erdoğan ha pronunciato al Cairo è un discorso decisivo non solo per il futuro del Medio Oriente ma anche per capire veramente quale sia la portata dell’innovazione che l’Akp vuole introdurre nel mondo islamico».

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