Coesistere e’ un destino inevitabile
Andrea Riccardi 14 February 2007

Questo testo è l’introduzione dell’autore al suo ultimo libro, "Convivere" (163 pagine, Laterza Editore, 2006).

Una domanda dal Ruanda

A Kigali, capitale del Ruanda, ho visitato il memoriale del genocidio, il Kigali Memorial Centre. È la Pasqua del 2005. Sono passati poco più di dieci anni da quei tragici eventi. La memoria resta vivissima. Le prigioni rigurgitano ancora di imputati da giudicare per i crimini del genocidio. Per strada, i condannati (che si recano al lavoro) si riconoscono per il loro abito rosa. I problemi del genocidio restano incombenti. Il presidente Kagame punta, con una politica ferma, a che non si ripetano quegli eventi terribili. Ha guidato la lotta armata che ha capovolto il regime hutu di Kigali e posto fine alle stragi dei tutsi. Per il presidente non esistono hutu o tutsi, ma colpevoli del genocidio e vittime. Il potere, gestito da un tutsi come lui, garantisce quanti sono stati colpiti dal genocidio. Tuttavia la gente continua a pensare in termini di hutu e tutsi. Resta aperta la questione di come e quando si realizzerà la piena democrazia.

Ma ce n’è un’altra non meno importante: potranno vivere sicuri e insieme tutsi e hutu? Il Kigali Memorial Centre è il monumento a questa memoria terribile: si vedono le bare degli assassinati, mentre una sequela di immagini guida il visitatore al punto focale, una sala tappezzata di teschi. Il messaggio è chiaro: un orrore profondo per quel che è avvenuto nel 1994. Nasce una domanda: come è stato possibile che i vicini di casa abbiano ucciso chi conoscevano da sempre? Gli assassini non venivano da lontano, ma erano persone che avevano sempre vissuto accanto alle vittime. Jean Hatzfeld, in un libro bello e tragico dal titolo A colpi di machete, ha dato la parola agli esecutori del genocidio: non sembrano mostri, spesso sono gente normale, trasformatasi sotto la spinta della propaganda e di un folle conformismo collettivo. La convinzione degli assassini era che non si potesse più vivere con i tutsi, i quali costituivano una minaccia permanente per gli hutu. Quindi bisognava eliminarli.

Le immagini del Kigali Memorial Centre mostrano la paura di vivere con gli altri, che si fa assassina. Eppure i tutsi non sono diversi in niente, nemmeno nella lingua, dagli hutu. Come a Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, anche a Kigali il ricordo dei bambini è l’aspetto più toccante. Di Francine Murenzi Ingabire, di dodici anni, si sa il piatto preferito: le uova fritte; e il suo sport prediletto: il nuoto; si aggiunge che è stata uccisa con il machete. A questi bambini è stata rubata tutta la vita. Per difendere altri bambini? Mentre ci si muove mestamente tra sale e corridoi del Memorial, la domanda che aleggia è sul futuro: come potranno vivere insieme in pace hutu e tutsi dopo tutto questo? Kagame, con la sua politica, sta tentando di tracciare una via, pur tra varie perplessità dell’opinione pubblica internazionale (che ne critica i metodi forti). Ma l’orizzonte, a dieci anni dal genocidio, appare ancora denso di inquietudini, proprio per la composizione «mista» della popolazione ruandese e per la sua storia drammatica.

Quelle ruandesi sono etnie differenziate non da una lingua, ma dalla storia, da discriminazioni antiche e recenti, da funzioni sociali. Ormai c’è un fossato tra loro, anzi l’abisso del genocidio del 1994. Potranno vivere insieme nel Ruanda di domani? La domanda non riguarda solo il Ruanda, ma anche il Burundi, che ha una composizione etnica simile – hutu e tutsi – alle cui spalle c’è una storia molto difficile. In Burundi si è scelta una strada diversa, con il nuovo presidente hutu e un sistema di contrappesi tra le due etnie. Il caso ruandese non è isolato nella regione. Il problema è generale. Si presenta, sotto altre forme, in vari paesi dell’Africa e, forse, del mondo. I ruandesi, del resto, hanno voluto inserire il loro genocidio in una lunga e dolorosa galleria di eventi di questo tipo.

Lo si vede al Kigali Memorial Centre. C’è una sequenza incalzante di richiami e immagini dei genocidi del Novecento: la strage della popolazione africana degli hereros da parte dei tedeschi in Namibia (65.000 trucidati tra il 1904 e il 1905), il massacro degli armeni, la Shoah, il genocidio cambogiano, i Balcani degli anni Novanta. Sono situazioni molto diverse, ma tutte rivelatrici del lato crudele del secolo passato. Uscendo dal memoriale di Kigali, continuavo a chiedermi: come vivere insieme? quante sono le situazioni a rischio nel nostro mondo? Sono domande sul Ruanda e sul Burundi, ma non solo. Sono domande che più volte mi sono posto davanti alle difficili situazioni africane. In Africa, comunità differenti (per etnia, lingua, religione) si intrecciano e vivono nello stesso paese, i cui confini sono stati tracciati rudemente dai colonizzatori senza tener conto delle realtà etniche.

Vivere insieme è il problema di cristiani e musulmani in quel colosso africano che è la Nigeria. La prima grande crisi africana, dopo la decolonizzazione, fu proprio la terribile guerra del 1967-1970 per l’indipendenza della regione nigeriana del Biafra. L’immagine dello scheletrico bambino biafrano divenne il prototipo della miseria africana. Ma di crisi ce ne sono state tante negli ultimi decenni. Vivere insieme è il problema della Costa d’Avorio, un paese a tutt’oggi diviso tra Nord e Sud, tra musulmani e cristiani, incerto sull’identità di una parte della sua popolazione composta da immigrati. È la questione del piccolo ma significativo Togo, dove un gruppo politico (identificato con un’etnia minoritaria, poco più del 10%), erede del defunto presidente Eyadéma, gestisce un paese che chiede uguaglianza di diritti. Gli esempi potrebbero continuare.

Vivere insieme nel quadro di uno Stato è un grande problema africano, soprattutto perché le istituzioni statali sono deboli, anche a causa della difficile storia di molte indipendenze nazionali. Ma non è solo una questione africana, connessa alle condizioni del continente. La si ritrova in Asia, a partire dallo Sri Lanka, infestato per decenni da una terribile guerriglia, sino all’Indonesia in lotta con il separatismo di Aceh. È la storia di tante minoranze che rivendicano il loro spazio, la loro autonomia, anche la loro indipendenza. È la vicenda dei cosiddetti popoli indigeni in Guatemala, Bolivia, Perù, Ecuador. Spesso è la storia di comunità diverse che si ritrovano negli stessi territori o nelle stesse città.

L’accanimento contro la minoranza cinese (economicamente egemone) in Indonesia è rivelatore di gravi tensioni accumulatesi nelle società asiatiche. Amy Chua, una studiosa cinese che insegna negli Stati Uniti alla Yale University, ha segnalato – anche a partire dall’esperienza della sua famiglia in diaspora – il rischio di una crescita di ostilità contro le minoranze economicamente forti in società che conoscono processi di democratizzazione e di liberalizzazione. La maggioranza, più povera, si proclama legittima «proprietaria» del benessere e si scaglia contro le minoranze ricche. Questo avviene nello Zimbabwe di Mugabe contro i coloni inglesi, ma può capitare anche nelle Filippine o nella Bolivia degli indigeni.

Una questione che ci riguarda

Vivere insieme tra diversi non è solo un problema delle periferie del mondo, di democrazie iniziali, di Stati senza libertà oppure disegnati con confini arbitrari. È anche una questione europea. Pensiamo ai Balcani. Le guerre nella ex Iugoslavia, quelle in Bosnia-Erzegovina, hanno posto il problema della convivenza tra i bosniaci musulmani, i serbi ortodossi e i croati cattolici. È una storia risoltasi con la separazione etnica, dopo tanto sangue versato e tanto odio accumulato. Ho seguito da vicino la vicenda del Kosovo, abitato da una maggioranza albanese e da una minoranza serba, sotto il dominio del governo di Belgrado. Il problema è ancora irrisolto malgrado l’attuale autonomia del paese. I villaggi dei serbi rimasti sono accerchiati dalla popolazione albanese e protetti da truppe internazionali.

La vita per la minoranza serba è impossibile. Del resto, tutta la vicenda della ex Iugoslavia, negli anni Novanta, è la storia di una dolorosa decomposizione della struttura di convivenza tra popoli costruita da Tito. Si trattava di una realtà, in parte artificiosa, creata con la fine dell’impero asburgico; il suo crollo ha significato la dichiarata impossibilità di vivere insieme da parte dei popoli slavi del Sud (cioè iugoslavi). Questo è avvenuto dopo la caduta del muro di Berlino, mentre l’Europa rafforzava il suo processo di unificazione. Oggi vivere insieme è un problema aperto, anche nelle più solide nazioni europee. Lo pone da tempo il risveglio delle minoranze, dai baschi in Spagna all’Irlanda del Nord. Intanto fiamminghi e valloni in Belgio consumano sempre più le strutture di uno Stato unitario, in un piccolo paese importante nella storia del mondo tra Ottocento e Novecento, non fosse che per il suo esteso dominio coloniale in Congo, Ruanda e Burundi. Tuttavia il problema più grave riguarda le comunità di immigrati extraeuropei. È il problema delle periferie e delle zone marginali delle città europee.

È esploso recentemente in una serie di conflitti nella banlieue parigina e di altre città francesi, con la rivolta delle giovani generazioni, spesso figlie di immigrati. La rivolta di questi giovani – per lo più africani e maghrebini d’origine, ma in larga parte francesi di seconda o terza generazione – sembra un primitivo «scontro di civiltà »: da un lato la Francia con i suoi simboli e dall’altro la reazione ribellistica. I giovani sono soli, senza lavoro e senza speranza. La rivolta s’inserisce per certi versi in una tradizione di ribellismo che ha caratterizzato la storia francese. D’altro canto, non si può spiegare soltanto con l’islam. I giovani manifestano contro l’esclusione e l’ineguaglianza con un linguaggio elementare, fatto di violenze. Le tensioni non sono nuove e gli atti di violenza non sono inediti. Ma oggi essi sono scoppiati simultaneamente. Il ribellismo si rafforza e si sviluppa con la globalizzazione dell’informazione.

Il corto circuito della pubblicità televisiva ha dato identità ai giovani: «Siamo famosi, ne parla pure la Cnn», mi ha detto un giovane rivoltoso nel novembre del 2005. Un altro ha dichiarato a un giornale: «Siamo pronti a sacrificare tutto, perché non abbiamo niente». In quattro giorni, dal 5 all’8 novembre, nella regione parigina sono state bruciate quasi tremila automobili. È stato il modo di affermare la loro identità e la loro presenza sulla scena francese: «brucio dunque sono». Che cosa hanno dietro? Prima di tutto i tanti vuoti della banlieue: la crisi delle reti sociali e della scuola, della prossimità delle istituzioni alla gente; la fine del partito comunista e delle sue radici sociali, che trasferiva tanta spinta conflittuale proletaria sul piano dello scontro politico; la crisi del cattolicesimo francese con le sue parrocchie, che nel dopoguerra si era posto il problema pastorale della banlieue rossa.

C’è poi la crisi della famiglia, anche se si dice che le famiglie immigrate sono differenti da quelle europee. Ma si tratta di un problema comune a tutto l’Occidente, che vede le sue famiglie disarticolarsi: così le donne e gli uomini crescono soli, non educati a quella realtà di convivenza – appunto la famiglia – dove i diversi (per sesso, età, generazioni, capacità) vivono unità e senso del destino comune. I ragazzi della banlieue, ribellandosi, si creano un’identità elementare, reattiva all’emarginazione in una società dove sempre più si sente il peso dell’ineguaglianza. È una rivolta di giovani contro la società «vecchia ». L’interetnicità delle bande è frutto di esclusione, tanto che la maggior parte dei giovani sono di famiglia immigrata. Con la violenza si impongono all’attenzione. Non c’è una richiesta da parte loro su cui negoziare, ma una rivolta, un dissenso profondo da decifrare. I giovani si sentono rifiutati dalla città, dal mondo del lavoro: questa non è la loro Francia. Come integrarli e assumere le loro aspirazioni? Ci troviamo innanzi alla rivolta degli immigrati contro lo Stato della maggioranza?

La questione del vivere insieme tra la maggioranza e gli immigrati è stata posta talvolta in modo demagogico e aggressivo. Bisogna invece riflettere, senza isterismi, in modo realista. Gli attentati del luglio 2005 a Londra avevano già dato un segnale d’allarme. Il fatto che gli attentatori fossero cittadini britannici (di religione musulmana e di origine pakistana) ha messo in luce un interrogativo che aleggia da anni e che, dopo l’11 settembre 2001, si è fatto insistente. Come potranno vivere in pace e sicurezza gli europei di antica origine con i nuovi immigrati, specie musulmani? Le comunità islamiche sono integrabili? Non nascondono nel loro seno potenziali terribili nemici? Non lo si è visto con i giovani attentatori di Londra dal passaporto britannico e appartenenti a famiglie ben inserite nella società? Allora com’è possibile vivere ancora insieme, anzi, lasciar rafforzare queste minoranze con nuovi flussi migratori? Sono domande che riguardano le grandi comunità musulmane in Gran Bretagna, Francia e Germania, ma anche in Olanda e Belgio. L’islam europeo è denunciato da alcuni, ad alta voce, come la quinta colonna dell’espansione islamica in Europa.

Il grande viaggiatore-romanziere polacco Ryszard Kapus´cin´ski ha osservato che l’integrazione dell’islam «è uno degli interrogativi più affascinanti con cui è chiamata a confrontarsi l’Europa». Forse è il più grande interrogativo del domani europeo. La domanda riguarda poi tutta l’immigrazione (che peraltro rappresenta una necessità economica e sociale del continente in calo demografico). Le comunità di immigrati non stanno cambiando il carattere e l’identità dell’Europa? La scelta britannica, di consentire lo sviluppo di tali comunità senza imporre una particolare integrazione (come invece, ad esempio, in Francia), è stata messa in discussione dagli avvenimenti di Londra del luglio 2005. Ma se la Gran Bretagna piange, la Francia certo non ride con le rivolte della banlieue. La questione del vivere insieme assume, da regione a regione, tratti differenti, ma è decisiva per le istituzioni nazionali, le religioni, la politica e le relazioni tra popoli.

È possibile vivere insieme quando si è tanto diversi? Questo interrogativo va intrecciato con altri, ugualmente importanti: cosa vuol dire veramente differenza? qual è la soglia entro cui le diversità sono compatibili? Negli anni Cinquanta, durante la mia infanzia di ragazzo romano in una scuola elementare del Nord Italia, sentivo le battute pesanti sui meridionali italiani trasferitisi in queste regioni (chiamati allora con un certo disprezzo «marocchini»), e sul Nord che lavorava e il Sud che mangiava. Oggi mi viene da sorridere al pensiero di quelle frizioni tra italiani del Nord e del Sud, anche se il leghismo sembra averle rilanciate. Ben altri e più drammatici sono i problemi odierni, mentre l’idea di una società multiculturale scricchiola. Ogni stagione storica ha la sua percezione della soglia di compatibilità con la diversità. In Francia, di fronte all’emigrazione tra le due guerre (italiana, armena, polacca, esteuropea), si prevedeva la crisi dell’identità francese.

Questa crisi non c’è stata; ma niente si ripete nella storia. Oggi si ha una percezione molto preoccupata della soglia di compatibilità del vivere insieme tra diversi. Il terrorismo, che insanguina le città europee, rende tale percezione più acuta. A tutti i livelli e di fronte alle situazioni più diverse, ci si ripete la domanda: come vivere insieme? Se la pongono politici e intellettuali; ma la sentono l’uomo e la donna comuni, che osservano le vicende quotidiane e si ritrovano senza una soluzione ai problemi e senza un ideale di società. Eppure la realtà è che, mentre ci rivolgiamo questa domanda, noi già viviamo insieme, a tante latitudini. Avviene in Europa occidentale, dove le grandi città, pur nel loro tradizionale quadro cristianooccidentale o con le loro istituzioni laiche, hanno un aspetto multireligioso e multietnico. Avviene in tante parti del mondo.

Oltre alla coabitazione con l’altro, fatta di vicinanza fisica e geografica, si realizza una convivenza virtuale, per cui la vita, la cultura, i gusti degli uni raggiungono quelli degli altri attraverso i canali della globalizzazione. Le tradizioni e i sapori si mescolano nel mondo globale. I viaggi portano gli uni nei paesi degli altri. L’emigrazione crea legami profondi. La mobilità degli uomini, delle loro idee e delle loro abitudini, non conosce confini. Vivere insieme sembra un destino inevitabile. Ma non è sempre rassicurante. Si può vivere insieme?, si chiede un acuto osservatore della società contemporanea, il francese Alain Touraine, nel sottotitolo del suo impegnativo libro su Libertà, uguaglianza, diversità. È la domanda che vorrei affrontare in queste pagine: come vivere insieme? Sono consapevole che non c’è un’unica risposta. Bisogna sforzarsi di cercarne diverse per situazioni, culture e paesi differenti. La risposta che – specie nei momenti più critici o di fronte alle conflagrazioni – ci si sente ripetere con più insistenza è che bisogna rafforzare le frontiere e creare qualche muro protettivo in più. Ma la paura non è una risposta. Come non lo sono i buoni sentimenti. La vita contemporanea ci porta inevitabilmente – come si è detto – a vivere vicino tra diversi. È normale che sorgano domande simili, a cui non è possibile rispondere subito, ma forse è necessario provare ad affrontarle con pazienza.

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