Un oceano di incomprensioni
Carlo Galli 9 January 2008

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).

E’ stato un dialogo difficile, sull’orlo dell’incomprensione, quello in cui si sono prodotti Arato e Hanafi. Originariamente centrato sulla democrazia, si è capito nel corso del suo svolgimento che in realtà esso verteva sulla democrazia liberale – intesa come la più compiuta espressione della politica occidentale, dal punto di vista sia storico sia normativo – ovvero sull’Occidente e sul suo impatto sul resto del mondo. Da accademico e meramente teorico, quale poteva essere, il dialogo si è subito trasformato in acceso dibattito politico; la Verità che gli interlocutori cercavano si è rivelata una verità situata, condizionata, esposta alla contingenza. Per l’uno – Arato – la questione della democrazia è già risolta, sotto il profilo teorico e politico, dallo sviluppo della storia occidentale, dall’elaborazione dei principi della libertà individuale, dell’uguaglianza sociale, della cittadinanza civile, della sovranità popolare, e dallo stabilirsi delle istituzioni liberaldemocratiche nella loro forma statuale. I problemi pratici della democrazia – che naturalmente vede, e che assai vivacemente denuncia – stanno invece nelle potenze opache che si oppongono alle logiche della democrazia: i poderosi agglomerati d’interessi che si formano dentro la nostra società e che spingono i cittadini alla passività e al conformismo. Fra questi il principale è il capitalismo, nella forma imperialistica e aggressiva che ha assunto nell’età globale, precipuamente come guerra giusta contro il terrorismo e le tirannidi, e per l’instaurazione mondiale della democrazia: compito impossibile, che al più può addivenire all’instaurazione di una policrazia vissuta come illegittima dalle popolazioni interessate (Iraq).

La globalizzazione è quindi, oggi, l’estensione mondiale dei problemi reali della democrazia occidentale, e gli Usa pur essendo una forma politica democratica spesso prendono importanti decisioni in modo non democratico (Arato è ancora più duro su Israele, che pratica, a suo avviso, una democrazia razziale della disuguaglianza). Ma la validità della democrazia – come insieme di ideali e di istituzioni politiche – è testimoniata dal fatto che fra gli anni Settanta e i Novanta del XX secolo molte dittature e molti regimi odiosamente autoritari o ingiusti (dalla Grecia al Sudafrica) hanno capitolato e hanno dato vita a democrazie, non esportate ma nate all’interno di esperienze concrete, come rivitalizzazione dello Stato. Le principali mosse di Arato sono quindi la distinzione fra regola e realtà della democrazia, l’affermazione del suo valore normativo come regola, la denuncia delle sue contraddizioni attuali, e il collegamento fra democrazia e statualità efficiente (anche se ammette che uno dei più gravi problemi politici dell’età globale è che non è chiaro quali debbano essere le statualità: in altri termini, come dirimere le molte questioni legate alle secessioni e alle rivendicazioni di indipendenza).

Da parte di Hanafi, invece, si sottolinea vivacemente che se la democrazia è un bene universale in sé, non lo è però la democrazia liberale. Hanafi, infatti, di fatto rifiuta la distinzione proposta da Arato fra regola e realtà della democrazia liberale, e afferma che questa è in blocco caratterizzata da contraddizioni non solo empiriche ma originarie, sostanziali, che hanno tutte a che fare con il suo essere «occidentale». Infatti si fonda su nozioni di teoria politica come l’individuo singolo, e su assunti di uguaglianza formale (un uomo un voto), che sono propri della cultura europea moderna, e che precludono ogni discorso sul «buon» governo, limitandosi a fornire una regola quantitativa (il principio di maggioranza) per stabilire «chi» debba governare. Accanto a questa difficoltà di fondo, originaria, Hanafi elenca poi alcune contraddizioni dell’esercizio della democrazia occidentale, prima di tutto che essa non sa prevenire la passività e il conformismo (il pluralismo partitico può essere solo fittizio) e che alimenta o consente persistenti ingiustizie, esclusioni e prevaricazioni. A queste difficoltà egli non risponde come Arato dichiarandole accessorie rispetto all’idea di democrazia, ma le definisce a essa consustanziali. Soprattutto, infine, la democrazia liberale è «occidentale» perché in essa si esprime la lingua mentale, la sintassi politica, dei padroni del mondo, dei colonizzatori, dei «liberatori», che hanno sempre cercato di fare della democrazia (e dei valori che in essa si esprimono) la legittimazione del dominio occidentale sul resto del mondo, praticando, in nome della democrazia, gravi e sistematiche violenze di cui sempre si autoassolvevano (mentre non le tollerano quando i tiranni extra-occidentali cessano di essere docili). In quest’ottica, la globalizzazione è l’ultima modalità dello sforzo occidentale di spossessare il resto del mondo dei propri diritti di autodeterminazione: la globalizzazione, infatti, aggredisce gli Stati post-coloniali, privandoli della loro sovranità e quindi agisce in modo antidemocratico.

Allora, la democrazia liberale deve invece riconoscere di essere eurocentrica, ossia solo una delle possibili forme o idee (e quindi solo una delle possibili realizzazioni) della democrazia: deve quindi cominciare a imparare l’umiltà, e a riconoscere che il mondo non è tutto riconducibile alle categorie e alle istituzioni dell’occidente, che queste non sono le uniche (né nel bene né nel male). Si tratta insomma di relativizzare e «provincializzare» l’Europa, mostrando che essa non è che una fra le varie culture mondiali. E il primo modo per sostenere l’uguaglianza fra le varie forme della democrazia è per Hanafi l’affermazione che la democrazia è un mezzo per realizzare non tanto la formale indipendenza pluralistica dei singoli e dei partiti quanto piuttosto il concreto consenso nazionale, cioè una convivenza armoniosa fra cittadini: il che implica una netta contrapposizione fra un disvalore, la tirannide, e un valore, la libertà delle forme di vita e d’espressione, che Hanafi tiene sempre fermo. La convivenza pacifica, per lui, può essere raggiunta, in culture non individualistiche, attraverso il compromesso e il consiglio, e in presenza di una leadership forte, non necessariamente attraverso il voto o la contesa poliarchica.

Nel caso specifico che più lo riguarda, egli sostiene che la politica islamica può benissimo non essere teocratica, né ierocratica, né fondamentalistica, ma che ha in sé lo spazio teorico per coniugare libertà individuale, diritto pubblico, sovranità del popolo, benessere e dignità di tutti. Non si tratta, evidentemente, di dare pagelle o di attribuire i torti o le ragioni, né di ricondurre le critiche di Hanafi nel vecchio alveo del pensiero antidemocratico (al contrario, egli è fautore della democrazia) e neppure di accusare Arato di eurocentrismo (al contrario, egli è fortemente ostile alla esportazione armata della democrazia), ma di capire che pur attraverso forzature polemiche sono state toccate le questioni fondamentali del dibattito attuale sulla democrazia. Sono in primo luogo da sottolineare – come esempi di dialogo possibile – le convergenze fra i due autori, sul valore positivo dell’ideale democratico in sé, sul ruolo negativo del capitalismo e dell’imperialismo, sul ruolo centrale di uno Stato efficiente come promotore e veicolo della democrazia, sul ruolo delle élites che interagiscono sia con le istituzioni (attraverso la critica; tema preferito da Arato, il quale così rifiuta il circolo vizioso per il quale prerequisito della democrazia deve essere una cultura democratica già dominante nella società) sia con le masse (attraverso l’educazione alla libertà, per lo sradicamento dello spirito dittatoriale; tema preferito da Hanafi, il quale così rifiuta
ambigue terze vie fra autoritarismo e libertà).

Alle distanze teoriche già ricordate – inerenti la struttura individualistica delle categorie fondative della democrazia occidentale –, assai importanti, vanno aggiunte anche le diffidenze e le distanze pratiche che emergono fra i due intellettuali, soprattutto determinate da due nodi storici irrisolti e brucianti: il rapporto fra Israele e i palestinesi, e quello fra gli Usa e l’Iraq (e più in generale il mondo islamico). Oggi – dopo il trauma del colonialismo storico – sono la guerra di difesa nazionale di Israele e la guerra mondiale degli Usa al terrorismo «lo strazio e il grande scempio» che impediscono una comunicazione politica e intellettuale non distorta (benché anche Arato sia duramente critico di questi conflitti: è qui, appunto, il problema). Davanti a queste perenni emergenze concrete, a queste lacerazioni feroci della fiducia, gli intellettuali qualcosa (benché poca cosa) possono fare: appunto, tenere conto di quei conflitti ma non lasciare che in essi sprofondi e si perda la potenza, quale che sia, del logos.

Rifiutare la logica amico/nemico, e la mortale incomunicabilità che ne deriva, è quindi il primo e indispensabile passo. Il secondo è riconoscere che la democrazia come ideale universale oggi, nell’età globale, può essere intesa solo come la consapevole capacità degli uomini e delle donne di controllare la loro vita associata attraverso la ragione comunicativa e le istituzioni pubbliche: e che questo obiettivo – che coincide con il rispetto e la valorizzazione delle pluralità culturali che arricchiscono l’umanità – è raggiungibile per molte vie (non però attraverso ogni via: la democrazia resta normativa: sa escludere alternative, sa criticare ingiustizie e oppressioni, ma non solo dal punto di vista individualistico-liberale). Oggi, l’unico illuminismo possibile sta nel riconoscimento che all’unicità di un ideale non può corrispondere un’unicità di pensiero né di istituzioni.

Carlo Galli insegna storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna. Ha tra l’altro pubblicato: Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno (Il Mulino 1996) e Spazi politici (Il Mulino 2001), La guerra globale (Laterza 2002), insieme a Roberto Esposito Enciclopedia del pensiero politico (Laterza 2005), e ha curato il Manuale di storia del pensiero politico (Il Mulino 2006).

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