“Visto? Non siamo né xenofobi né isolazionisti”
Giancarlo Dillena (Corriere del Ticino) con Matteo Tacconi 23 February 2009

Positiva, quindi, la scelta degli elvetici. Ma ci sono dei problemi aperti – ragiona Dillena, in questa intervista a Resetdoc.org – e falsi miti da sfatare. Primo: il quesito referendario ha confermato che nel Ticino, che si è espresso in maniera opposta rispetto alla stragrande maggioranza dei cantoni della Conferazione, i problemi della sicurezza (non per ciò che attiene il lavoro) sono molto sentiti, complice una situazione economica più precaria, rispetto al quadro complessivo nazionale. Secondo: non è vero che la Svizzera è un paese che periodicamente tende all’isolazionismo e alla xenofobia. È, più semplicemente, una nazione dove simili problematiche sono tali e quali a quelle vissute da altri paesi europei come Germania, Gran Bretagna e la stessa Italia. Insomma, le generalizzazioni vanno evitate.

Direttore, con il recente referendum la Svizzera ha detto sì alla libera circolazione dei lavoratori romeni e bulgari sul proprio territorio. Inizialmente sembrava che l’esito della consultazione fosse più incerto. Ma il 59,6% è una percentuale importante. In generale, come valuta la tornata referendaria?

Effettivamente il risultato è stato migliore rispetto alle aspettative. Su di esso ha probabilmente pesato la constatazione che la via bilaterale – cioè il pacchetto di accordi Svizzera-Ue – ha dato fin qui risultati positivi, in particolare per l’industria di esportazione. Anche sul fronte della libera circolazione delle persone le paventate "invasioni" di cittadini comunitari in Svizzera non si sono verificate. Questo non vuol dire che non rimangano dei problemi, a cominciare per esempio dalla questione del segreto bancario.

La posizione della destra elvetica – chiudere la porta alla manodopera Ue, nel timore della concorrenza a basso costo dei lavoratori dei nuovi paesi comunitari – è stata etichettata dalla stampa internazionale come “xenofoba” e “isolazionista”. Confermerebbe, sempre secondo la stampa estera, la tendenza del paese elvetico a oscillare tra aperture verso l’esterno e brusche chiusure. Cos’è che produce questa dicotomia? Fattori economici, temi culturali?

La stampa internazionale ha una spiccata tendenza a rifugiarsi negli stereotipi. Così la Svizzera, che già oggi ha il 25% di popolazione straniera sul suo territorio (quale altro paese europeo è in queste condizioni?), non appena ha qualche reticenza ad aprire le sue porte è subito bollata con questi epiteti. Ma allora è "xenofoba e isolazionista" anche la Gran Bretagna, quando i suoi lavoratori protestano perché un’azienda italiana porta il suo personale – il caso è recente – a svolgere lavori in territorio britannico. E tale è anche la Germania quando, dopo aver accolto i lavoratori polacchi a basso costo – non solo gli idraulici – non appena il mercato è in difficoltà fa in modo di rispedirli discretamente a casa loro. La Svizzera è poi un paese che si regge su una serie di complicati equilibri (multilinguismo, federalismo, consenso fondato sulla democrazia diretta), che mal sopportano i bruschi cambiamenti. Inoltre le sue esigue dimensioni non le permettono i margini di manovra di altri grandi paesi europei. Ci sono naturalmente anche posizioni estreme, ma queste le troviamo ovunque. Tempo fa mi capitò di leggere su un muro di Cagliari la scritta "fuori gli Italiani dalla Sardegna!". Credo quindi che il problema sia comune un po’ a tutti.

Nel corso degli ultimi anni la Svizzera ha potenziato i propri legami con l’Unione europea. Giudica virtuoso questo fatto?

La possibile caduta degli accordi bilaterali nel loro complesso è stata utilizzata come argomento-spauracchio dai favorevoli, prima del voto. In realtà ci sono fondate ragioni per ritenere che, anche in caso di esito negativo, si sarebbe trovata una soluzione per mantenere in vigore quanto pattuito fin qui. Gli accordi bilaterali sono infatti vantaggiosi per la Svizzera ma anche per la Ue, dato che la Confederazione rappresenta per l’Unione un socio contribuente a cui contemporaneamente non deve distribuire sussidi (abbiamo versato un miliardo di franchi al fondo di coesione europea). Fortunatamente, comunque, il problema non si è posto, e sulla base del voto espresso dai cittadini si potrà continuare negoziando con reciproco vantaggio.

Il Ticino è stato uno dei pochi cantoni a esprimersi contro l’apertura del mercato del lavoro interno. Perché il cantone italiano ha votato in questa maniera?

Il Ticino è una regione con un’economia sostanzialmente fragile, a stretto contatto con una potenza economica quale la Lombardia, ma anche con tutti i problemi che conosce l’Italia e di cui ci giunge una eco quotidiana attraverso i media. I timori di un aumento della pressione sulla nostra già incerta situazione economica e soprattutto di una maggiore facilità della circolazione di immigrati dall’est (di cui i media italiani parlano ogni giorno e non per riferirne imprese positive…) sono comprensibili. Il Ticino si aspetta una risposta a queste inquietudini soprattutto dalla Confederazione, che deve evitare in tutti i modi di fare del suo Meridione un’area ancor più debole. In Italia qualcuno ha interpretato il "No" ticinese come un voto anti-italiano. Si è perfino paventata una chiusura dei confini ai frontalieri, il che è una sciocchezza (esistono e sono preziosi per l’economia ticinese da ben prima che esistesse l’Ue!). Ma con quel che succede a pochi passi da noi e con quello che ci dicono molti amici italiani sulla situazione della sicurezza nelle aree intorno a Milano, qualche motivo di preoccupazione è certamente giustificato. Comunque quel che conta, nei rapporti con l’Unione, è il voto nazionale.

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