Cosa pensiamo, cosa vogliamo
Reset Dialogues 16 November 2006
Le condizioni di pari dignità

Creare una situazione di reale parità nel dialogo interculturale è una premessa onerosa ma indispensabile. Alla difficoltà che accompagna in generale le relazioni politiche internazionali si aggiunge la complessità di un confronto di idee che ha per obiettivo quello di approfondire la conoscenza dei diversi punti di vista, dei contesti e delle tradizioni in cui si collocano le forme di pensiero che gli altri rappresentano. Impossibile trascurare il fatto che il dialogo nelle sua forma più compiuta – quella che perseguiamo – non può fare astrazione né dalle diversità politiche né dalle relazioni di potere che esso coinvolge in modo diretto o indiretto (Hassan Hanafi). Nel momento in cui si affaccino – da qualsiasi parte – diffidenze e risentimenti che hanno radici nella storia coloniale o nelle disuguaglianze economiche o in guerre e contrasti recenti che vengono vissuti come umilianti, anche questi elementi vanno sottoposti a quel genere di confronto che Fred Dallmayr ha definito «etico-ermeneutico»: un tipo di dialogo che coinvolge l’intero background culturale e spirituale, letterario e artistico, e soprattutto le aspirazioni e sofferenze esistenziali, il confronto degli stili di vita e delle mentalità che vi sono collegate.

Confronto di mentalità

La pari dignità e reciprocità è molto onerosa perché chiede di capire anche quello che viola le forme mentali più radicate da ogni parte: chiede per esempio ai liberali europei di capire la reazione risentita di musulmani insultati nella loro fede, ma chiede anche agli intellettuali dei paesi musulmani di capire che repressione e violenza contro giornalisti e scrittori non solo violano astratti principi di libertà ma feriscono un sentimento di libertà che vive nella mentalità di cittadini cresciuti in società democratiche aperte (Otto Schily). La difesa di una condizione di parità nel dialogo è molto onerosa anche perché la accettazione della condizione di parità, anche soltanto metodologica, sembra legittimare lo status quo e dunque beneficiare generosamente chi è sospetto di soprusi a danno dell’altra parte. Questa sospensione – o rielaborazione – del risentimento è questione cruciale, obiettivo forse principale di ogni progetto di dialogo. Solo praticando occasioni di incontro è possibile addestrarsi ad una più equilibrata visione degli altri e a depurare le differenze di giudizio politico sulle situazioni critiche – che non possono essere preliminarmente superate – da questo sovraccarico di tensione che deriva dalla diversità dei contesti, delle storie, delle mentalità.

Il “double standard”

Il tema ricorrente del double standard, ovvero dei “due pesi e due misure”, è una formula che contiene una protesta di sfondo contro uno squilibrio in potere, la denuncia di una prevaricazione da parte del più potente contro il più debole, la critica dell’egoismo e dell’etnocentrismo degli altri contro una propria condizione di vittima. La disputa sulla collocazione del “centro” e della “periferia”, dell’”io “ e dell’”altro” è una dominante nel dibattito post-coloniale ed ha una base storica oggettiva, i cui effetti sono resi particolarmente acuti nel mondo arabo (e più in generale musulmano) dal conflitto mediorientale e dagli squilibri economici. Il tema del double standard tende a venir esteso in tutti i campi e comporta una tendenziale struttura della discussione che si polarizza tra Est e Ovest, tra Occidente e Oriente, tra amici di Israele e amici dei Palestinesi, Stati Uniti e mondo arabo. Alla polarizzazione (che tende a estremizzare la posizione degli altri) si aggiunge la tendenza a percepire l’altra parte come una unica entità compatta, come un soggetto dotato di una sua propria volontà e responsabilità e di conseguenza ad accusare l’intero “Ovest” o l’intero “Islam” di qualche imputazione. Una rappresentazione che non corrisponde affatto alla realtà in entrambe le direzioni, sia che si tratti del rapporto tra Occidente, guerra in Iraq, torture di Abu Ghraib sia che si tratti di quello tra mondo islamico, resistenza palestinese, terroristi suicidi. Oppure del rapporto in generale di entrambe le sponde nei confronti delle proprie componenti più radicali, estreme, violente. Sono perciò essenziali per migliorare la reciproca comprensione tutte le iniziative che avvicinano a una visione realistica e articolata, anche perché la critica del double standard non proviene solo da ambienti estremisti ma caratterizza anche le posizioni moderate, corrisponde a una sfocata esigenza di equilibrio che nasce per lo più da una visione sommaria degli Altri come un unico blocco (Giuliano Amato).

Un esempio: Copenhagen-Vienna

Un esempio di questo genere di deformazioni lo ricavo da una intervista ad Al-Sayed Yassin, intellettuale egiziano di cultura secolare, fondatore del Centro studi strategici del Cairo. L’intervista comparirà, insieme ad altre sul sito dell’Associazione. Chiama in causa il double standard a proposito della reazione prevalente nel mondo occidentale alle vignette anti-islamiche del Jilland-Post, e contraria a provvedimenti penali nel nome della libertà di opinione e di stampa. Yassin osserva che questo genere di reazione è stata pressoché assente nel caso della condanna di David Irving a Vienna per le sue tesi negazioniste sull’Olocausto. La osservazione di Yassin è verto da discutere e in effetti una discussione su questo tema comparirà sulla rivista italiana “Reset” e poi sul sito già citato, con interventi di Marcello Flores, Michael Walzer e altri. Sia le reazioni alla sentenza di Vienna che quelle alle vignette di Copenhagen andrebbero dunque considerate in una prospettiva globale, perché esse hanno effetti, come si vede, sul piano globale. E uno sguardo di quel genere suggerirebbe probabilmente nuovi argomenti a tutti. L’intera discussione sull’Olocausto nel mondo arabo è considerata con il metro di misura dell’influenza del “potere sionista” e lo sberleffo nei confronti della religione musulmana, da parte dei giornali occidentali o di qualche sconsiderato leader politico, è giudicata con il metro di misura delle minoranze musulmane in Europa che chiedono risarcimento per il loro orgoglio ferito.

Il dialogo sulla democrazia

Il dialogo è efficace se riesce a tenere sotto controllo le asimmetrie di vario genere che lo ostacolano. Fred Dallmayr, discutendo con Hanafi, ha messo in guardia nei confronti del rischio di farsi scudo di queste asimmetrie per precludere il dialogo invece di chiarificarle e neutralizzarle per renderlo migliore. Su un terreno reso difficilissimo da risentimenti e scambi di accusa tra Occidente e mondo arabo, dalla crisi palestinese e dalla guerra in Iraq, è difficile immaginare che la discussione sullo sviluppo della democrazia nei paesi non democratici del mondo possa svolgersi come pura espansione del “potere di seduzione” dei modelli politici e culturali occidentali o come applicazione di un modello pedagogico con l’Occidente in cattedra e l’Oriente sui banchi di scuola. Acquista un rilievo crescente, dal punto di vista di chi come noi auspica uno sviluppo globale dei regimi democratici e delle società aperte, la visione della democrazia come risultato di un processo di interpretazione e reinterpretazione delle singole e diverse tradizioni e storie culturali. È ragionevole pensare che abbiano ragione Charles Taylor, Michael Walzer e Amartya Sen quando sostengono che ogni cultura contiene in se stessa principi e idee che possono ispirare i popoli ad avanzare richieste politiche che rendano responsabili le forme di governo verso i governati, e richieste di riconoscimento dei propri diritti da parte dei governati. Principi e idee che possono ispirare l’impegno a una interpretazione critica delle fonti della propria tradizione, della propria morale, dei propri testi. (Nadia Urbinati)

Gli scambi del passato

Il confronto sulle fasi storiche dello scambio tra culture si rivela utile nell’avvicinare a una conoscenza più articolata delle altre parti in dialogo. In particolare le relazioni alla conferenza del Cairo (Burnett, Campanini, Ehmad, Gutas) hanno messo in luce sia le situazioni di contesto che hanno reso possibili le fasi di più intenso scambio sia i modelli di integrazione culturale che si sono realizzati in alcuni momenti favorevoli della storia, dal modello Baghdad al modello andaluso. La traduzione dei testi scientifici dal greco all’arabo nel nono secolo e dall’arabo al latino nel XII e XIII secolo sono stati momenti di svolta e di eccezionale avanzamento nella storia umana, paragonabili alla rivoluzione scientifica europea nel Seicento. Lo scambio è nato dal bisogno che una cultura sente di colmare le sue lacune, come accadde per il mondo latino medievale, povero di matematica, fisica e medicina. (Burnett) L’approfondimento della conoscenza dello sfondo aiuta il dialogo perché consente di guardare la situazione presente in uno schema temporale, colloca le differenze attuali in una situazione storica, arricchisce la conoscenza di dimensioni altre rispetto a quelle che sono proprie e consuete per ciascuno, stimola una riflessione sui programmi scolastici dei rispettivi paesi, contribuisce a dissolvere diffidenze, suggerisce nuove iniziative per il futuro che valorizzino una conoscenza della storia degli Altri che ne complichi e articoli la visione ostacolando la formazione di blocchi omogenei e di stereotipi.

Orientalismo e occidentalismo

La formula di “orientalismo” ed “occidentalismo” come etichette di contenitori delle deformazioni reciproche è stata generalmente accettata, o non contestata, anche se qualche voce di parte egiziana ha manifestato, velatamente e indirettamente, una sorta di diritto a una certa fase di “occidentalismo” come studio dell’ “Io-centro” da parte dell’ “Altro-periferia”, a ruoli rovesciati: l’altro diventa Io. D’altra parte anche il termine Orientalismo non è indicatore soltanto di una deformazione ma di un intero ciclo storico di studi da parte dell’Occidente. L’Occidentalismo nella versione di Margalit – coniato sul modello della reazione antimoderna della cultura che produsse i kamikaze giapponesi negli anni Quaranta – è piuttosto un raccoglitore di deformazioni della civilizzazione occidentale, fino alla degradazione del nemico e alla stigmatizzazione della sua “idolatria” (come nei testi sacri) per la metropoli del peccato, del consumismo e del nichilismo. L’Occidentalismo di Margalit non è esattamente speculare all’Orientalismo di Edward Said. Ma il suo contributo è penetrante: sia nel libro che ha scritto con Ian Buruma, sia nel paper presentato a Roma il tema della visione della civilizzazione da parte del Sud, o dell’Est, del mondo è posto in modo da accentuare che il contrasto non è “tra le culture” ma “tra le culture e la civilizzazione” (ovvero la modernità). Ma anche chi rivendica con orgoglio, per simmetria, il diritto a una fase post-coloniale di studi dell’ “Altro” occidentale, ammette poi la necessità di guardare “al di là” di questa fase (Hanafi).

Tra secolarismo e riformismo religioso

Il confronto con gli intellettuali dei paesi musulmani da parte di quelli europei e americani, e in misura particolarmente acuta in Egitto e in Iran, nonostante le notevolissime differenze tra i due contesti, mette in luce una complessa discussione nell’ambito della cultura dei paesi islamici tra una ispirazione che possiamo definire secolare e una ispirazione di riformismo religioso. Un intellettuale affermato e di lunga esperienza come Sayed Yassin, per esempio, definisce se stesso, come lo stato egiziano, sulla base del concetto di secolare. Altri come Mohammad Salmawi, presidente degli scrittori egiziani, preferisce definirsi “civile”, sia perché ritiene il concetto di secolare portatore di una contrapposizione troppo accentuata con la religione, sia perché definire secolare lo stato egiziano, che certamente è “più secolare” di altri stati del mondo islamico, vuol dire descrivere una situazione che si adatta di più agli stati europei. E se si assume quello europeo come standard di secolarizzazione lo stato egiziano non può essere definito “secolare” nello stesso modo (Salmawi).

La discussione nel mondo musulmano tende talora a divaricarsi tra intellettuali “secolari”, nel senso, variamente interpretato, di liberali (per questo si rimanda, tra i molti possibili riferimenti, al lavoro di Filali Ansari e a quello di Ramin Jahanbegloo) impegnati nella modernizzazione delle istituzioni dei loro paesi ma non coinvolti nella discussione teologica ed altri che ritengono necessario, indispensabile, per consentire un’evoluzione liberale degli ordinamenti e della legislazione degli stati del mondo islamico, un’interpretazione del testo coranico e della sunna che consenta di comprendere il contesto storico in cui certe affermazioni venivano intese in altre epoche e di accedere a una più profonda comprensione del significato dei testi sacri nella nostra epoca. Si tratta di ordini di discussione che spesso non si incontrano, a volte si contrappongono e più spesso si ignorano. Sul ruolo della religione è in corso in Egitto una vasta discussione: l’elezione di una consistente minoranza di deputati che appartengono al movimento dei Fratelli musulmani l’ha resa ancora più acuta.

In forme assai diverse da quanto avviene in America e in Europa, il mondo islamico assiste a un processo di ritorno della spiritualità religiosa che non è espressione di una sottomissione a regimi teocratici. E se fu incoraggiata nell’epoca di Sadat, non lo è stata in quella di Mubarak. Di sottomissione e repressione si può invece parlare in alcune situazioni, come l’Iran, dove l’ondata religiosa è stata molto forte all’epoca della rivoluzione komeinista, ma è andata poi restringendosi in parallelo con la perdita di popolarità del regime dei mullah. Intellettuali come Abdolkarim Soroush, iraniano e sciita, e Nasr Abu Zayd, egiziano e sunnita, sostengono riforme liberali, pienamente liberali e democratiche, ritenendo di poter loro aprire la strada attraverso il proprio lavoro teologico di riformatori.
La complessità, ma anche l’interesse fortissimo, di questa discussione suggerisce di considerare il tema del rapporto tra “secolarismo, liberalismo e riformismo religioso” come centrale e come possibile focus dei prossimi incontri. Il sito dell’Associazione aprirà subito la discussione con interventi di Yassin, Salmawi, Hanafi ed altri.

Differenze sul tema religioso

L’influenza della religione sulla vita politica è oggetto di vaste discussioni in tutto il mondo, occidentale come orientale. Il tema “postsecolare” avanzato nel contesto europeo da Klaus Eder e Juergen Habermas tocca una questione che riguarda anche il mondo musulmano: il ritorno della religione sulla scena pubblica, la sua maggiore visibilità, la sua richiesta di una maggiore influenza nella vita collettiva. Ma non è utilizzabile in questo contesto anche se mette l’accento su fenomeni comuni – una ripresa della spiritualità religiosa e un profilarsi di contrasti tra credenti e non credenti, e tra credenti di una pluralità di religioni – perché acquista il suo pieno significato nel descrivere la situazione di regimi liberali in cui la secolarizzazione abbia compiuto pienamente il suo percorso. E non è applicabile al mondo islamico dal momento che esso non ha conosciuto un processo di secolarizzazione radicale come in Europa, con la sola eccezione entro certi limiti della Turchia. Tuttavia l’area di problemi che riguarda l’affacciarsi di assoluti religiosi nella vita pubblica presenta qualche affinità e ci sono le condizioni perchè nel dialogo interculturale si sviluppi una migliore comprensione tra intellettuali occidentali e orientali. O almeno per sviluppare una fertile discussione in comune.

Il confronto tra tesi diverse potrebbe essere oggetto di prossimi incontri. La tesi di Margalit è per esempio che la religione abbia un ruolo rilevante nel conflitto mediorientale e in generale nella tensione che attraversa il mondo tra occidente e popolazione musulmana. Altri sostengono invece che, sia nel caso di queste tensioni, sia nel caso del terrorismo che inalbera ragioni religiose, le cause dei conflitti e delle tensioni sono di natura politica, economica, sociale e vengono soltanto rivestiti di ideologia religiosa (è la tesi di Olivier Roy, ma anche di Navid Kermani). Analogamente vi sono giudizi diversi sulla funzione del dialogo interreligioso che, in quanto vero e proprio dialogo, viene ritenuto impossibile. Significativo che un giudizio del genere sia frequente tra intellettuali “civili” e “secolari” in Egitto (Salmawi, Yassin), secondo i quali gli incontri tra fedeli di diverse fedi sono solo testimonianza e non dialogo, mentre viene difeso e praticato da altri (Hanafi) o indicato come necessario per arricchire la comprensione reciproca di elementi che appartengono alla storia e all’anima delle comunità, come sfondo necessario alla costruzione di una eticità condivisibile che ha tracce comuni nella filosofia di Aristotele, Al Farabi, Hegel (Dallmayr). E non ho bisogno di ricordare che tra i membri del comitato scientifico della nostra associazione, che persegue il dialogo tra le culture e non tra le religioni, figura il direttore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, al centro di molte rilevanti iniziative interreligiose.

Le radici della non violenza

Una direzione di lavoro suggerita dagli interventi di Jahanbegloo e dal lavoro di Dallmayr in generale è quella di promuovere le figure e i momenti della storia della cultura e della contemporaneità che hanno affermato i principi della non violenza radicandoli entro diverse tradizioni e hanno sostenuto la possibilità di un allargamento e fusione di orizzonti diversi: a due protagonisti del Novecento, come il Mahatma Gandhi e Martin Luther King, Jahanbegloo affianca il pakistano Abdul Ghaffar Khan, better known as Badshah Khan, whose profound “belief in the truth and effectiveness of nonviolence came from the depths of personal experience of his Muslim faith.” E propone ancora Toshihiko Izutsu, il giapponese che propone una fusione etica di sufismo e taoismo. Dallmayr già in passato ha suggerito percorsi di approfondimento che valorizzino figure della cultura capaci di fondere orizzonti, del presente e del passato da Goethe fino a Ramon Panikkar e Abdolkarim Soroush. Riprendendo una immagine di Amin Malouf si potrebbe dedicare una sessione di lavoro al “pensiero di cresta”, quello che non si lascia scivolare nel “cavo dell’onda” e mantiene la capacità di vedere che talvolta a confliggere sono non un torto evidente contro una luminosa ragione ma buone ragioni, seppur diverse. Sono i “conflitti di ragioni” spesso i più sanguinosi e insanabili, secondo la definizione dell’israeliano Amos Oz (come nel caso di Israele-Palestina), a esigere un maggior sforzo per rimanere “in cresta”, a coltivare una certa dose di ambiguità con la quale imparare a convivere, senza sentirsi a disagio, per ispirare soluzioni equilibrate. La raccolta dei nomi da collocare su questa “cresta”, come vedete già iniziato, potrebbe essere uno degli obiettivi di un lavoro interculturale come quello che l’Associazione si è prefisso.

Il filtro dei media

La prospettiva di una migliore comprensione degli Altri non può evitare di porsi il problema delle forme di comunicazione. La conoscenza degli effetti della diffusione della televisione satellitare è ancora piuttosto scarsa ed ha bisogno di accelerare in modo da fornirci un quadro più preciso dello sviluppo delle immagini incrociate che le diverse culture forniscono di sé agli Altri e degli Altri al proprio bacino di appartenenza. La vicenda esplosiva e violenta delle vignette danesi è stata attentamente presa in esame durante i nostri incontri ma merita un supplemento di indagine. Ci sono molti indicatori che lasciano supporre che alcuni degli effetti della televisione finora attentamente studiati sul piano nazionale e delle aree linguistiche omogenee si proiettino anche su scala internazionale. Mi riferisco agli effetti conflittuali della caduta dei sipari che impediscono la visione del retroscena e allargano il “cortile di casa” a livello globale. “There are no local debates anymore. You can no longer play little games in your own small backyard without the world noticing. We are truly experiencing what it means to live in a globalized public sphere.” (Lau). Vanno ripresi, e in qualche caso cominciati, studi su scala internazionale, studi del genere di quelli che Joshua Meyrowitz ha fatto sulla società americana. Se saltano le paratie che tenevano molte vicende confinate in un retrobottega bisogna abituarsi a controllarne le conseguenze. Il provincialismo estremo può aere conseguenze catastrofiche. Ma anche altre tendenze dell’informazione mass-mediatica vanno analizzate: quelle che hanno già grandemente influito sulla vita politica nazionale e che caratterizzano la stessa struttura dell’industria dell’informazione: rapidità ossessiva, personalizzazione estrema, drammatizzazione, decontestualizzazione, accentuazione dei fattori di disordine, preclusione nei confronti dell’ordinaria e quieta normalità. Gli apparati dell’informazione selezionano per la loro stessa logica fattori che incrementano gli ascolti e che nei tempi lunghi possono coltivare una immagine degli Altri che ne estremizza e radicalizza i tratti. Si capisce che l’Occidente nichilista e pornografo della metropoli degli “idolatri” “passa” il filtro mediatico più facilmente di quello bonario e rassicurante delle buone famiglie americane, o della ordinata vita delle campagne europee; così come le invocazioni religiose dei tagliatori di teste di Al Zarkahwi “passano” in video sul web molto più di una radiosa e tranquilla giornata del mercato intorno alla moschea di Al Ahzar al Cairo. È molto probabile che i media radicalizzino e polarizzino le immagini, aiutando un processo di stereotipizzazione, che diventa ostacolo grave alla comprensione e fonte di conflitti. Si tratta di un tema da approfondire in incontri internazionali con il contributo di specialisti nell’analisi dei media e della loro influenza

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