Passeggiando a Moore Street
Mattia Del Conero 27 May 2011

Dicono, a Dublino, che lo specchio più fedele dei cambiamenti socio-demografici vissuti dall’Irlanda negli ultimi vent’anni sia Moore Street. Dicono che se vuoi vedere, annusare e toccare il guazzabuglio di etnie presente sull’isola, Moore Street è il posto giusto in cui andare. Torto non ne hanno. Una ricognizione lungo questa via, che si srotola appena a nord del cuore della capitale, racchiuso dal Trinity College, da Temple Bar con i suoi locali e dalle vetrine luminose di Grafton Street, offre la misura di come la storia si sia rovesciata, dando vita a una rapida rivoluzione che ha trasformato l’Irlanda da terra d’emigrazione a terra d’immigrazione, da nazione monoculturale a spazio multiculturale. Le cifre lo confermano. Attualmente gli stranieri costituiscono almeno il 10% della popolazione complessiva (4,5 milioni). A Dublino la percentuale sale ancora.

Oltre il ciottolato, la babele

Fino a vent’anni fa Moore Street e il suo caratteristico ciottolato erano riserva esclusiva dei venditori irlandesi di frutta e verdura, luogo di mercato e d’incontri. Da questo punto di vista poco è cambiato. Le bancarelle d’ortofrutta ci sono ancora e parecchi dublinesi continuano a venire qui a comprare carote, zucchine, melanzane, pomodori, broccoli, patate, mele, pere e altre mercanzie. Tutte naturali e tutte commerciate a prezzi inferiori rispetto alle merci, spesso dopate, che si trovano sui banchi dai supermercati. Comprano, i dublinesi. Comprano e scambiano opinioni sulla politica, sul tempo che fa, su questa o su quest’altra cosa. Alla maniera di sempre, quella straight-talking. Moore Street è sempre Moore Street, sotto quest’ottica.

Ma oltre il ciottolato, sui fianchi della via, la rivoluzione si materializza e prende la forma di una vera e propria giungla di negozi etnici, gestiti da cinesi, africani, cingalesi, indiani, pachistani, romeni, polacchi e sudamericani, dove si vende di tutto e di più: carni, spezie, vestiti, oggetti d’elettronica, chincaglierie e cianfrusaglie, parrucche, trucchi, telefonini, scarpe, oggetti per la casa. Siccome lo spazio non basta più, nel 2007 è stato inoltre inaugurato un centro commerciale, il Moore Street Mall, che costituisce il proseguimento indoor della babele di lingue, alfabeti e genti che si dipana lungo i lati della strada.

Il mondo in piccola strada di Moore Street e del Mall testimonia due cose. La prima è che i “vecchi irlandesi”, a giudicare dalla clientela di stirpe autoctona che qui s’aggira e si rifornisce, si sono abituati ai “nuovi irlandesi” e reputano la loro presenza nella società un fatto consolidato. La seconda, invece, è che una parte dell’immigrazione s’è ormai sganciata dai lavori umili, ha messo da parte qualche risparmio e li ha reinvestiti, provvedendo tra l’altro a riqualificare, ha osservato tempo fa l’Economist, tutta quella porzione di città che si snoda intorno a Moore Street e che versava, in precedenza, in uno stato di abbandono e decadenza. I piccoli imprenditori stranieri hanno preso in affitto i vecchi locali inutilizzati, dando colore e ritmo a queste contrade.

La tigre multietnica

È stata l’avanzata economica registrata tra il 1995 e il 2007 a generare il melting pot irlandese e dublinese. Grazie ai fondi europei, alle riforme e a un’economia sempre più basata su servizi e finanza, l’isola ha macinato progresso e ricchezza, crescendo, crescendo e crescendo. Molti irlandesi che negli anni ’80 avevano preso parte all’ultima consistente migrazione sono rientrati alla base attratti dalle nuove opportunità. Insieme a loro sono arrivati anche gli immigrati, anch’essi calamitati dall’avanzata della “tigre celtica” e allettati, in particolare, dalla possibilità di inserirsi in alcuni segmenti di mercato lavorativo che gli irlandesi, emancipatisi economicamente e socialmente, hanno lasciato scoperti. Le autorità, dal canto loro, hanno incoraggiato lo sbarco dei lavoratori stranieri, stimolando il progressivo affermarsi della dimensione multiculturale, che ormai ha messo radici ovunque: da Cork a Limerick, da Galway fino, ovviamente e naturalmente, a Dublino. A ogni strada di Dublino. Con Moore Street a farla da padrona.


La colonia polacca

Tra i tanti esercenti di questa viuzza, i polacchi indossano i panni degli assoluti protagonisti, soprattutto all’interno del Moore Street Mall, dove la loro presenza è egemonica. Si contano infatti una panetteria, una tavola calda, una libreria, un centro estetico, un caffè-pasticceria e una macelleria. La situazione fotografa fedelmente la crescita incredibile della comunità polacca d’Irlanda. Fino a pochi anni i polacchi si contavano sulle dita di una mano. Adesso, invece, sono almeno 100mila. Addirittura 150mila, secondo qualcuno. Se non 200mila, a sentire altri. Mettiamola così: siano quanti siano, sono comunque tanti. Tantissimi.

Il loro arrivo è il frutto della scelta, coraggiosa e controcorrente, fatta dal governo irlandese nel 2004: aprire il proprio mercato del lavoro ai cittadini degli otto paesi dell’Est che all’epoca entrarono in Europa. Allora la Polonia non era la nazione sana e robusta di oggi. Il lavoro scarseggiava, l’economia non girava, il futuro stentava a farsi inquadrare. In molti, così, si recarono all’estero cercando occupazione e riscatto sociale. In molti arrivarono proprio qui in Irlanda. Mille, diecimila, ventimila, cinquantamila, centomila, più di centomila. In pochi anni il numero dei polacchi è aumentato esponenzialmente e ha superato quello dei cinesi, anche qui numerosissimi (80mila in tutto), che fino a cinque anni fa, senza considerare i britannici (circa 120mila), forestieri ma fino a un certo punto, rappresentavano la comunità straniera più grande del paese.

Pony-express, camerieri, muratori, autisti, badanti, garzoni d’albergo, stagionali agricoli: questi i mestieri che i polacchi si sono messi a fare in terra d’Irlanda. Ma nel corso di questi sei anni, poiché il gruppo s’è allargato a vista d’occhio, sono nati anche negozi d’alimentari (i polski sklep), ristoranti e coiffeur, i pilastri di una vera e propria microeconomia polacca. I polacchi si sono inseriti presto e bene. Ma anche gli irlandesi si sono adattati ai polacchi. Due esempi: nei locali di Dublino, oltre alla classica Guinness, si spina anche birra polacca. A partire dal 2006, inoltre, il quotidiano Evening Herald pubblica ogni mercoledì un inserto polacco, il Polski Herald.

Chi parte e chi resta

Adesso, con l’Irlanda martellata dalla crisi economica e salvata dal bailout, c’è il rischio che i polacchi e non solo i polacchi tolgano le tende e se ne tornino a casa. Alcuni già l’hanno fatto. Di lavoro, dopotutto, c’è n’è di meno. Specialmente nel settore dell’edilizia, il comparto che assorbe più manodopera straniera. Il primo a sentire gli effetti della crisi. Ma una cosa è certa: in questi ultimi anni l’Irlanda è cambiata e il modello multiculturale, anche se una parte degli immigrati dovesse andarsene, cercando altrove nuove chance, riuscirà comunque a tenere. In attesa che altri immigrati, quando la burrasca sarà passata, s’insedino sull’isola.

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