La donna velata e l’Islam politico globale
Seyla Benhabib con Giancarlo Bosetti 14 May 2009

Il ruolo della donna e del corpo femminile è il focus di possibili conflitti in Europa. Passa da qui il tema del pluralismo, dei diritti delle minoranze e del loro trattamento in Europa, particolarmente interessanti per una filosofa della politica e del diritto.

Ci sono diversi temi interrelati, uno dei quali è la costituzione delle identità. Nel contesto delle immigrazioni, dove più culture coesistono nello stesso spazio ma non conoscono molto l’una dell’altra, vi è sempre l’esigenza di preservare i confini della propria cultura. Il fardello di preservare l’identità del gruppo ricade quasi sempre sulla sfera privata per l’immigrato, in quanto presumiamo che il resto, ovvero la sfera dell’economia pubblica e la forma dello stato siano cose che condividiamo. In queste circostanze il controllo sul corpo delle donne ha una funzione strategica.

Problemi di identità e di genere convergono nella donna.

Credo che la questione dell’identità in generale abbia molto in comune con le istanze di genere e la distinzione dei confini tra uomo e donna. Soprattutto nel contesto del mix delle diverse culture c’è la tendenza a enfatizzare il privato, e dunque la sfera del femminile, che definisce il gruppo. E’ per questo motivo che talvolta si innescano reazioni violente quando in alcune minoranze e comunità di immigrati la donna all’improvviso rompe con il gruppo, per esempio abbandonando l’Islam, per abbracciare la cultura della maggioranza. Quando individui appartenenti a diverse lingue, culture e religioni vivono insieme, o almeno sono costretti a farlo, senza condividere molto della loro cultura civica, usano i simboli visivi come indicatori per interpretare l’identità. La visualità diventa fondamentale in questi contesti e la comunicazione viene incentrata sul simbolismo di un foulard, di fronte al quale l’associazione mentale che viene subito in mente è: “Ecco una donna musulmana oppressa”.

Che ovviamente non è necessariamente vero. Se prestiamo attenzione al modo in cui le donne sono vestite oggi al Cairo, a Rabat, a Tunisi o ad Istanbul, qualcuno potrebbe pensare a una regressione, che queste società stanno perpetuando un controllo ancora più forte nei confronti del corpo delle donne.

Ci troviamo di fronte a un movimento molto forte che è l’Islam politico. Questo è diverso dal fondamentalismo o dal terrorismo islamico; i Talebani e al Qaeda sono due manifestazioni molto estreme dell’Islam. Qui siamo invece in presenza della nascita e riaffermazione dell’Islam politico globale, un’affermazione identitaria che è molto recente. Il paradosso è proprio questo: il velo ci appare come una regressione, ma solo se concepiamo il progresso teleologicamente e schematicamente linearmente come un muoversi verso la secolarizzazione. In questo caso l’Islam rappresenterebbe un passo indietro. Dobbiamo invece riconoscere che una simile idea della secolarizzazione era sbagliata, poiché è stata contraddetta dall’emergere di molteplici forme di modernità e religiosità. In molti paesi musulmani l’Islam politico riesce ad affermarsi anche perché ha perso fiducia nel progetto della modernità.

E il caso della Turchia?

Il caso della Turchia è più complesso. In molti paesi come l’Egitto, forse anche come la Tunisia, l’ideologia del progetto del nation building che avrebbe apportato sviluppo e prosperità è fallito. Il risultato è l’affermazione dell’Islam politico; per questo tornano le donne velate, qualche volta per libera scelta. In Turchia c’è anche uno scenario di classe: una nuova classe di imprenditori musulmani, la classe media tenuta lontana dai centri di potere dall’elite secolare kemalista, è tornata a fare capolino a partire dagli anni ’70. Si può sostenere che in Turchia c’è il ritorno di una nuova borghesia musulmana che ha bisogno di affermare la propria posizione.

Questo fenomeno può rappresentare una regressione per le donne?

In molti casi si. Ma non bisogna dimenticare che lo stesso genitore che dice alla figlia di indossare il velo le dice anche di iscriversi all’università per garantirsi un’istruzione. Oltre al tramonto della secolarizzazione in Occidente, dunque, c’è anche il ritorno della religione e della religiosità, l’affermazione dell’Islam politico e il fallimento delle elites modernizzatrici.

In Europa c’è un dibattito complesso sul codice di abbigliamento della donna musulmana. Che condizione vivono queste donne in Europa, il continente dalle “radici cristiane”? L’incontro tra la cultura democratica liberale, quella cattolica e quella musulmana può realizzarsi tramite l’esperienza del secolarismo?

Credo sia importante ricordare anche le culture distinte dei vari stati nazione e non ridurre tutta la questione semplicemente alla religione. Prendiamo come esempio Italia e Spagna. Sono entrambi paesi cattolici osservanti, ma la Spagna ha attraversato più recentemente l’esperienza del fascismo di Franco e si è costituita nei termini di una cultura di opposizione, soprattutto negli anni ’70. In Spagna, inoltre, ci sono differenze regionali radicali, qualcuno le definirebbe addirittura nazionali, come quelle tra Baschi e Catalani. Come cultura nazionale la Spagna riconosce il pluralismo, anche il pluralismo musulmano, anche grazie ai suoi trascorsi storici. Il cattolicesimo in Spagna assume una forma diversa da quello italiano; la Spagna si sta affermando come uno dei paesi più progressisti al mondo e questo riguarda soprattutto il modo in cui si rapporta alle minoranze.

Che cosa c’è di originale nella esperienza spagnola?

La Spagna riconosce ufficialmente il proprio passato segnato dalla commistione tra Ebraismo, Cattolicesimo e Islam nel XIII, XIV e XV secolo, una situazione giunta al termine con l’Inquisizione, ma che adesso si sta riproponendo. Non ci si può soffermare solo sulla questione della tradizione religiosa di un paese, bisogna prendere in considerazione anche la sua tradizione civica, la sua cultura politica e le sue istituzioni. Cosa fa sì che un paese possa creare una cultura civica votata alla coesistenza, quali sono le risorse che la rendono possibile? Non credo che la religione sia una base perché essa dipende dalle interpretazioni e dal tipo di fede, e viene vista in modo molto diverso da ogni individuo. Ci sono differenze tra Italia e Spagna, che sono invece un valido esempio di due modelli opposti. La capacità di un paese di accogliere immigrati – e in questo caso ci focalizziamo particolarmente sui musulmani – non dipende tanto dalla sua religione od ortodossia, ma molto di più dalla sua tradizione politica e dalla sua cultura civica, soprattutto nel modo in cui riesce a interpretare il proprio passato e porsi in modo aperto verso le differenze.

Cosa può dirci sul paragone che spesso si fa tra la laicità in Francia e in Turchia? Entrambi i paesi hanno rappresentato un modello di laicità pura.

Quando si parla di laicità in Turchia bisogna specificare che qui laicità significa forte influenza dello stato sulla religione. Noi tendiamo ad assumerla come una netta separazione tra il pubblico e il privato, manifestata per esempio dall’assenza di simboli religiosi nello spazio pubblico, ma questa è una definizione ristretta di laicità. Per esempio negli Stati Uniti laicità significa che se la comunità cristiana chiede di installare una croce nella piazza pubblica per Natale, allora ci sarà anche una Stella di Davide per la festa ebraica di Hanukkah e il Kwanzaa per celebrare il capodanno africano a Febbraio. Questo è il modello americano in base a quanto previsto dal primo emendamento della costituzione: lo stato non interviene nella religione, non la proibisce e non la incoraggia, ma la disciplina. In Turchia e in Francia, nella pratica, non c’è niente di tutto questo: niente croci, Stelle di Davide o Kwanzaa.

In Francia con Sarkozy c’è adesso la formulazione di un modello più morbido di laicità, quella che il presidente francese chiama «laicità positiva». In Turchia l’Islam riformista ha conquistato la maggioranza con le elezioni. Ci sarà un cambiamento in questi modelli?

C’è un principio di cambiamento in Francia, dove ci sono scuole religiose ma solo private, come ad esempio quelle cattoliche ed ebraiche, e adesso anche quelle musulmane. Il problema principale in questi paesi è dato dalla questione dei finanziamenti statali. In Turchia lo stato finanzia le scuole che formano il clero musulmano, gli imam che cantano e recitano il Corano. Qui l’educazione pubblica riguarda anche i funzionari religiosi. In Turchia laicità significa direzione dello stato, che regola e incanala la religione. Il grosso problema in Turchia è se la laicità ha lo stesso valore per tutti i cittadini e non solo per quelli musulmani. Attualmente c’è un caso alla corte Europea dei Diritti Umani relativo alle proprietà della chiesa cristiana, a testimoniare che la Turchia interpreta la laicità in modo diverso da quanto asserisce la convenzione europea per i diritti umani, di cui lo Stato è firmatario. La laicità dovrebbe garantire diritti uguali a tutte le confessioni religiose, ma di fatto questo scenario è raro. Non posso dire molto sul caso francese ma credo che il paese abbia l’intenzione di controllare la religiosità delle comunità immigrate tramite la mediazione delle Consulte degli immigrati che dialogano direttamente con lo Stato. E’ quanto è accaduto per la comunità ebraica dai tempi di Napoleone. Stanno cercando di replicare questo modello con la comunità musulmana, dotata di una propria Consulta. Poiché lo stato è un’istituzione coercitiva, si tratta sempre di una questione di controllo, in un modo o nell’altro.

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