Quegli uomini due volte sfruttati
Amara Lakhous 23 September 2008

Secondo il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, sono 700 mila i clandestini che vivono attualmente in Italia. È un dato statistico che preoccupa molto l’opinione pubblica. L’equazione “clandestino = delinquente” è diventata irrefutabile, forse perché la caccia alle streghe continua ad avere un grande fascino anche ai giorni nostri. Gli alibi svolgono un ruolo fondamentale nelle società in preda alla paura. In questo contesto generale, nasce la famosa questione della sicurezza come emergenza nazionale. Tuttavia si dimentica che la maggioranza assoluta dei clandestini non appartiene alla categoria dei delinquenti, anzi molti di loro sono vittime di un sistema, basato su un doppio sfruttamento:

Primo. Lo sfruttamento politico. Durante l’ultima campagna elettorale, i clandestini sono stati al centro del dibattito politico e mediatico. Non sarebbe esagerato sostenere che la scelta della Lega Nord di insistere sui pericoli dell’immigrazione clandestina, ad esempio, è stata vincente e decisiva per l’esito del voto. Abbiamo assistito nei primi giorni del nuovo governo Berlusconi a tensioni e mini crisi diplomatiche (ad esempio con la Spagna) intorno al reato della clandestinità. Molti giuristi hanno fatto notare che tale reato è contro il principio basilare della giustizia: una persona viene condannata non per quello che fa, ma per quello che è. Di fronte alla ‘percezione’ della paura dei cittadini, si è preferito martellare soprattutto sul problema dei clandestini, anziché pensare al concetto dell’insicurezza nella sua complessità, cioè come la somma dei problemi reali della vita quotidiana (il lavoro precario, le morti bianche, il carovita, la difficoltà di pagare le rate del mutuo, la mancanza degli asili nido, i costi della politica, il nepotismo, ecc). E’ più difficile trovare ricette efficaci per risolvere un problema spinoso come quello della disoccupazione. A questo sfruttamento politico interno della questione dei clandestini, possiamo aggiungerne un altro di carattere internazionale, legato al recente trattato “Accordo di amicizia e cooperazione” con la Libia. Il leader libico Muhammar Gheddafi è riuscito ad avere il risarcimento dei danni causati dal colonialismo italiano, usando i clandestini come arma di ricatto e di pressioni. È evidente che è si trattato di una merce di scambio.

Secondo. Lo sfruttamento economico. Il destino del clandestino (l’ironia della rima!) è segnato fin dall’inizio dallo sfruttamento e dalla disperazione. Ci sono organizzazioni criminali internazionali che si sono specializzati nel traffico degli esseri umani. Ormai il mediterraneo è un mercato privilegiato per lucrare sulla pelle di migliaia di giovani che vogliono raggiungere le coste italiane, e purtroppo non mancano le vittime. Il rapporto di Fortress Europe, l’osservatorio sulle vittime delle migrazioni, parla di 270 morti solo nel mese di agosto. Il viaggio della morte può costare anche 10 mila euro a testa. Una cifra esorbitante che corrisponde grossomodo a 7 anni di stipendi per un lavoratore medio nel Maghreb. Dopo aver superato le prove del mare e dei CPT (Centri di permanenza temporanei), i clandestini si affacciano al mondo del lavoro in Italia come ‘i nuovi schiavi’. Basta girare d’estate nei campi di raccolta di pomodoro in Puglia o in Campania per vedere un esercito di disperati guidato da caporali senza scrupoli. I proprietari di case, dal canto loro, preferiscono affittare ai clandestini, ovviamente in nero, perché sono ricattabili e si possono mandare via in qualsiasi momento. La catena dello sfruttamento è molto lunga.

Insomma non tutti i clandestini vengono a nuocere, anzi se non ci fossero, sarebbe necessario inventarli. Purtroppo il doppio sfruttamento che abbiamo analizzato colpisce anche gli immigrati regolari. Con la legge attuale sull’immigrazione, la Bossi-Fini, è facile perdere la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno e di conseguenza diventare clandestini.

Amara Lakhous, scrittore e antropologo italo-algerino. Residente a Roma dal 1995. Autore di “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”, e/o, 2006.

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