Gli schiavi del petrolio
Mahmoud Belhimer 3 February 2009

Mentre il mondo intero affronta una recessione generalizzata che produce un impatto diretto sulle economie della regione, molti responsabili del mondo arabo si sono accontentati di rassicurare le loro popolazioni affermando che la crisi finanziaria mondiale non toccava i loro paesi. I principali elementi che hanno tuttavia spinto i paesi arabi a rompere il silenzio e a comportasi in modo serio di fronte alla crisi finanziaria mondiale sono due. In primo luogo le enormi perdite registrate dalle borse arabe, in particolare nei paesi del Golfo, dopo settimane da incubo. La stampa ha riferito che durante il mese di ottobre 2008 i sette mercati finanziari del Golfo hanno perso complessivamente più di 160 miliardi di dollari in una settimana. Queste perdite, che vanno ad aggiungersi ad altre enormi perdite registrate dagli investimenti dei paesi arabi all’estero, hanno provocato il panico relativamente alle ripercussioni negative di questo enorme «mancato guadagno» sui grandi investimenti recentemente effettuati nella regione e su tutte le attività collegate a questi mercati.

La spettacolare caduta dei prezzi del petrolio è il secondo elemento che ha provocato il panico nei paesi arabi. Dopo il picco storico di 147,50 dollari al barile registrato l’11 luglio 2008, in tre mesi il prezzo dell’oro nero ha perso più del 65% del suo valore, vale a dire quasi 100 dollari per ogni barile. Durante lo scorso mese di ottobre, il barile è stato venduto a meno di 50 dollari. Questo rappresenta un vero e proprio terremoto finanziario, soprattutto se si considera che le economie di diversi paesi arabi sono dipendenti dagli idrocarburi. Sembra quindi che questa nuova situazione abbia decretato la fine del miglioramento finanziario dovuto all’aumento del prezzo del petrolio durante un periodo ininterrotto di oltre 7 anni e che ha permesso a molti paesi arabi di avviare investimenti, dare vita a grandi progetti di sviluppo e accumulare riserve in scambi molto consistenti. È evidente che con un barile a 50 o 60 dollari quei paesi non potranno mantenere una dinamica simile a quella registrata quando il prezzo del petrolio raggiungeva i 147,50 dollari. Peggio ancora, molti specialisti prevedono un mercato petrolifero i cui prezzi tenderanno al ribasso durante i due-tre prossimi anni, in considerazione della consistente riduzione della richiesta mondiale di idrocarburi. E questo comporterà un calo sensibile e in alcuni casi una carenza di liquidità dei paesi interessati.

Il caso algerino

A titolo esemplificativo, a partire dal 1999 l’Algeria ha predisposto un programma di investimenti pubblici di oltre 200 miliardi di dollari. Data l’ampiezza dell’attuale crisi economica mondiale, molti economisti ritengono che ci sia «il rischio di compromettere la realizzazione del programma di investimenti lanciato dal governo», un timore che ha portato altri specialisti a «suggerire di rinviare alcuni programmi infrastrutturali previsti dai principali organismi economici pubblici» e finanche «di non prevedere nuovi investimenti». Ma il Primo ministro, Ahmed Ouyahia, non intende ascoltare i consigli degli specialisti e lo scorso novembre ha dichiarato che il governo proseguirà il proprio programma di investimenti. «Nel mondo si parla di rallentamento, in Algeria il governo intende continuare la dinamica degli investimenti, anche se gli esperti non saranno d’accordo con me» ha dichiarato Ouyahia ai giornalisti. Aggiungendo poi: «Oggi gli affari sono rari, ma ci sono 200 miliardi di fatturato da realizzare (in Algeria)».

È difficile considerare le parole di Ouyahia come un segno di ottimismo fondato su dati economici affidabili. In un paese dipendente per il 97% dalle entrate derivanti dall’esportazione di idrocarburi, il calo sensibile del loro prezzo potrà solo aggravare la situazione di un’economia poco produttrice e mono-esportatrice. È vero che il paese dispone di riserve in cambi importanti, vale a dire 136 miliardi di dollari a fine ottobre 2008 (secondo i dati della banca d’Algeria) che garantiscono circa tre anni di importazione. Ma una riduzione sensibile dei prezzi degli idrocarburi potrebbe mettere in discussione questo programma d’investimenti e provocare una riduzione di quelle riserve. Tuttavia, questo periodo caratterizzato da un dollaro forte nei confronti dell’euro non può che favorire l’Algeria, grande importatore di prodotti alimentari e industriali, e provocherà una leggera diminuzione del costo delle sue importazioni.

Non viene risparmiato neppure il Marocco, benché la sua condizione economica sia diversa da quella dell’Algeria. In effetti, quel paese rischia di venire contaminato dalla «malattia» che colpisce attualmente l’economia mondiale, malgrado l’ottimismo palesato da diversi suoi responsabili. Il ministro marocchino dell’economia, Salaheddine Mazouar ha dichiarato di recente che «il Marocco rigurgita di enormi potenzialità che gli consentono di mantenere il ritmo di crescita e di creazione di ricchezza». Ma alcuni esperti iniziano già a segnalare le prime ricadute negative, tra cui la debole domanda dei partner europei per la produzione marocchina, che avrà ripercussioni sullo sviluppo dei settori interessati, sull’occupazione e sulla crescita. Segnaliamo che il Marocco, come altri paesi arabi importatori di energia, può beneficiare nell’immediato della riduzione dei prezzi degli idrocarburi, ma dovrà pur sempre far fronte ad altri problemi legati alla crisi finanziaria mondiale, nello specifico la riduzione della domanda di questi prodotti e una riduzione degli investimenti stranieri diretti. Anche la Tunisia dovrà rivedere al ribasso le sue entrate derivanti da un fiorente settore turistico, a causa di una inevitabile diminuzione della domanda, in gran parte europea.

Gli altri paesi arabi, come le monarchie del Golfo, che traggono più dell’80% delle loro entrate dalle esportazioni di idrocarburi, dovranno far fronte a problemi di liquidità che freneranno i grandi progetti di investimenti lanciati nel corso degli ultimi anni. Ma questi paesi continuano a registrare eccedenze nelle loro bilance commerciali, grazie a una situazione demografica totalmente diversa da quella dell’Algeria, del Marocco o dell’Egitto. Se la crisi dovesse perdurare, questi ultimi paesi rischiano di avere difficoltà a soddisfare i bisogni delle loro popolazioni. Questo ci porta a sottolineare come le economie arabe si differenzino le une dalle altre, e non rappresentino un blocco economico unico, come invece accade per l’Unione Europea. Ma le economie della regione sono caratterizzate da una dipendenza crescente dall’importazione, in particolare di prodotti alimentari, agricoli, industriali e tecnologici, da un tasso di disoccupazione più elevato e da uno scarso inserimento delle donne nella popolazione attiva, ancora sotto il 30%, la percentuale più bassa del mondo, secondo i dati della Banca mondiale, senza dimenticare la fragilità delle economie della regione, alcune delle quali scarsamente integrate nell’economia mondiale (diversi paesi non hanno ancora aderito all’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto).

Il ruolo del petrolio

In generale le economie arabe sono poco competitive, poco produttive e continuano a dipendere dalle importazioni dall’estero. Alcuni paesi, come la Giordania, lo Yemen, il Marocco e l’Egitto, dipendono dall’aiuto estero e dalla «generosità» di alcuni paesi arabi ricchi. Il tentativo di formare un’economia al di fuori del petrolio, come ha provato a fare l’Arabia Saudita, o in parte minore l’Algeria, sono ben lungi dal raggiungere gli obiettivi prefissati. Abbiamo quindi sempre a che fare con economie fragili, fondate sulle rendite, e paesi mono esportatori più esposti ai numerosi rischi della recessione mondiale. Di fronte a questa situazione, ben conosciuta dagli esperti, è di vitale importanza andare a identificare le falle di questa vulnerabilità economica permanente. È opportuno segnalare che il maggior problema dell’economia dei paesi arabi consiste nell’incapacità di costruire un’economia produttiva che si prefigga di sostituire l’attuale «economia basata sulle rendite». La maggioranza dei paesi arabi distribuisce la rendita petrolifera anziché investirla in progetti creatori di ricchezza. L’accumulo delle riserve in cambi, collocate in banche estere, non è servito a niente. Peggio, anche con un’eccezionale agiatezza finanziaria, i paesi arabi non riescono a costruire un’economia produttiva che abbia basi solide, che vada al di là degli idrocarburi e sia capace di diminuire la dipendenza dall’estero in materia di prodotti alimentari e di materie prime per alcuni settori industriali. Con il passare del tempo il denaro evapora nelle casse americane ed europee e questi paesi continuano a rimanere nella categoria dei paesi perennemente consumatori.

Rimanendo nello stesso ambito, il problema più importante consiste nell’assenza di una politica economica il cui obiettivo principale sia la mobilitazione di queste risorse, in particolare le risorse finanziarie «congiunturali» per la creazione di ricchezza e di occupazione. Molti esperti nazionali deplorano l’assenza di una strategia nazionale di sviluppo economico a lungo termine, con obiettivi precisi. Essi continuano a criticare i regimi che utilizzano il denaro della rendita petrolifera per comprare la pace sociale o incoraggiare l’importazione su grande scala, finanziando posti di lavoro fittizi anziché incoraggiare la creazione di piccole e medie imprese, che altri paesi considerano il motore dell’economia, e l’investimento nei settori produttivi. Ogni volta che il prezzo del petrolio crolla – e si tratta ormai di un fatto ciclico – questi paesi debbono far fronte agli stessi problemi, nello specifico la riduzione di liquidità, il rallentamento o l’assenza di investimenti che creino ricchezza, una forma di reticenza da parte dei partner stranieri, licenziamenti o scarsità di occupazione, dipendenza dall’estero per quanto concerne la produzione e un fronte sociale instabile. Malgrado ciò, i responsabili politici continuano a ripetere ai loro cittadini «che bisogna preparare il dopo-petrolio», ma non riescono mai a tradurre il loro discorso in un fatto concreto.

Lo Stato come «regolatore e facilitatore»

Ma non si tratta di una fatalità, dato che molti paesi arabi dispongono di potenzialità in grado di offrire loro un’uscita di sicurezza da questo circolo vizioso. Oltre le misure di emergenza che saranno assunte per far fronte alla crisi attuale, è improcrastinabile rivedere molte cose nella gestione dello Stato e dell’economia. In primo luogo bisogna rivedere il ruolo dello Stato nell’economia: esso deve riprendere il suo ruolo di «regolatore e facilitatore» anziché rimanere confinato nel ruolo di «distributore della rendita» o di produttore. Nella maggior parte dei paesi arabi la presenza dello Stato nell’economia continua a essere dominante attraverso gli investimenti pubblici. Molti paesi hanno difficoltà a privatizzare un’impresa inserita nel settore economico statale. Questo processo (la privatizzazione di imprese pubbliche) non ha dato i risultati previsti per diversi motivi. In primo luogo vi sono le insufficienze strutturali delle imprese pubbliche. In secondo luogo vi è un fronte sociale accanito e ostile alla liberalizzazione dell’economia. In terzo luogo, vi è una competizione estera feroce dopo l’apertura del commercio estero in alcuni settori economici come le telecomunicazioni e il trasporto.

Va inoltre aggiunto che queste imprese non sono riuscite a mantenere un livello adeguato di competitività. La soluzione corretta consiste in una politica coraggiosa nei settori produttivi, e le banche di Stato possono finanziare nuovi progetti d’investimenti anziché continuare a iniettare fondi importati nel risanamento finanziario o nella ristrutturazione delle imprese pubbliche deficitarie con risultati giudicati mediocri. È inoltre necessario riconoscere la difficoltà di parlare di sviluppo economico senza democrazia e Stato di diritto, in quanto esiste un’interazione o una sorta di relazione concomitante tra democrazia e sviluppo. L’avvio di riforme che interessino in primo luogo i sistemi politici della regione diventa quindi una necessità imprescindibile; riforme che tendano a una maggiore trasparenza nella gestione degli affari pubblici, nella costruzione dello Stato di diritto e nella valorizzazione dell’intelligenza e del sapere anziché accontentarsi di pratiche fondate sui clan e sulla sottomissione al potere. Un sistema aperto avrà maggiori possibilità di superare quei deficit, attraverso la promozione di un dibattito che veda coinvolti i diversi protagonisti economici e sociali.

Mahmoud Belhimer è vice caporedattore del quotidiano algerino Elkhabar

Traduzione di Silvana Mazzoni

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x