La maledizione del petrolio e il ruolo dell’Islam
Daniele Castellani Perelli 18 February 2011

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Democrazia e Islam, democrazia e mondo arabo. Negli anni successivi all’invasione americana dell’Iraq, avvenuta nel marzo 2003, il tema aveva riempito pagine di giornali ed era stato al centro di dibattiti e convegni. Poi l’Occidente aveva cominciato pian piano a rioccuparsi d’altro, sull’onda del fallimento dell’avventura irachena e davanti alla constatazione che no, le bombe non avevano portato luce nella regione, contrariamente a quelle che erano state le speranze dei teorici neo-conservatori, ispiratori della «Freedom agenda» di Bush.

Oggi gli eventi portano di nuovo alla ribalta quel dibattito e, da New York a Bruxelles, la constatazione è una: allora si può, allora la democrazia può nascere anche nel mondo arabo-islamico. Reset e Resetdoc, a dirla tutta, non avevano mai smesso di occuparsene (qualche esempio solo nell’ultimo anno? Qui, qui, qui, qui, qui e qui). Non più tardi di tre mesi fa, Reset aveva chiesto ad alcuni importanti studiosi italiani di rispondere alla domanda «Perché non esistono le democrazie arabe?». Le risposte, a rileggerle oggi, colpiscono, anche perché sembrano anticipare molti degli scenari che oggi si stanno sorprendentemente realizzando.

La tesi di Diamond

Lo spunto era arrivato da un articolo di Larry Diamond, direttore del Center on Democracy, Development, and Rule of Law dell’Università di Stanford e fondatore del Journal of Democracy. Nell’intervento, pubblicato in Italia sempre su Reset, Diamond scriveva che nel 1995 esistevano 117 democrazie elettorali, ma notava amaramente: «La democrazia aveva raggiunto la massa critica in tutte le principali aree del mondo tranne una: il Medio Oriente. Tutte le maggiori culle culturali erano arrivate a includere una presenza democratica significativa, ancora una volta con una sola eccezione: il mondo arabo». Diamond apriva il dibattito, sostenendo che il problema non è l’Islam, non è né la cultura né la religione (paesi islamici come Albania, Bangladesh, Malesia, Senegal e Turchia sono democrazie), ma il sistema economico, e in particolare la cosiddetta «maledizione del petrolio», che consente ai regimi di far funzionare bene o male l’economia, senza chiedere ai cittadini di pagare le tasse (che sono alla base di una democrazia rappresentativa), e allo stesso tempo fomentando la corruzione attraverso la burocrazia.

L’autore, nonostante tutto, si diceva ottimista (in tempi davvero non sospetti): «Il mondo arabo è quindi semplicemente condannato a un futuro indefinito di autoritarismo? Io non credo. L’inizio di un cambiamento nella politica estera americana tra il 2003 e il 2005 ha incoraggiato l’apertura politica e spianato la strada alla mobilitazione democratica popolare in paesi come l’Egitto, il Libano e il Marocco, così come da parte dell’autorità palestinese. Malgrado la maggior parte di questi spiragli si sia in parte o del tutto richiusa, le opposizioni e le società civili arabe hanno comunque potuto avere un assaggio di come potrebbe essere una politica democratica. I sondaggi di opinione indicano chiaramente che ne vorrebbero di più, e i nuovi social media come Facebook, Twitter, la blogosfera e la rivoluzione della telefonia mobile stanno dando agli arabi nuove opportunità per esprimersi e mobilitarsi».

L’ottimismo era sostanzialmente condiviso dagli esperti chiamati da Reset a replicare, che semmai contestavano Diamond nei passaggi in cui prevedeva che la svolta sarebbe potuta venire dall’Iraq (anche se – avvertiva – valeva la pena «tenere sott’occhio anche l’Egitto, dopo trent’anni di governo personale dell’ormai ottantunenne Hosni Mubarak. Che suo figlio Gamal di 46 anni gli succeda o no, il regime vivrà nuovi stress e dovrà adattarsi quando il suo moderno faraone abbandonerà le scene») o dopo «un prolungato e inarrestabile calo del prezzo del petrolio (diciamo fino alla metà, magari)».

Le repliche di Allievi, Bonino, zu Fürstenberg, Campanini, Guolo e Amato

Stefano Allievi, docente dell’Università di Padova e autore del recente «La guerra delle Moschee» (Marsilio – Reset), concordava con Diamond nel dare poca importanza all’aspetto religioso («Non ha senso infatti domandarsi se esistono democrazie arabe o democrazie islamiche. Esattamente come non avrebbe senso domandarsi se esistono democrazie slave, centrafricane, e tanto meno hindu o buddhiste») e sottolineava come la società civile sia «fragile e sostanzialmente alla mercé della benevolenza del potere» e l’economia sia «fortemente indirizzata dall’alto, intrinsecamente parassitaria e inevitabilmente distorta». Puntava poi il dito, si direbbe «profeticamente», contro «democrazie cosmetiche come Tunisia ed Egitto», e invitava a continuare il dialogo con partiti religiosi come i Fratelli Musulmani e, in Europa, con le minoranze qui emigrate, sempre in contatto con le elite del mondo arabo.

Critiche a Diamond arrivavano da Emma Bonino, ex commissario europeo e attenta conoscitrice del mondo arabo, che giudicava sbagliato puntare sull’Iraq e sul crollo del prezzo del petrolio: «Invece, se un game changer esiste, ed è irreversibile, questo è semmai la diffusione dell’accesso a internet, soprattutto ora che avviene anche attraverso i telefoni cellulari, uno sviluppo che Diamond non ritiene di dover prendere in conto – aggiungeva – La natura fondamentalmente orizzontale di internet, non solo come mezzo di comunicazione, ma specialmente come luogo di interazione sociale e politica, ha la potenzialità di cambiare i rapporti di potere tra individuo e Stato».

E se Nina zu Fürstenberg, presidente di Resetdoc, sottolineava i progressi del Marocco (che infatti oggi sembra al momento al riparo dall’onda rivoluzionaria) e portava nuovi argomenti alla teoria di Diamond citando uno studio di Michael L. Ross sul legame tra petrolio e questione femminile («Non solo “il petrolio promuove patriarcato” ma vanifica anche la possibilità di “relazioni più eque tra i sessi, poiché ostacola l’impegno politico e la democrazia”»), Massimo Campanini, docente all’Università Orientale di Napoli, si dichiarava sì d’accordo con lo studioso di Stanford, ma riteneva che non avesse tenuto nel giusto conto «la doppiezza di certo atteggiamento dell’Occidente nei confronti dei paesi arabi e musulmani, là dove viene dato obiettivo appoggio e giustificazione a regimi autoritari (il caso della Tunisia e dell’Egitto è palese)».

Per Renzo Guolo, sociologo dell’Università di Padova e editorialista de La Repubblica, l’Islam usciva invece forse un po’ sottovalutato dal discorso di Diamond, perché si deve «tenere conto del peso che la religione ha avuto, e ha ancora, come fattore di legittimazione dei governanti, laici o meno, e come fonte del diritto, in un mondo che non ha conosciuto o interiorizzato le correnti filosofiche e le teorie politiche che mettono al centro della loro riflessione la democrazia»: «La diffusione di un’interpretazione letteralista dei testi sacri, l’assenza di un’ermeneutica capace di fare i conti con le tradizioni teologiche e giuridiche sclerotizzate, cristalizzate dalla decisione da parte di un ceto di specialisti del religioso di chiudere la “porta della riflessione” nel X secolo, incide fortemente sulla possibilità di innovazioni, politiche giuridiche, religiose, che possono favorire la costruzione della democrazia. Insomma, se il mondo arabo non si può studiare esclusivamente attraverso il filtro dell’islam e dell’arabità, nemmeno si può fare a meno di queste lenti».

L’ex premier italiano e membro del Comitato Direttivo di Resetdoc Giuliano Amato ha replicato sia su Reset sia sul Sole 24 Ore, dove ha fatto notare come la maledizione del petrolio non spieghi la mancanza di democrazia di quei paesi, come anche Tunisia e Egitto, che il petrolio non ce l’hanno: «La realtà è che l’autoritarismo dei paesi arabi ha le sue ragioni originarie nell’arretratezza economica e sociale che ovunque nel mondo ha reso e rende difficile il radicamento della democrazia, mentre è ora tenuto in vita dalle autodifese che si è creato». Amato consigliava il dialogo con i musulmani moderati, e confida infine nelle nuove tecnologie e nelle virtù del libero mercato: «Promuovere e mantenere vivi gli scambi culturali, parlare con fiducia con gli islamici moderati e concorrere allo sviluppo economico, soprattutto favorendo la diffusione della libera impresa di mercato, è ciò che più e meglio noi possiamo fare».

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