Medio Evo, quando l’Occidente voleva imparare dall’Oriente
Charles Burnett 19 September 2006

La traduzione di testi scientifici dal greco alla arabo nel dodicesimo e nel tredicesimo secolo è sia un sintomo che una causa di uno dei più grandi trasferimenti della scienza occidentale, paragonabile per rilevanza alla parallela importazione di opere scientifiche in arabo nella Baghdad del nono secolo e alla rivoluzione scientifica nell’Europa del diciassettesimo secolo. La ragione delle traduzioni era la lacuna percepita nell’educazione scientifica latina. C’erano tre aree principali in cui i latini erano considerati particolarmente carenti. La prima era la matematica, e in particolare la geometria e l’astronomia. Queste erano due delle sette arti liberali che avevano formato la struttura dell’educazione latina fondata sulla retorica fin dalla tarda antichità e che vennero rinnovate da Gerbert d’Aurillac al volgere del millennio, e poi, più diffusamente, nel dodicesimo secolo. Le altre cinque arti liberali erano ben rappresentate, soprattutto grazie alle traduzioni di Boezio (m. 529), che aveva cercato di offrire ai lettori latini un curriculum completo di studi greci. Ma la geometria e l’astronomia mancavano di libri di testo esaurienti.

Per la geometria Boezio aveva tradotto solo una piccola parte degli Elementi di Euclide. Stefano il filosofo, lavorando ad Antiochia all’inizio del dodicesimo secolo, lamentava la scarsa conoscenza della geometria tra i latini, e Giovanni di Salisbury pensava che l’unico luogo dove lo studio era stato fiorente fosse la Spagna (islamica). Così, il pioniere del movimento di traduzione del dodicesimo secolo, Adelardo di Bath, dedicò un testo alla descrizione delle sette arti liberali (il suo De Eodem et Diverso), ma realizzò anche la prima traduzione degli Elementi dall’arabo. Per quanto riguarda l’astronomia non è sopravvissuta nessuna traduzione di Boezio, ma i latini erano consapevoli che il più importante testo greco fosse l’Almagesto di Tolomeo, ed è proprio per questo libro che si dice che Gerardo da Cremona si sia recato a Toledo, mentre il precedente traduttore dal greco era accorso dalla Sicilia a Salerno perché aveva sentito che una copia dell’Almagesto era appena stata portata lì da Costantinopoli. Si può comprendere come le nuove traduzioni riempirono le lacune del curriculum tradizionale nell’importante “Biblioteca delle sette arti liberali” raccolta da Thierry di Chartres (m. 1151) nei primi anni 40 del 1100 (L’Heptateuchon) che includeva sia gli Elementi di Euclide tradotti dall’arabo che le tavole astronomiche del matematico arabo del nono secolo al-Khwarizmi.

La seconda lacuna era la fisica (vale a dire, l’investigazione dei meccanismi della natura). In questo caso abbiamo a che vedere con una materia che non faceva parte delle sette arti liberali, ma che era entrata nel curriculum filosofico nell’antica Alessandria e che continuava a essere insegnata (con interruzioni e riprese) a Bisanzio (e in maniera più continua) nel mondo islamico. In Occidente l’interesse per la fisica precede la conoscenza dei testi di questo curriculum ed è basata sulle “questioni naturali” e sulle opere del latino tardo-antico come la traduzione di Falcidio del Timeo di Platone e il commentario di Macrobio sul Somnium Scipionis di Cicerone. Tuttavia, nel corso del dodicesimo secolo, divenne noto il fatto che Aristotele, oltre ad essere un’autorità nella logica, fosse anche un’autorità in materia di scienze naturali. Burgundio da Pisa, Giacomo da Venezia e Guglielmo da Moerbeke erano direttamente a conoscenza del corpus aristotelico sulle scienze naturali grazie a studiosi greci contemporanei che stavano insegnando e scrivendo dei commentari sul tema, e Gerardo da Cremona conosceva gli stessi testi in arabo e come essi venivano descritti da Alfarabi nel Catalogo delle Scienze che egli aveva tradotto.

La terza area era la medicina. In questa materia il maestro era Galeno, ed erano noti i titoli dei suoi sedici testi di base che formavano il curriculum ad Alessandria. Costantino l’Africano (m. prima del 1098/9) li elencò nella sua prefazione al Pantegni e ne tradusse due dall’arabo; molti di più vennero tradotti da Burgundio da Pisa e da Gerardo da Cremona. Se l’obiettivo dei traduttori era di rifondare lo studio antico di Euclide, Tolomeo, Aristotele e Galeno essi avevano due fonti: i centri del sapere greci e arabi. I greci bizantini nel complesso avevano preservato i testi antichi senza alterarli in maniera sostanziale; c’era stato poco sviluppo scientifico, e un commentario del dodicesimo secolo su un’opera di Aristotele poteva essere scambiato facilmente per un commentario sulla stessa opera risalente però al secondo secolo. Tra i greci, perciò, i Latini cercavano e potevano trovare le loro copie dell’Almagesto di Tolomeo, dei libri naturales di Aristotele, e delle opere di Galeno proprio come avevano fatto nel nono secolo gli studiosi arabi. Per i latini, i manoscritti che i greci potevano offrire erano più importanti della conoscenza erudita degli esperti. Per la maggior parte, le interpretazioni dei testi antichi erano antiche di per sé: basti pensare a quelle di Proclo e Temistio, di Alessandro di Afrodisia, e di Giovanni Filopono.

Tra gli arabi, tuttavia, i latini potevano rinvenire e rinvenivano queste stesse opere greche, ma si trovavano di fronte anche i risultati di una traduzione di studio che aveva assorbito non solo nuovi elementi da altre culture (in particolare da quelle indiana e persiana) ma che aveva anche sviluppato, rifinito e modificato il sapere degli antichi. Così, i modelli astronomici di Tolomeo dovevano confrontarsi con quelli degli astronomi indiani, e le sue misurazioni dei movimenti dei pianeti vennero più volte corrette e spesso sostituite, fin dalla “dimostrazione” ufficiale promossa dal califfo al-Mamun all’inizio del nono secolo. I libri naturales di Aristotele, assieme ai relativi commentari antichi, erano strati trasmessi ma Alfarabi, Avempace (Ibn Bajja, tardo undicesimo secolo fino al 1139 circa), e Averroè avevano scritto nuovi commentari e Avicenna aveva riorganizzato l’intera filosofia aristotelica. Forse persino più radicale era stata la sostituzione delle opere originali di Galeno con nuovi testi sulla medicina, giacché ogni generazione di medici arabi aveva cercato di migliorare l’opera dei propri predecessori. Il sapere arabo, allora, differiva da quello greco per il fatto che esso dimorava nei maestri tanto quanto nei libri. Adelardo e Stefano il filosofo facevano entrambi riferimento ai loro magistri arabi che avevano incontrato nella Principato di Antiochia.

Altri traduttori beneficiarono della diaspora degli studiosi ebrei che avevano coltivato il sapere arabo, in seguito alla loro espulsione dalla Spagna islamica da parte degli Almohadi nel 1160 (in modo molto simile a come gli studiosi italiani del Rinascimento beneficiarono dell’esilio degli studiosi ebrei dalla Spagna nel 1491). In alcuni casi i traduttori sembravano aver utilizzato queste opere scientifiche promosse dai loro maestri arabi: un esempio è rappresentato da Costantino l’Africano che trasmise la tradizione medica dei suo maestri di Qairawan, e Gundissalino che tradusse le opere di Avicenna, Algazel e Avibron, autori preferiti del suo collaboratore, Avendauth (Abraham Ibn Daud). Sembrerebbe che Gerardo da Cremona, mentre traduceva molte opere importanti di studiosi arabi (specialmente nel campo della medicina), abbia compiuto un tentativo più deliberato di recuperare i testi antichi dagli arabi. Ma la sua attività di traduzione coincise con una reazione contro gli sviluppi “moderni” anche da parte di un gruppo di studiosi islamici di Corboba (il cui esponente principale era Ibn Rushd), che cercarono di restaurare un Aristotele puro sia nelle scienze naturali che nell’astronomia.

Perché le traduzioni venissero realizzate o gli studiosi latini dovevano andare in cerca dei testi o i testi dovevano essere spediti o portati nei centri latini del sapere. Gli studiosi potevano entrare a far parte dei bottini catturati dai pirati, come narra una storia che racconta di come Costantino l’Africano arrivò a Salerno (MS British Library, Slogane 2426, fols 8r–v). Altri studiosi giunsero nei centri latini a seguito di persecuzioni o differenze religiose, come nel caso dei cristiani di lingua araba (mozarabi) che, nel nono secolo, lasciarono in gran numero l’islamica Toledo per il Nord cristiano della Spagna. Dopo la sua riconquista, Toledo fu il rifugio naturale per gli ebrei e i mozarabi che erano stati cacciati dalla Spagna islamica nella metà del dodicesimo secolo dal regime Almohadi e, all’inizio del tredicesimo secolo, il fiorire dello studio delle opere di Averroè al di fuori del territorio islamico può essere stato in parte causato dall’intolleranza provata nei confronti delle scienze filosofiche dai giuristi almohadi.

Tuttavia se esili forzati e chiusura delle porte favorirono i contatti, l’apertura del Mediterraneo ai latini attraverso la conquista e il commercio apportarono anche maggiori contributi. Non è una coincidenza che il movimento di traduzione prese il via dopo la riconquista di Toledo, che aprì il cuore della Spagna islamica (1085), la conquista normanna della Sicilia, con la sua popolazione greca e di lingua araba (1072 – 91), e la caduta di Antiochia che svelò le culture islamica e greca del Mediterraneo orientale (1098).
Anche i tentativi di riunificare le chiese greca e latina fecero avvicinare l’Est e l’Ovest, ed ebbero come risultato traduzioni scientifiche come pure scritti teologici. I leader politici si scambiavano studiosi e libri: il sultano ayyubida, al-Malik al-Salih (1232-9) inviò presso Federico II uno dei più eminenti studiosi musulmani, Siraj al-Din al-Urmawi (m. 1283), per aiutarlo a interpretare la logica araba.

A lungo termine risultarono più importanti i quartieri costruiti dai pisani e dai veneziani nelle città del Mediterraneo i quali, aldilà della loro funzione commerciale, offrirono l’opportunità agli studiosi latini di lavorare tra gli arabi e i greci. I quartieri pisani vennero costruiti ad Antiochia nel 1108 e a Costantinopoli nel 1136. Leonardo da Pisa (Fibonacci) acquisì la propria conoscenza della matematica araba nel debot pisano di Bougie (Algeria).
Nel caso delle traduzioni matematiche dall’arabo al latino può aver svolto un ruolo significativo una singola biblioteca reale, quella dei Banu Hud di Saragozza. Yusuf al-Mutaman ibn Hud, re dal 1081 al 1085, aveva scritto un testo esauriente sulla geometria, al-Istikmal, che utilizzava un’ampia raccolta di opere greche e arabe in materia. Nel 1110 i Banu Hud vennero cacciati da Saragossa dagli Almoravidi, e si stanziarono nella fortezza di Rueda de Jalón ad Aragona. Essi, tuttavia, portarono con loro la propria biblioteca, giacché Ugo di Santalla afferma specificamente (in un raro esempio di citazione della fonte) che il patrono, il vescovo Michele di Tarazona, aveva comprato il manoscritto arabo di un’opera sulle tavole astronomiche in questa biblioteca (“in Rotensi armario”).

Nel 1140, l’ultimo discendente dei Banu Hud, Abu Jafar Amad III ayf al-Dawla (m. 1146) permutò la sua proprietà di Rueda de Jalón con una casa nel quartiere della cattedrale di Toledo. Può non essere un caso che solo dopo questo trasferimento le opere di autorità greche e arabe vengono tradotte a Toledo dall’arabo. Fin dalla pubblicazione di un articolo fondamentale di Valentin Rose nel 1874, si pensava che gli arcivescovi di Toledo fossero direttamente responsabili della promozione e sponsorizzazione di una “scuola di traduttori” semi-universitaria. La prova non è decisiva, tuttavia, poiché solo due traduzioni sono dedicate ad arcivescovi. Nondimeno, il clero della cattedrale sembra aver svolto un ruolo primario nel movimento delle traduzioni toledano. E il locus di questa attività dovrebbe essere stato il quartiere della cattedrale e il quartiere franco ad esso adiacente, i soli distretti in cui gli stranieri e il sapere latino fossero dominanti – e in cui, a quanto pare, si trovavano anche le rimanenze della biblioteca dei Banu Hud, come abbiamo visto.

Il processo attraverso cui queste traduzioni sono avvenute può, tuttavia, aver preso una varietà di forme. In alcuni casi esso implicò la canonizzazione in latino di un testo trasmesso oralmente. Che tutti i libri potessero essere dettati dagli studiosi (specialmente da quelli di origine ebraica) non è improbabile. Tuttavia, la maggior parte delle traduzioni medievali implicano l’esistenza di un testo scritto in lingua originale, anche se questo testo fosse stato interpretato oralmente per uno scrittore latino. La fonte testuale non aveva bisogno di essere scritta nella forma convenzionale del libro. Poteva essere una rappresentazione grafica schematica di un torace ovino con il significato di ogni elemento scritto sopra, o un astrolabio con iscritti i nomi delle principali stelle fisse e delle varie figure. Sembra che i numeri indù-arabi si siano diffusi inizialmente in Europa sulle palle dell’abaco di Gerberto. E il testo del libro non era neppure rappresentato semplicemente dalle parole degli autori: esso poteva includere diagrammi e illustrazioni, come anche marginalia e la sua forma poteva influenzare le scelte del traduttore. È importante, allora, se il traduttore latino abbia affrontato un testo direttamente nel manoscritto originale, o se si sia semplicemente affidato a un’interpretazione orale di quel testo. Si verificarono entrambi i casi.

L’interpretazione orale è meglio attestata rispetto ai testi arabi. Una ben nota descrizione del processo viene data da Avendauth, nella dedica della propria traduzione del De Anima di Avicenna all’arcivescovo di Toledo: «Qui ha il testo tradotto dall’arabo: sono stato attento e ho tradotto le parole una alla volta nella lingua vernacolare, e l’Arcidiacono Domenico le ha tradotte una alla volte in latino.» Poiché questa traduzione venne compiuta a Toledo, il “linguaggio vernacolare” avrebbe potuto essere o il dialetto arabo parlato a Toledo o una lingua romanza. Secondo Roger Bacon, molte persone capivano le forme parlate del greco, dell’arabo e dell’ebraico, anche se non sapevano leggere o scrivere in quelle lingue. Si dice pure che altri traduttori abbiano ricevuto l’aiuto di persone di lingua araba, o mozarabi (come il “Galippus” che aiutò Gerardo da Cremona) o ebrei (come il “Salomon Avenraza” che Alfredo di Shareshill cita come suo maestro, e l’ “Abuteus levita” che aiutò Michael Scot).

È meno facile rinvenire prove che testimonino l’uso di dizionari o grammatiche. La più antica grammatica araba scritta in una lingua occidentale è quella per il dialetto arabo di Granada composta nel 1505 da Pedro De Alcalà. Il suo scopo era di facilitare la conversione della popolazione di lingua araba, e pressappoco lo stesso obiettivo può nascondersi dietro i due glossari medievali arabo-latino/latino-arabo: il cosiddetto “glossario di Leiden” e il “Vocabulista in Arabico” curato da Celestino Schiaparelli (Firenze, 1871). Potenzialmente più utili sono i glossari di termini tecnici in appendice a determinati testi di astronomia, astrologia e medicina. Il più completo di questo è il Synonyma di Simone da Genova, medico presso la corte papale alla fine del tredicesimo secolo che spiegò in dettaglio i termini greci e arabi. Questi glossari tecnici, tuttavia, erano principalmente ad uso dei lettori non familiari con termini che erano stati semplicemente traslitterati dall’arabo o dal greco.

La traduzione letterale divenne presto la norma per le opere scientifiche e filosofiche. Il suo scopo era rappresentare le parole dell’autore in maniera così accurata da rendere il testo originale superfluo. Questa concezione è già chiara nelle parole di Boezio secondo cui “attraverso l’integrità di una traduzione totalmente completa, non si trova più la necessità di alcuna letteratura greca.” All’aspirazione di Boezio di un “trasferimento del sapere” (translatio studii) dal greco al latino, nel sesto secolo, venne messo fine dalla sua morte precoce e dalla mancanza di successori immediati, ma la stessa aspirazione venne ripresa e ampiamente soddisfatta nel dodicesimo e nel tredicesimo secolo. Il principio alla base di una translatio studii è che la cultura scientifica passi da una cultura a un’altra; una volta in possesso di quella cultura, il popolo ricevente non ha alcun bisogno di ritornare alla sua fonte.

Ma è probabilmente più vero affermare che qui abbiamo a che fare non tanto con un trasferimento di sapere quanto piuttosto con l’internazionalismo del sapere scientifico. Già Adelardo di Bath aveva paragonato il mondo a un corpo in cui alle differenti parti sono state assegnate funzioni diverse: allo stesso modo parti del mondo diverse sono ricche in discipline differenti e ciò “che l’anima (del mondo) è incapace di provocare in una singola zona del mondo, la genera nella sua totalità”. Nel secolo successivo, Teodoro di Antiochia si recò dalla cristiana Antiochia alla musulmana Mosul dove studiò le opere di Alfarabi, Avicenna, Euclide e Tolomeo con l’illustre studioso islamico, Kamal-al-Din ibn Yunus (1156-1242); successivamente egli studiò medicina a Baghdad, prima di mettersi al servizio di un governante selgiuchida a Konya in Asia Minore, di un reggente armeno e, infine, di un imperatore cristiano in Sicilia. Anche un altro allievo di Kamal-al-Din, al-Urmawi trascorse un periodo presso la corte dello stesso imperatore scrivendo per lui un libro di logica. Uno studioso ebreo, Juda b. Salomon ha-Cohen scambiò della corrispondenza in lingua araba a Toledo con il “filosofo” dell’imperatore Federico II su questioni riguardanti la geometria, e Federico stesso inviò delle domande su matematica e filosofia a studiosi arabi nel Mediterraneo.

Successivamente nello stesso secolo, le opinioni di Tommaso d’Aquino erano comprese in un’apologia araba al cristianesimo scritta da un mozarabita di Toledo e uno studioso anonimo elaborò un’introduzione greca ai libri naturales di Aristotele in Sicilia – o nell’Italia meridionale – sulla base di testi averroisti che venivano insegnati a Parigi. Nel frattempo, è stato suggerito, le informazioni astronomiche provenienti dall’osservatorio di Maragha, nei regni mongoli, arrivarono presso la corte spagnola di Alfonso X. Il fatto che scambi eruditi e traffico intellettuale di questo genere fossero possibili testimonia che, almeno nel secondo quarto del tredicesimo secolo, i mondi ebraico e islamico condivisero con la cristianità un sapere comune sulla scienza e sulla filosofia; si era formato un commonwealth di studiosi che trascendeva i confini politici e linguistici. Il fatto che una situazione di questo tipo potesse verificarsi è dovuto, in misura affatto trascurabile, al successo dei traduttori che innalzarono la cultura scientifica di ciascun gruppo linguistico al punto da condividere tutti lo stesso livello di eccellenza.

Questo testo è stato letto dall’autore in occasione della conferenza Al di là di Orientalismo e Occidentalismo, organizzata da Reset-Dialogues on Civilizations e tenutasi al Cairo, in Egitto, dal 4 al 6 marzo 2006.

Traduzione di Martina Toti

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