Media come armi, tra Oriente e Occidente
Giancarlo Bosetti 21 July 2008

Questo testo è il discorso tenuto dall’autore alla Conferenza internazionale di Doha, organizzata in Qatar da Reset Dialogues on Civilizations il 26 febbraio 2008.

Il tema sul quale è necessario un confronto internazionale si potrebbe sintetizzare in questa domanda: quanto male si possono fare Est e Ovest attraverso i media? O in uno spirito più ottimistico e costruttivo: quanto bene? La televisione è un mezzo di comunicazione di massa che ha avuto in quasi tutta la seconda metà del ventesimo secolo una dimensione nazionale per eccellenza, per ragioni linguistiche, culturali, e molto a lungo anche per ragioni tecnologiche. Le cose sono cambiate con le tecnologie digitali satellitari, con le antenne paraboliche – e poi anche con il web –, anche se la televisione ha mantenuto nella maggior parte dei casi un profilo essenzialmente nazionale.

Alcuni produttori televisivi – come Al Jazeera su scala panaraba in arabo, come Cnn, Bbc World, Sky su scala globale in inglese – hanno cominciato a produrre informazione (e intrattenimento e tutto il resto) per un pubblico sovranazionale. Un politico italiano, inglese, americano quando parla alla televisione ha in mente i suoi elettori, perché tutta la politica è locale, perché i politici hanno bisogno dei voti dei loro concittadini. E così ragionano anche i direttori dei tg, che hanno bisogno delle audiences dei loro paesi. Difficilmente si pensano le cose da dire e da trasmettere in funzione di gente che sta dall’altra parte del mondo, in un altro contesto culturale e politico. Questo avviene solo in particolari circostanze (il Primo ministro italiano parlò attraverso Al Jazeera dopo il gravissimo incidente di Bengasi, provocato nel 2006 da un ministro leghista, ma i disordini erano nati per protesta dopo l’apparizione di questo in un normale tg italiano che era stato rilanciato dalle reti arabe).

Noi vogliamo mettere in primo piano questa dimensione internazionale anche perché è già cominciata una stagione in cui la produzione televisiva d’informazione si rivolge intenzionalmente ad altre nazionalità e culture usando le lingue di destinazione. Durante la Seconda guerra mondiale la radio è stata usata in questo modo a scopi politici e poi durante la guerra fredda anche la televisione, ma in misura limitata. Ora la tecnologia porta i canali di altri paesi a basso costo dovunque. Diverse televisioni occidentali producono tv in lingua araba, e Al Jazeera International produce trasmissioni in inglese su scala globale. Dove non si arriva con il satellite si arriva con il web. E tutto questo sta diventando normale.

In questa situazione nuova che cosa si può fare – se si può – per favorire la comprensione degli altri e per diminuire il rischio di una radicalizzazione dell’immagine degli altri, verso il peggio, nel nostro immaginario, e viceversa? Prendo a prestito da L.Pintak e dal suo America, Islam and the War of Ideas, (The American University in Cairo Press, 2006) la ricostruzione dell’episodio della danza di gioia di un gruppo di palestinesi l’11 settembre del 2001 e le due leggende metropolitane che vi si sono costruite sopra: da una parte che le popolazioni arabe esultassero al crollo delle torri, dall’altra che le televisioni americane costruissero filmati falsi su queste esultanze per preparare la guerra. Il pericolo non è solo quello che la televisione funzioni come arma, usata volontariamente per colpire. Più spesso il rischio è quello di trovarci tra le mani delle bombe a mano che esplodono incidentalmente, al di fuori delle nostre intenzioni, il che può essere anche più pericoloso. Lavoriamo dunque sia sugli effetti volontari e desiderati che su quelli involontari e indesiderati.

L’episodio della «danza di giubilo» dell’11 settembre è molto indicativo perché mostra come le scelte delle televisioni, con una breve sequenza di immagini, ripetuta molte volte, (specialmente in America in quel caso), incrementino le incomprensioni e rendano più aspro il conflitto. Cominciava con quei pochi secondi di video la storia di due visioni «a tunnel» di due fraintendimenti, basati su fallacie, che avrebbe prodotto lo sguardo iniettato di sangue attraverso il quale gli americani e la gente del mondo musulmano si sarebbero guardati reciprocamente (Pintak). Per quanto si pubblichino i dati dei sondaggi (Pew) da cui risulta che la simpatia per i terroristi di Al Qaeda riguardi in generale un piccola minoranza nei paesi arabi, in misura non lontana da quella di movimenti estremisti e violenti nei paesi occidentali (salvo eccezioni nei luoghi direttamente coinvolti nel conflitto mediorientale, qui le percentuali sono più alte), la tendenza a semplificare e generalizzare è alimentata dal ripetersi di immagini di gruppetti che bruciano le bandiere americane. Dall’altra parte l’impiego di immagini di vittime innocenti di bombardamenti americani in Afghanistan o di sequenze su Guantanamo o Abu Graib produce effetti proporzionati al dosaggio televisivo di queste immagini estreme, ancora più che alla specifica gravità dei fatti. Chi fa tv tutto questo lo sa benissimo. La responsabilità professionale, quando si agisce su fatti di portata internazionale e con trasmissioni a diffusione internazionale, è molto grande, dovunque si svolga il lavoro.

La distanza e la differenza culturale possono acutizzare il problema. Nessuno riuscirebbe, nel contesto di casa nostra, poniamo in Italia, a farci immaginare che i giovani protagonisti di scontri con la polizia per le strade di una città italiana o francese rappresentino la gioventù italiana o francese, mentre l’effetto ottico e la distanza geografica e culturale possono produrre identificazioni di questo genere. Lascio ad alcuni specialisti l’analisi dei casi più illuminanti: quanti festeggiavano Saddam durante una delle sue ultime comparse in piazza a Bagdad, quando aveva ancora il controllo delle telecamere? E quanti festeggiavano l’abbattimento di una sua statua dopo l’occupazione americana? E quanti sembravano in tv gli uni e gli altri? Il dosaggio delle immagini nelle mani delle regie televisive non è diverso da quello che in tutto il mondo sappiamo misurare in occasione delle campagne elettorali.

Al Jazeera e il terrorismo

Per apprezzare esattamente il modo, il contesto, la sostanza del giudizio su episodi di terrorismo o su fatti di cronaca molto sensibili per le relazioni Est-Ovest, Occidente-mondo musulmano, bisogna disporre di una conoscenza comparativa, linguistica, culturale, politica molto forte e molto rara da trovarsi in circolazione. Ci sono situazioni che vengono prese di mira in Occidente, ma anche in molti paesi arabi, come disinvolture o complicità nei confronti del terrorismo, per esempio la trasmissione di video di Bin Laden o di Al Zawahiri (e che nei momenti più acuti di tensione hanno fatto dire che Al Jazeera era un «megafono» (o un electronic podium offerto ai terroristi). Sappiamo anche che, da un altro punto di vista, diversi governi arabi criticano Al Jazeera con l’argomento del terrorismo, ma anche perché un giornalismo disinibito disturba l’ordine costituito e offre spazi utilizzabili per dare voce alle opposizioni politiche.

Facciamo attenzione che l’accusa di «fare da megafono» al terrorismo non deve apparire così enorme ed eccezionale. Vorrei ridimensionare il problema. Essa si è presentata tutte le volte che criminali terroristi di qualsiasi genere hanno messo a segno le loro imprese. È accaduto in Germania e in Italia negli anni Settanta e Ottanta, per il solo fatto che i giornali raccontassero le imprese violente o le minacce dei terroristi, e specialmente quando pubblicavano i documenti che fornivano le motivazioni delle Br o della Raf. Giornalisti italiani sono stati arrestati dopo interviste a terroristi latitanti. Non ricordo casi in cui le accuse fossero fondate. Il confine tra libertà di informare (e diritto dei cittadini a essere informati) e complicità con i criminali può diventare sottile a tutte le latitudini, così come a tutte le latitudini le misure di sicurezza contro il terrorismo rischiano di sconfinare in una limitazione intollerabile della libertà degli individui. La situazione post «11/9» ha molto preoccupato anche i giornalisti e una buona parte dell’opinione pubblica americana. Le pressioni esercitate sulla tv e sulla stampa hanno fatto parlare di un condizionamento pesante da parte dell’amministrazione e di censure. Si è parlato di una forma di controllo dell’opinione a cascata (cascading, Robert Entman, Projections of Power: Framing News, Public Opinion, and U.S. Foreign Policy, University of Chicago Press, 2004), il che spiega come tesi infondate – la connessione tra Bin Laden e Saddam Hussein, le armi di distruzione di massa in Iraq – abbiano a lungo mantenuto un’alta credibilità tra gli americani.

Leggende metropolitane

Le leggende metropolitane tendono in generale a peggiorare la rappresentazione degli altri. Un’immagine forte, potente e perversa dell’altro come nemico è sempre un buon punto di appoggio psicologico per politici in difficoltà: l’ideologia del nemico, lo schema paranoide del pensare-per-nemici è dunque sempre in agguato. La «riduzione di identità» degli altri, degli stranieri, immigrati, specie se di diversa cultura e religione è una tentazione a portata di mano per politici che ci vogliano speculare. La xenofobia in certe fasi funziona e fa prendere voti. Gli stereotipi non aiutano a vedere «il caos che c’è nell’altro» (Amos Oz), la molteplicità delle sue identità (Amartya Sen). E per evitare che attecchiscano bisogna darsi da fare da ogni parte. Mi fa piacere leggere su «Al-Ahram Weekly» quello che ha scritto Osama El-Ghazali Harb: arabi e musulmani devono anche imparare a scrollarsi di dosso gli stereotipi facendo sentire più forte la loro condanna contro gli atti di violenza che dovunque, dal Pakistan alla Cecenia al Medio Oriente, vengono compiuti nel nome della loro religione. La cattiva immagine si fa in due: i nostri difetti si sommano alla deformazione operata dagli altri. Molto dipende dalla mediazione esercitata dalle televisioni, anche se naturalmente la frontiera principale su cui le persone di buona volontà si devono impegnare è sempre quella, come suggerisce un filosofo contemporaneo (Charles Taylor), dei «selvaggi» che abbiamo in casa, che tutti hanno nella loro casa. E l’impegno più efficace è quello che ciascuno mette nel tenere a freno i «propri» selvaggi e non quelli degli altri.

Si potrebbe obiettare che qui stiamo parlando in misura sproporzionata di terrorismo e violenza. Ma non è un caso, perché la comunicazione televisiva, nelle trasmissioni di informazione, è dominata dalla violenza e dal terrorismo per ragioni che attengono alla sua natura. I criteri di selezione correnti, la natura stessa del giornalismo portano per ragioni perfettamente comprensibili, e per lo più giuste, a privilegiare nell’attualità internazionale i fatti drammatici. Se cerchiamo i criteri con cui viene confezionata l’informazione vedremo che una spinta a radicalizzare la realtà selezionando il dramma è nella natura della cosa. Le pulsioni interne dell’informazione televisiva, non solo di quella cattiva e faziosa, ma anche di quella «buona», spingono inevitabilmente in direzione delle cattive notizie. È nella natura della cosa. Buone notizie poche notizie.

Le informazioni televisive hanno la forma che hanno nei telegiornali perché sono dominate dalla competizione per la conquista di ascoltatori. Le trasmissioni di informazione sono parte della concorrenza commerciale tra canali e reti televisive esattamente come le trasmissioni di intrattenimento, salvo pochissime eccezioni (Bbc). Questo condiziona il linguaggio, i tempi, la struttura dell’informazione in misura crescente. In origine non era così: le televisioni commerciali (americane) avevano nella prima fase criteri di valutazione orientati al gradimento complessivo più che alla misurazione degli ascolti minuto per minuto, e quelle pubbliche europee avevano una missione istituzionale di servizio all’opinione pubblica, che è entrata in crisi quasi ovunque, dagli anni Ottanta, a causa della competizione sullo stesso terreno con le televisioni commerciali. Inoltre vi è stata una progressione nel tempo della commercializzazione degli ascolti, secondo un’accelerazione, dei ritmi, della spettacolarità, della superficialità, del sensazionalismo, che è ancora in corso.
Si sono così accentuati nell’informazione televisiva dei tg, specie i più importanti, quelli del prime time, i fenomeni che possiamo catalogare, (utilizzando l’appropriato schema di Lance Bennett, News. The Politics of Illusion, New York 2005) in questo modo:

a) Personalizzazione. L’informazione televisiva tende a scartare ogni astrazione e concatenazione concettuale: il partito, la nazione, il governo ecc. corrispondono sempre più esclusivamente a persone. A questa semplificazione e incarnazione dei fatti nelle persone corrisponde anche una inevitabile tendenza alla superficialità. C’è il tempo di vedere il volto, riconoscere i gesti ma non quello di apprezzare e valutare le argomentazioni. Le dichiarazioni sono sempre più corte: nei tg americani si è calcolata una media intorno ai dieci secondi.

b) Frammentazione e segmentazione: l’informazione è ridotta a una brevità tale da impedire l’illustrazione di un contesto nel quale collocarla e di elementi a sostegno della sua comprensione che richiederebbero più tempo. Manca l’informazione di background.

c) Drammatizzazione: la selezione delle notizie da collocare nel tempo dato privilegia la violenza e i fenomeni estremi. È questo un carattere generale del principio della «notiziabilità»: è ovvio che una bomba al mercato fa più notizia di una giornata al mercato senza bombe, ma l’estremizzazione di questo principio finisce per escludere le notizie non violente, soprattutto perché la violenza alza gli ascolti. Il risultato è una rappresentazione catastrofica del mondo anche in momenti di relativa tranquillità.

d) Prevalenza dello schema disordine-ordine: anche in ossequio al gradimento dei governi che amano essere approvati e assecondati, c’è una spinta molto forte a dare evidenza a notizie che minacciano l’ordine sociale e l’ordine pubblico in modo da rinforzare la reazione dell’opinione favorevole all’ordine. Per questo i governi in generale, specie se in difficoltà, apprezzano molto le notizie che producono un forte allarme (minacce terroristiche) e producono un desiderio di protezione.

e) Indexing, la corsa ai primi posti tra le notizie del giorno: il desiderio del potere politico di condizionare l’informazione televisiva si manifesta attraverso iniziative capaci di conquistare il vertice dell’attenzione, passando così in secondo piano notizie meno gradite. Il governo ha vari strumenti per introdurre nell’agenda pubblica, attraverso comunicati e atti del proprio ministero, fatti che catturano l’attenzione, se possibile nel momento desiderato per ottenere lo scopo. I criteri che portano i governi a fare uso di questo potere sono dominati generalmente dall’agenda interna e tengono in conto molto scarso preoccupazioni di ordine internazionale.

La tendenza dell’informazione televisiva segue dunque una sua propria deriva. L’esempio di questi anni, quelli della guerra in Afghanistan e poi in Iraq, ha reso evidente come il tipo d’informazione che giungeva all’opinione americana e a quella dei paesi coinvolti, e in generale dei paesi musulmani, portava a percezioni diverse, distanti e contrapposte dei fatti, con conseguenze rilevanti, che hanno condotto a commettere errori. Da parte americana si è vissuta la guerra in Iraq come se avesse portato un immenso sollievo ma senza cogliere, se non con molto ritardo, nessuno degli elementi che hanno invece provocato reazioni molto negative sia in Iraq che nella generalità dei paesi dell’area. Le deformazioni nella rappresentazione mediatica della realtà non sono dunque senza conseguenze e possono inasprire conflitti già di per sé estremamente difficili.

Che cosa si può chiedere alla politica?

– Di valutare i criteri con i quali i politici decidono cosa e come comunicare, sulla base di criteri non esclusivamente domestici, introducendo nella loro agenda una sistematica attenzione agli effetti dei loro gesti sulla scena globale.

– Di promuovere l’investimento di risorse in una comunicazione più ricca di background, capace di catturare attenzione, ma anche di arricchire criticamente l’opinione pubblica. Dove ci sono televisioni di servizio pubblico (come in tutta l’Europa) bisogna rimettere in onore la funzione istituzionale, di solito descritta mirabilmente dei documenti costitutivi del servizio pubblico o nei contratti di servizio tra l’azienda e lo Stato (e mai o raramente messa in atto).

– Di programmare iniziative pubbliche e incentivare iniziative private volte a sviluppare canali televisivi satellitari che attraversino i confini culturali e linguistici, dedicando programmi di alta qualità informativa non soltanto a raggiungere la propria comunità di origine nella propria lingua (Rai International per gli italiani all’estero, Dw per i tedeschi all’estero ecc.), ma anche a raggiungere comunità diverse in lingue diverse, comprese le lingue di destinazione, per esempio in arabo dal nord al sud del Mediterraneo.

– Promuovere più intense relazioni interculturali in forme bilaterali e multilaterali.

– Sollecitare, in Europa, la formazione di una generazione di giornalisti fluenti in arabo e in altre lingue, rendendo anche le televisioni nazionali più sensibili e competenti nel trattare i temi che riguardano paesi appartenenti ad altre culture. Tra paesi europei e paesi arabi dovrebbero intensificarsi gli scambi professionali in ogni senso.

Giancarlo Bosetti è direttore della rivista Reset. Il suo ultimo libro è "Spin. Trucchi e tele-imbrogli della politica" (Marsilio 2007).

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