L’Egitto e i canali satellitari stranieri in lingua araba
Ibrahim Saleh e Oliver Hahn 3 July 2009

Questo studio è stato condotto dall’Arab European Media Observatory (Ibrahim Saleh e Oliver Hahn).

La globalizzazione mediatica è pienamente consapevole del ruolo svolto dalle TV satellitari nella promozione e nel sostegno alla public diplomacy, sebbene accada molto di rado che ne venga valutato in modo obiettivo e indipendente il grado di efficacia raggiunto. Per questo motivo, porsi tale interrogativo è qualcosa che si collega direttamente al rapporto tra le forme dell’interazione comunicativa, da una parte, e i contesti di tale interazione e le innumerevoli differenze tra coloro che vi partecipano, dall’altra.

La percezione degli spettatori dei canali transnazionali è strettamente collegata al concetto di “dialogo”, attraverso l’uso di un processo interpretativo basato sulle congetture, sulla critica e sulla ricostruzione delle idee e sottolineando la funzione del dibattito e della discussione come base per trarre conclusioni sostenibili dalle varie opinioni e riflessioni. Esiste tuttavia un grosso ostacolo che tutti i canali transnazionali si trovano a dover affrontare e che è costituito dal semplice fatto che basarsi sui media al fine di comprendere realtà molto distanti produce un duplice travisamento perché gli spettatori che vivono altrove hanno una scarsa comprensione dei contesti più distanti e perché, di solito, nemmeno i giornalisti sono preparati ad interpretare gli eventi quando essi si verificano al di fuori della contestualizzazione delle notizie.

Tale mancanza di comprensione porta inconsciamente i giornalisti che si occupano di luoghi lontani e sconosciuti a scegliere di avere contatti con coloro con i quali si trovano più a loro agio a lavorare, che di solito sono molto simili a loro dal punto di vista culturale e ne condividono la visione del mondo. Pertanto, gran parte dei corrispondenti stranieri che trascorrono un determinato periodo di tempo nel mondo arabo, vivendo nel proprio ghetto senza farsi coinvolgere dalla cultura locale, dalla lingua e dal Paese in cui si trovano ( sia che insegnino in un istituto straniero, che si occupino degli avvenimenti relativi a quei luoghi o che siano lì per rispettare degli impegni militari), rivendicano con arroganza la loro condizione di esperti, affermando di sapere tutto e, in alcuni casi, di svolgere addirittura una missione civilizzatrice.

I canali televisivi transnazionali di questo tipo spesso mirano ad indurre lo spettatore a trarre conclusioni preconfezionate, a fornire un insieme di regole di base e procedure per discutere i pregi dei punti di vista alternativi, o a frustrare, oppure demolire, le visioni convenzionali. Tuttavia, il più delle volte, la public diplomacy esige una comprensione più profonda della natura della conoscenza, dell’indagine e della comunicazione, nonché dei reciproci doveri etici.

Il problema dell’approccio seguito da questi canali consiste nel presentare il dibattito mediatico sulla base di situazioni tipiche che si collocano all’interno di una determinata categoria, anziché dare spazio ad un dibattito dal significato più ambiguo, più vario nei contenuti, più indeterminato, più aperto al cambiamento. Perciò, in questo caso, l’ironia consiste nell’ignoranza e nella superficialità di tale visione e nel complesso di superiorità che blocca completamente il processo di dialogo e di comprensione. Vi sono altri studiosi e giornalisti ben informati che hanno effettivamente trascorso del tempo nel mondo arabo, che parlano la lingua, ne hanno compreso la cultura e che desiderano misurarsi lealmente e in modo rispettoso con ciò che vi è di diverso. 

E’ perciò molto importante valutare in che modo vengano percepiti nel mondo arabo i servizi televisivi in lingua araba degli International Satellite Broadcasters come Deutsch Welle, France 24 e Russia Today in Egitto. Questo articolo cerca di dare risposta ad una serie di interrogativi: come aggirare il mito che afferma che “grande è bello”, senza preoccuparsi di prendere in considerazione i contesti culturali? In che modo il pubblico arabo opera le proprie scelte culturali tra la miriade di offerte mediatiche disponibili? In che modo l’opinione pubblica araba è indotta ad identificarsi in esse ? La public diplomacy svolge un ruolo efficace nel dialogo interculturale?

Nello studio interculturale condotto da Saleh e Lehmann, emerge che l’Unione europea viene valutata positivamente dal 58,2 per cento degli studenti egiziani; la Francia ottiene un apprezzamento ancora maggiore (62,1 per cento), mentre la GB si colloca al 49 per cento, la Russia al 43, 9 per cento e gli Stati Uniti al 31,6 per cento. Soltanto il 25, 7 per cento degli studenti egiziani di giornalismo e scienze politiche si tiene costantemente aggiornata attraverso i media stranieri, mentre il 29,9 per cento degli intervistati si aggiorna raramente attraverso i notiziari dei media esteri e più del 46,3 per cento non li segue mai per ragioni diverse (1). Quando agli studenti è stato chiesto in che misura approvassero l’intervento culturale, mediatico e politico dell’Unione europea nel mondo arabo, è emerso un rifiuto collettivo riguardo a qualsiasi genere di coinvolgimento.

Ad esempio, il 43, 7 per cento degli studenti ha espresso una forte disapprovazione verso qualsiasi forma di intervento, il 52,2 per cento una disapprovazione parziale, e soltanto meno del 4,1 per cento ha espresso approvazione. Alla domanda relativa alle possibili cause delle attuali incomprensioni tra Occidente e mondo arabo, gli studenti hanno risposto imputando tale situazione alla decontestualizzazione delle informazioni, privilegiando la comprensione della cultura rispetto all’uso della lingua. La politica si delinea come il primo ostacolo, seguita dalle differenze culturali (55,6 per cento) e da quelle religiose (55,1 per cento). Ma quando agli studenti egiziani è stato chiesto se ritengono che vi sia spazio per un miglioramento dei rapporti, i risultati hanno confermato tali dati con il 54,1 per cento che si dice “molto d’accordo”, il 24 per cento “d’accordo” , raggiungendo così un totale del 79,6 per cento.

Un altro studio pilota condotto da Saleh e Hahn, ha suscitato una quantità di interrogativi. Il primo, è quello relativo al grado di conoscenza dei canali satellitari di lingua araba di proprietà di Paesi stranieri (2), e la ricerca ha confermato la tendenza tra gli studenti diplomati a conoscere meglio di quelli non diplomati i tre canali oggetto dell’indagine, sebbene la percentuale non sia significativa in nessuno dei due casi: il 55 per cento, per ciò che riguarda gli studenti diplomati, mentre per gli studenti non ancora diplomati tale percentuale scende al 35 per cento. Tuttavia, quando al campione è stato chiesto se vedono e seguono effettivamente quei canali, soltanto uno studente non diplomato (5 per cento) ha risposto di aver visto El-Hurra, mentre il resto ha affermato di non aver mai visto nessuno dei tre canali. Il gruppo degli studenti diplomati, però, ha dato delle risposte differenti: tre studenti hanno visto France 24 (15 per cento), due hanno visto DW (10 per cento), cinque di loro (25 per cento) hanno visto El-Hurra, e uno (5 per cento), Sahara, il canale iraniano. 

Quando agli studenti è stata chiesta quale sia la loro percezione delle TV satellitari in lingua araba, è emerso un atteggiamento generalmente negativo verso tali canali (51,7 per cento), specie tra gli studenti non diplomati (61,7 per cento) che hanno messo in evidenza il fatto che tali canali non hanno raggiunto le loro finalità. Il gruppo degli studenti non diplomati ha una visione negativa dei canali internazionali (95 per cento) e li definisce “ perlopiù inutili”, “non obiettivi e falsi”, “superficiali”, “non obiettivi e non credibili”, o si chiede: “cosa cercano di fare o di ottenere?” oppure li descrive come “giochi politici”, come “noiosi e non obiettivi”, mentre soltanto uno degli intervistati (5 %) ritiene che svolgano un ruolo importante. Il gruppo degli studenti diplomati ha una percezione più positiva, sebbene solo marginalmente. Soltanto tre studenti (15 per cento) ritengono che questi canali forniscano un servizio “obiettivo e di buona qualità”, “una visione intellettuale” e siano “interessanti”. Le restanti risposte (85 per cento) sono state molto negative e includono i seguenti commenti: “inutili”, “public diplomacy e propaganda”, “dov’è la voce araba in questi canali?”, “cercano di influenzare l’opinione pubblica araba”, “stereotipati”, “non obiettivi” . 

Alla domanda più importante, che chiede se questi canali in lingua araba e lo strumento della public diplomacy abbiano avuto successo o no, la risposta per il momento sembra essere negativa e scoraggiante a causa della distanza tra gli operatori di tali canali, da un lato, e il target dei loro spettatori o dell’opinione pubblica araba, che non li conoscono o li definiscono “Folk Devils” (malvagi) (3), dall’altro . Gran parte di questi tentativi non sono riusciti a vendere il proprio prodotto e ne hanno ulteriormente aggravato gli effetti più nocivi! Anche coloro che fino a quel momento avevano manifestato una lealtà assoluta verso il mondo occidentale, sia per ragioni di interesse politico o economico che per affinità, in un secondo tempo hanno cambiato idea. Tuttavia non è troppo tardi per recuperare la public diplomacy, sebbene ciò richieda un approccio totalmente differente. La nuova strategia dovrà fare affidamento più sull’ascolto che sulla comunicazione, più sulla cosiddetta second track diplomacy (4) che su quella ufficiale e più sull’impegno civile che sulle attività dei rappresentanti dei governi. Il consiglio di ascoltare invece di limitarsi ad imporre un prodotto, è fondamentale per salvare la reputazione internazionale dei Paesi europei. 

Per lo più, i canali stranieri in lingua araba non riescono a conquistare “il cuore e la mente” dell’opinione pubblica araba per tre ragioni: arroganza, impazienza e incapacità di ascoltare da parte di chi ha il compito di comunicare. L’arroganza è il risultato di una miscela tra la storia della colonizzazione e un approccio polarizzato alle cose, secondo lo stile “a modo mio o in nessun modo”. Offendendosi per tale caratterizzazione e svalutandola completamente, l’approccio di questi canali non fa che convalidare le percezioni globali. Inoltre, la maggior parte di quei canali non hanno REAL (Rating or Non-Rating Research) che segue un semplice format di RACE (Research-Action-Communication-Evaluatio). Un altro problema è la mancanza di comprensione nel contesto della società araba. Un altro ancora è il ben noto desiderio di cambiamento che si verifica quasi dall’oggi al domani quando c’è il “bisogno di orientamento” e che richiede una strategia mediatica attentamente pianificata per poter operare in un tempo molto più lento, trasformando l’intero processo in una perdita di denaro. Il paradosso sta nel fatto che coloro che gestiscono questi canali si rifiutano di prestare attenzione alle statistiche e ai feedback del pubblico. Essi si limitano a sperare che il pubblico arabo ascolti con attenzione. 

Ascoltare è un segno di rispetto che riflette il fatto che coloro che gestiscono i canali televisivi sono davvero interessati a ciò che gli altri potrebbero avere da dire. Molti degli operatori mediatici non arabi non comprendono che il numero limitato di spettatori che ha accesso alla TV satellitare è molto selettivo nell’operare scelte che si basano sulla looro memoria storica relativa al Paese che gestisce i canali televisivi, all’attuale rapporto politico con quel Paese straniero ma soprattutto al tipo di argomenti e al modo in cui essi vengono presentati per poterli adattare al pubblico locale. Infine, i Ministeri degli Esteri dovrebbero avere l’umiltà di riconoscere i propri errori. Questa non è la regola, tuttavia un’eccezione è sempre possibile. Infine, causa ed effetto dipendono dai funzionari che gestiscono tali canali televisivi perché essi non ammettono i loro errori e nemmeno si avvalgono di studi attendibili attraverso i quali valutare le loro performance. Questa situazione può spingersi fino al punto di assomigliare ad un dialogo tra sordi. Come ha dichiarato Alberto Fernandez, responsabile per la stampa e per la public diplomacy nella regione del Medio Oriente al canale televisivo Al-Jazeera nell’ottobre 2006 : “Abbiamo cercato di fare del nostro meglio [in Iraq], ma credo che il nostro operato sia suscettibile di critiche perché, senza dubbio, in Iraq vi è stata arroganza e stupidità da parte degli Stati Uniti”. In ogni caso, l’opinione pubblica araba resta scettica nei confronti di questi canali e, se conoscesse le piattaforme televisive come Deutsche Welle, France 24 o Russia Today,sarebbe più incline ad aspettarsi notizie propagandistiche o distorte che non la verità. In definitiva, la risposta sarebbe che la public diplomacy non è riuscita, almeno per ora, ad avviare o a mantenere il dialogo interculturale attraverso questo tipo di canali.

Note


1) Indagine su un campione di 600 soggetti per uno studio interculturale condotto da Ibrahim Saleh e da Ingrid Lehmann. Lo studio ha indagato la percezione degli “altri” tra gli studenti universitari di sei Paesi, Emirati Arabi, Egitto, Stati Uniti, Austria, Germania e Kuwait, per il periodo compreso tra gennaio e marzo 2007.

2) Indagine su un campione (100) di studenti egiziani dell’Egitto (rurale e urbano) che studiano giornalismo e comunicazioni di massa, e studio pilota di (40) studenti egiziani di giornalismo dell’American University del Cairo; parte (20) del campione non è ancora laureata e un’altra parte (20) è laureata. Lo studio è stato condotto da Ibrahim Saleh & Oliver Hahn per The Arab-European Media Observatory.

3) “Falk Devils” è un termine che i mass media usano per creare polemiche (giornalismo da battaglia), tuttavia questa dilagante campagna ostile basata sul pettegolezzo e la distorsione delle notizie può avere forza sufficiente da influenzare la linea politica e la legislazione di un paese. Cohen, S. (2002), Folk Devils and Moral Panics, terza edizione, Routledge.

4) Il termine “Second Track” fu coniato da Davies& Kaufman per sottolineare un processo alternativo di dialogo nell’affrontare temi conflittuali tra rappresentanti non ufficiali o “opinion leaders” di pari grado provenienti dalle comunità in conflitto. Il suo ruolo e la sua funzione sono complementari a quello della diplomazia ufficiale.
Davies & Kaufman, E. (2002), Second Track/Citiziens’ Diplomacy. Rowman & Littlefield Publishers, Inc.

(traduzione di Antonella Cesarini)

 

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x