“La vera forza è stata la religione”
Padre Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews.it, intervistato da Elisabetta Ambrosi 23 October 2007

Padre Cervellera, perché non è d’accordo con chi, come Walzer, sottolinea la natura apolitica del movimento anti-regime buddista?

Mi pare sia una critica insensata. Anzitutto, non auspicherei in questo contesto una rivolta “social-democratica” perché sappiamo che la giunta attuale avoca a sé il carattere di giunta socialista, e inoltre sappiamo cosa significa questo aggettivo per tanti paesi di questo continente. In realtà, poi, anche se il buddismo in sé non ha un particolare spirito politico, i monaci hanno avuto sempre in Birmania una funzione rivoluzionaria, di critica al regime. Non va dimenticato che essi, inoltre, sono anche la classe intellettuale della società, perché sono quelli che studiano e scrivono. E non solo libri di mistica o vita interiore, ma anche volumi che parlano dei problemi della società, guardati con un atteggiamento buddista. In breve, sono l’asse spirituale ma anche culturale del paese.

Qual è stato in passato l’atteggiamento dei monaci verso il regime?

I monaci hanno sempre avuto la funzione di coscienza critica della società, tanto è vero che hanno criticato l’occupazione britannica, hanno lavorato per l’indipendenza, si sono opposti al regime che negli anni ‘80 ha ancora una volta represso con violenza la rivolta democratica. Ripeto, la religione è un sostegno alla vita quotidiana. I monaci hanno sempre difeso l’alto valore spirituale della scelta per il buddismo, della opzione monastica e, infine, della vita della popolazione, che è molto collegata ai monasteri. Teniamo presente che nella società birmana, proprio perché profondamente buddista, tutti prima o poi entrano ¬– per un periodo più o meno breve – in monastero, quindi tra monastero e società c’è un’osmosi continua.

Ma perché se i monaci si sono sempre opposti alla dittatura solo quest’ultima rivolta ha finalmente innescato una reazione internazionale rispetto all’oppressione del popolo birmano? È stato forse lo spargimento di sangue via internet?

Ricordiamo anzitutto quali sono state le tappe della rivolta. Il primo fattore è stato il fatto che la gente birmana è veramente stufa della situazione: l’innesco della rivolta e delle marce è stato l’aumento dei prezzi del carburante e dei trasporti. Le nostre fonti di AsiaNews in Birmania ci hanno detto che ci sono molti operai che dovevano pagare qualcosa come un terzo del loro stipendio mensile semplicemente per i trasporti, e questo ha esasperato la posizione della gente che, dopo quarant’anni di dittatura, si trova sempre più povera, mentre la casta militare è ricchissima. La prima scintilla è stata, dunque, anzitutto l’ingiustizia operata dalla giunta verso la popolazione. In secondo luogo, poi, la gente, a partire da questa ingiustizia, ha avuto la forza di dire basta, di decidere di cambiare qualcosa, sebbene abbia sempre avuto poca speranza che la comunità internazionale li appoggiasse.

Perché questo scetticismo?

È molto semplice. In tutti questi anni, la comunità internazionale si è disinteressata di quello che succedeva in Birmania, ignorando per decenni ingiustizie, violenze, violazioni dei diritti umani ed elezioni non riconosciute.

Torniamo alle tappe della rivolta. Quando è subentrata la rivolta buddista?

Il sostegno della comunità buddista, che è l’asse spirituale della Birmania, un paese grandissimo dal punto di vista religioso, si è aggiunto successivamente alla rivolta della popolazione. Questo ha dato anche un senso di lotta morale da parte delle persone. Teniamo presente che, di fronte alla scintilla contro l’aumento dei prezzi e le prime manifestazioni, la giunta ha risposto con la violenza, arrestando alcuni attivisti dei diritti umani e bastonando le persone che avevano partecipato alla marcia, tra cui c’erano anche dei buddisti. A quel punto, i monaci hanno chiesto alla giunta di chiedere scusa per le violenze fatte: ma questa non solo non ha chiesto scusa ma ha cercato di comprare i religiosi, portando dei doni al monastero dove erano stati feriti i monaci. Ma questi, per tutta risposta, non solo non hanno accettato i doni ma hanno addirittura preso in ostaggio alcuni soldati. Di fronte alle minacce, li hanno rilasciati, ma da allora tutta la comunità buddista ha cominciato a fare le marce: che non sono state, ricordo, delle marce di contestazione, ma di solidarietà alle persone, ai poveri, alla gente che fa tutti i giorni chilometri e chilometri per andare a lavorare perché non può spendere i soldi del biglietto. Insomma, i monaci hanno cominciato anche loro a camminare dentro la città per esprimere la loro solidarietà.

E soltanto dopo sono arrivati i media.

Sono arrivati perché i giovani delle comunità birmana sanno usare la macchina fotografica e internet e quindi hanno diffuso le immagini e le notizie in giro per il mondo. A quel punto la comunità internazionale non poteva rifiutarsi di fare qualcosa. E di fatti per far smettere la contestazione e far tornare tutto alla “tranquillità”, per così dire, che cosa ha fatto il regime? Ha chiuso internet, bloccato le foto, preso i giornalisti e quelli che comunicavano attraverso i siti; anzi, ora quelle fotografie sono la strada attraverso cui il governo sta prendendo una ad una le persone che hanno partecipato alle marce. Così è arrivata la repressione.

Cosa succederà ora?

La gente continua per quello che può a mostrare la sua opposizione alla giunta, però intanto questa sta facendo un repulisti totale, senza neanche più alcuna considerazione per la tradizione birmana. Arresta la gente, ma anche i monaci, assedia i monasteri, affama le comunità, mette in prigione gli studenti. Le ultime fonti dicono addirittura che, oltre ad alcuni monaci, i militari stanno eliminando i soldati che hanno sparato sulla folla per evitare che, nel caso che l’Onu faccia un’inchiesta, venga fuori qualche testimone. Dirò di più: la giunta sta reprimendo in modo talmente scientifico e preciso la rivolta che tutti i dissidenti sono addirittura stati catalogati in quattro categorie: quelli che hanno guidato le marce, quelli che hanno partecipato in prima fila alle marce, quelli che hanno preso parte alla marce, e quelli che non hanno partecipato ma hanno sostenuto la rivolta. Di fatto, però, la giunta ha osato troppo, perché ha sfidato persino il mondo religioso dei monaci, tanto che sembra molti soldati e forse anche alcuni generali non l’abbiano molto digerita. C’è stato ad esempio un soldato rifugiato che ha ammesso di aver sparato con le lacrime agli occhi. Non sappiamo se sia vero, ma quello che è sicuro è che i birmani sono stati costretti a fare cose contro la loro spiritualità e tradizione.

Ma ora che i media hanno smesso di raccontare la repressione, anche la comunità internazionale ha cessato di interessarsene.

No, guardi, è il contrario. L’interesse dei media è scemato perché è scemato l’interesse della comunità internazionale. I media, non dimentichiamolo – altrimenti falsiamo la realtà – sono il riflesso della gente. I birmani tentano di continuare a far sentire la propria voce, e invitano a boicottare le Olimpiadi di Pechino, visto che la Cina ha in mano il destino economico della Birmania.

La Cina, gli interessi economici. Quanto pesano questi ultimi e quanto spingono in direzione contraria all’abbattimento del regime?

Credo purtroppo che ci sia un interesse meno nobile da parte della comunità internazionale nella vicenda birmana, perché la Birmania è anche uno dei paesi più ricchi di gas e di petrolio, per lo meno in quell’area del sud-est asiatico. In ballo c’è l’interesse dell’India e della Cina che hanno bisogno dell’energia della Birmania e per questo cercano di coprire le malefatte della giunta. Ma anche gli altri paesi dell’Asia guardano alle materie prime della Birmania, ed è per questo che in tanti anni da un lato hanno chiesto di migliorare la situazione dei diritti umani, ma al tempo stesso non hanno accettato nessun embargo, nessuna sanzione. Infine c’è l’Occidente, anche lui sempre più attento alle fonti energetiche, e sempre più impegnato a far sentire la propria voce. Da un lato invoca i diritti umani, dall’altro, come al solito, fa in modo che i propri interessi economici siano ben difesi. Per esempio: ai nostri governi non viene in mente di fare reali pressioni su Cina, India e Asean. Si sono accontentati di esortarli. Che in politica è un po’ poco.

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