Rivoluzioni di carta
Elisabetta Bartuli 30 August 2011

Se è vero che le rivoluzioni arabe di questo 2011, esattamente come tutte le rivoluzioni, sono scoppiate da un giorno all’altro, è altrettanto vero che non sono nate dal nulla. Certo non le avevano messe in conto quanti, per oltre un decennio, si sono limitati a guardare all’intera regione attraverso l’unico prisma dell’islamismo radicale e, di conseguenza, ne avevano estrapolato l’unica visione possibile, quella di un mondo stagnante, accartocciato su se stesso, storicamente se non geneticamente refrattario alla modernità e alla democrazia. Di sicuro, però, studiosi di altre discipline proponevano, anche loro da più di un decennio, scenari diametralmente opposti. Ai demografi [1] in primis e, come ovvio strascico, a chi osservava i movimenti e i cambiamenti di ambito culturale [2], il mondo arabo appariva frustratamente effervescente, naturalmente proteso verso l’universalità, dolorosamente in linea con i tempi moderni e i diritti/doveri che ne dovrebbero risultare.

Nei recenti avvenimenti, in particolare, hanno trovato una conferma alle loro aspettative gli studiosi di letteratura, vuoi perché la narrativa, su cui si concentrano, non è esposta alla luce dei poco generosi riflettori dell’attualità più spiccia o, molto più probabilmente, proprio in virtù della marginalità della materia. Sta di fatto che da un’analisi anche solo quantitativa della recente produzione letteraria araba si evinceva con chiarezza che la realtà aveva travalicato gli stereotipi più correnti. A dimostrazione che la dissidenza politica era un fatto diffuso, per esempio, bastava guardare all’ampio “filone”, ormai “canonico”, che va sotto il nome di “letteratura di prigionia” e che tratta della detenzione di molti intellettuali arabi – musulmani, cristiani o laici, senza distinzione – che hanno trascorso mesi e a volte anni tra le quattro pareti di una cella a causa di una esplicita opposizione alle politiche dei governi in carica quando non per una semplice affiliazione ai partiti d’opposizione. E per rendersi conto di quanto fosse obsoleta l’affermazione che le donne arabe non hanno voce, bastava guardare a come in pochi anni (1995-2000) la produzione di narrativa a firma femminile fosse passata da un risicato 10-15% sul totale del pubblicato a un gagliardo 50%. Nel corso degli anni, inoltre, la letteratura aveva minato alle radici anche un’altra radicata certezza, quella che voleva la società araba irrimediabilmente scissa tra un’elite abbiente e occidentalizzata e un popolino incolto e tradizionalista. Le biografie delle ultime generazioni di scrittori, invece, parlavano di una cospicua fetta di popolazione formata da giovani istruiti e proletari, difficilmente catalogabili in una bassa borghesia ma pronti ad assumerne il ruolo propulsivo.

L’Egitto, nella sua veste di paese più popoloso dell’aerea [3] e di tradizionale motore dell’industria culturale araba, ben si presta a esemplificare le tappe di un percorso forse non appariscente ma sicuramente lineare. I dati biblioeconomici egiziani dell’ultimo cinquantennio raccontano con chiarezza che, sebbene la narrativa abbia goduto di buona salute – si è passati dai 100-150 titoli/anno delle decadi Sessanta e Settanta ai 500-600 titoli/anno della decade Novanta – il 75% dei romanzi ha continuato a essere pubblicato dall’editoria di stato o in proprio dagli autori, mentre buona parte del restante 25% da grossi gruppi editoriali parastatali della carta stampata. Il che significa che il controllo governativo non ha mai smesso di dettare le sue condizioni, diventate via via sempre più opache, burocraticamente mostruose e clienteliste. E, soprattutto, eminentemente censorie, specialmente dopo il 1977, quando viene soppresso l’istituto della censura preventiva sulle pubblicazioni [vedi intervista di Elisa Pierandrei a Dar al-Shorouk], sostituito peraltro da quello della hisba, ossia della possibilità di denunciare scritti in commercio che si ritengano lesivi della religione o della morale, pubblica o privata, un’operazione su cui campano numerosi avvocati perlopiù di fede politica islamista.

La svolta avviene negli anni Novanta e la più palpabile inversione di rotta si deve a Hosni Soliman, titolare della Dar al-Sharqiyat, fondata nel 1991 e tuttora in attività. Oltre a puntare su una veste grafica più professionale e curata, Sharqiyat si scava una sua nicchia di mercato presentandosi come casa editrice specializzata nel dare spazio ad autori emergenti. È qui che pubblicano, talvolta partecipando alle spese di stampa, gli scrittori, all’epoca trentenni, denominati “generazione degli anni Novanta”. Ed è sempre qui, nell’appartamento di Bab al-Luq in cui la casa editrice ha la sua sede (a metà strada tra piazza Tahrir e piazza Ta‘lat Harb), che gli autori trovano uno spazio fisico in cui incontrarsi in una sorta di comunità alternativa al potere culturale costituito. Sharqiyat farà scuola. Nel 1998 vedrà la luce un’altra casa editrice con le medesime caratteristiche e maggiore coinvolgimento politico, la Dar al-Merit, guidata da Mohammed Hashem [vedi l’articolo di Elisa Pierandrei], seguita qualche anno più tardi, tra le altre, dalla Dar al-Malamih di Mohammed Sharkawy, che si dedica alla pubblicazione di autori poco più che ventenni, politicamente agguerriti e creativamente eclettici (qui prende piede la prima graphic novel egiziana).

Il fiorire delle case editrici cammina di pari passo con il diffondersi di quello che ben presto diventa il secondo cardine che regge il cambiamento: l’apertura di librerie private che autonomamente programmano presentazioni di libri e incontri con l’autore, diventando a loro volta luoghi di aggregazione che creano comunità e permettono agli scrittori di incontrare i lettori senza doversi piegare ai dettami governativi che controllano la scena letteraria. La prima a presentarsi sul mercato – e, all’epoca, sembra quasi fantascienza – è la Diwan, nell’isola di Zamelek, storico quartiere residenziale nel centro del Cairo, ma nel giro di pochi anni seguiranno, tra le altre, Kutub Khan e Alef, ognuna con un numero di filiali in crescita esponenziale.

In piazza Tahrir, a gennaio di quest’anno, non c’erano ovviamente solo gli editori, gli scrittori e i librai di cui abbiamo fin qui parlato, in realtà solo poche centinaia di persone in una città che sfiora i venti milioni di abitanti. Però in piazza Tahrir c’erano le centinaia di migliaia di individui di cui, negli anni, editori, scrittori e librai avevano captato e veicolato i reconditi pensieri, le segrete velleità, i nascosti turbamenti, le pressanti richieste. Migliaia di individui che, adesso, individualmente o come comunità, stanno riprendendo in mano il proprio presente per costruire un futuro da condividere. Anche all’interno delle grandi istituzioni culturali governative.

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[1] Cfr a titolo di esempio: Philippe Fargues, Generations Arabes, Fayyard 2000; Youssef Courbage e Emmanuel Todd, Le rendez-vous des civilisations, Seuil 2007 (traduzione italiana : L’incontro delle civiltà, Marco Tropea 2009) e Emmanuel Todd, Allah n’y est pour rien!, arretsurimages.net 2011.

[2] Cfr a titolo di esempio, sull’Egitto: Samia Mahrez, Egypt’s Culture Wars, Routledge 2008; Richard Jacquemond, Entre scribes et écrivains, Actes Sud 2003 ; e su altre realtà del mondo arabo: Nicolas Puig e Franck Mermier, Itinéraires esthétiques et scènes culturelles au proche-orient, Ifpo 2007, Miriam Cook, Dissident Syria, Duke University Press 2007; The Lebanese Association of Women Researchers, Cultural Practices of Arab Youth, Bahithat Volume XIV 2009-2010.

[3] 76.853.000 abitanti nel 2007.

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