Candidarli? No, we can’t
Amara Lakhous 18 March 2008

L’esclusione degli immigrati dalle liste dei candidati del Partito Democratico, soprattutto quella del deputato ‘uscente’ Khaled Fouad Allam, suscita molte perplessità, per più motivi. Primo. L’onorevole Allam ha mostrato in questi due anni di legislatura un grande entusiasmo, svolgendo un lavoro serio ed efficace e mettendo la sua esperienza di esperto delle questioni di Islam e di immigrazione al servizio del parlamento e della politica. È nota la sua collaborazione con il Ministro degli Interni Giulio Amato. Secondo. Dopo le primarie del Pd, il candidato premier Walter Veltroni ha dichiarato: “E’ successa una cosa bellissima. Un segno di grande speranza. Tre milioni e 300 mila persone hanno detto che c’è un’Italia possibile, nuova, serena, che non urla, che non odia, che vuole un cambiamento profondo nella politica e nel paese. Voglio fare tre ringraziamenti: a Vittorio Foa, ai ragazzi di 16 anni, ai tanti immigrati regolari che sono andati a votare”. Gli immigrati, quindi, hanno contribuito attivamente alla costruzione della legittimità politica del Pd, e tuttavia tale impegno non è stato ricompensato.

Sul fronte opposto, la situazione non è molto diversa. Il Pdl ha inserito Souad Sbai, la Presidente delle Donne Marocchine in Italia, nelle sue liste in Puglia. Tuttavia è una candidatura di facciata vista la svantaggiosa posizione che non garantisce un seggio nel prossimo parlamento. La questione delle candidature dei cittadini italiani di origine immigrata è solo la punta dell’iceberg. La situazione è davvero preoccupante. I figli di immigrati e rifugiati, nati in Italia o arrivati da minorenni, non hanno la cittadinanza italiana. Spesso vengono definiti ‘seconde generazioni di immigrati’, anche se la maggior parte di loro non è mai immigrato e non è mai stato nel paese di origine dei genitori. In realtà sono come i loro i coetanei: tifano sempre per gli azzurri, parlano i dialetti locali, amano la pizza, ecc. Insomma sono italiani a tutti gli effetti. Tuttavia a diciott’anni diventano immigrati e devono andare alla questura a chiedere il permesso di soggiorno.

Gli extracomunitari, residenti regolarmente in Italia da anni, non hanno nemmeno il diritto al voto amministrativo. Non conta se pagano le tasse e partecipano attivamente alla vita economica, sociale e culturale delle città dove vivono. Gli italiani all’estero, invece, hanno il diritto al voto politico, e di conseguenza possono incidere in modo determinante sull’operato del governo, come è successo dopo le ultime elezioni legislative. Che io sappia, questi cittadini italiani che risiedono all’estero non pagano le tasse e molti di loro non parlano nemmeno l’italiano. Sono italiani solo perché hanno un bisnonno che immigrò più di un secolo fa dal Veneto o dalla Sicilia. In realtà si sentono più americani o argentini o venezuelani.

Oggi si tratta di capire se c’è una reale e concreta volontà politica di allargare lo spazio democratico di partecipazione agli immigrati o al contrario si vuole continuare ad usare l’immigrazione come spaventapasseri per racimolare qua e là un po’ dei voti. Il nocciolo del problema rimane sempre lo stesso: l’integrazione si fa con i fatti e non con le parole. Purtroppo, se si segue il dibattito politico italiano odierno, la risposta a chi chiede la partecipazione degli immigrati in politica è una sola, ed è netta: (Non) si può fare!

Amara Lakhous è uno scrittore e antropologo algerino. Vive a Roma ed è l’autore del romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” (Editore E/O, vincitore del premio Flaiano nel 2006).

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