Scacciate dalla casa di Dio
Margot Badran 25 March 2010

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Al-Ahram Weekly (4 – 10 March 2010).

Era un luminoso sabato invernale, a Washington, con la luce del sole che si rifrangeva contro i cumuli di neve ammucchiati lungo le strade dopo le recenti tempeste. Ero di buon umore mentre mi dirigevo alla moschea nella Massachusetts Avenue, quella che qualcuno chiama la “moschea nazionale”, situata orgogliosamente nell’Embassy Row. Sono entrata e, dal momento che ero in anticipo, mi sono seduta ad aspettare in fondo alla sala. Sono arrivati alcuni uomini –uno, andando a depositare la sua offerta, mi ha quasi sfiorato- che hanno iniziato a pregare sparpagliandosi per la sala, apparentemente intenti solo nella preghiera. Poco dopo hanno fatto il loro ingresso alcune donne; io ho pensato che facessero parte dello stesso gruppo e che volessero pregare insieme nella sala principale della moschea anziché dietro la parete divisoria che si erge come uno sfregio contro le belle maioliche di Iznik che rivestono le colonne e le pareti. Tutto quello che le donne volevano fare era pregare nella sala, dietro agli uomini, in un punto in cui potessero vedere e ascoltare l’imam.

Appena le donne si sono sedute sul tappeto, verso il fondo della sala, mi si è avvicinato un uomo che, indicando la parete divisoria, mi ha detto: «Dì a quelle donne di andare lì». Gli ho domandato se parlasse arabo, e lui ha risposto di sì. L’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto: «Non posso dire alla gente dove deve andare». Senza aggiungere una parola, l’uomo si è voltato e si è allontanato. Quando sono iniziate le preghiere, le donne si sono spostate nella parte anteriore della sala, formando una fila dietro a quelle degli uomini. Nel complesso, non c’era molta gente venuta alla moschea a pregare. Dal mio punto di osservazione in fondo alla sala, ho notato una donna che poco prima aveva cercato senza successo di indurre le donne a spostarsi dietro alla parete divisoria e che, ora che la preghiera era iniziata, si dava un gran daffare con il telefono cellulare. Poco dopo ho visto due agenti della polizia di Washington in piedi dietro di lei e un frenetico andirivieni. Quando la preghiera di mezzogiorno è terminata, le donne sono tornate in fondo alla moschea e si sono nuovamente sedute sul tappeto. Gli agenti si sono avvicinati e si sono piazzati davanti alle donne. Un uomo che fino a quel momento aveva fatto avanti e indietro con espressione sdegnata si è qualificato come il responsabile della moschea aggiungendo che la donna col cellulare era la sua assistente. L’uomo ha rivolto alle donne sedute a terra un fuoco di fila di domande, chiedendo loro se fossero venute a pregare o a protestare. Improvvisamente si è voltato verso di me, guardandomi dritto in faccia, e mi ha domandato: «Hai pregato?». «Questo non spetta a te chiederlo. Spetta a Dio» . L’uomo ha girato la testa.

Alle donne è stato detto senza tanti complimenti che non potevano restare nella moschea e i poliziotti hanno ordinato loro di uscire, minacciando di accompagnarle fuori loro stessi. Quando la polizia ha iniziato a mostrare i muscoli e la tensione a crescere, un egiziano che solidarizzava con noi ci ha consigliato di andarcene per evitare di essere arrestate. Quando gli agenti hanno eseguito gli ordini dell’amministratore della moschea e della sua assistente, è stato chiaro che non avevamo altra scelta che andarcene. Avevo pensato di trovarmi in una moschea degli Stati Uniti, nella capitale del Paese, e le auto-proclamatesi autorità della moschea avevano fatto intervenire la polizia cittadina per cacciare un gruppo di donne che volevano soltanto pregare nello spazio congregazionale principale. Assurdo. E’ così che devono essere spesi i soldi dei contribuenti? In difesa della segregazione di genere? Pensavo che in questo Paese i giorni della segregazione fossero finiti da molto tempo. E invece eccola qui, nella principale moschea d’America, che vanta decine di migliaia di visitatori all’anno. Nei loro documenti destinati ai visitatori includeranno anche la storia della segregazione di genere?

Mentre la scena con le donne, gli agenti e i responsabili della moschea volgeva al suo epilogo, all’improvviso ho visto un gran numero di uomini, donne e bambini entrare nella moschea. In seguito ho saputo che erano arrivati in autobus. Ho saputo in seguito che si trattava di un gruppo di asiatici meridionali provenienti dal Maryland. Nel frattempo erano arrivati anche altri visitatori. Non erano neanche entrati nella moschea, dopo la fine delle preghiere, che l’intero gruppo, uomini, donne e bambini, è stato sospinto fuori, assieme alle donne indesiderate. Quando ormai eravamo oltre i cancelli in ferro battuto, e il nostro gruppo era diventato più numeroso, un visitatore visibilmente contrariato ha gridato in direzione del responsabile della moschea e della sua esultante assistente, rimasti a guardarci dal cortile della moschea: «Che modo orrendo di trattare le donne! Che cosa insegnate ai nostri figli?».

Una volta in strada mi sono rivolta ad uno degli agenti che, come l’altro poliziotto, era afro-americano, e gli ho detto: «Voi sapete che cosa significa in questo Paese essere discriminati per ragioni razziali o di genere. Come vi sentite a cacciare via delle donne? Avreste mai immaginato che nel vostro lavoro sareste stati chiamati a fare cose di questo genere?». L’uomo si è limitato a rispondere: «Per questo non vi ho arrestato» e ha ripetuto ciò che aveva detto anche l’altro poliziotto: « La moschea è un luogo privato e loro hanno il diritto di buttarti fuori se non giochi secondo le loro regole». Questo poliziotto non ha aggiunto, come aveva fatto minacciosamente l’altro, «Noi siamo la polizia e vi possiamo buttare fuori». Tutto quello che sono riuscita a dire al mio compatriota, il “poliziotto buono”, è stato: «Anche il bancone di un bar è privato» Che cosa succede se i giovani seduti lì avessero giocato secondo le regole? Le regole stabilite da chi? Mentre mi allontanavo verso la mia auto parcheggiata contro un cumulo di neve, sentii tornare gli anni Sessanta: l’opposizione alla guerra, i diritti civili, la liberazione delle donne. Il film si sta riavvolgendo? E chi lo sta riavvolgendo e perché? Da dove nasce tutto questo? Mi sono chiesta: di chi è, poi, la casa di Dio? Il sole scintillava ancora su Washington ma la giornata era diventata improvvisamente buia.

P.S. Dedico questo articolo alla memoria di Malak Hifni Nasif che 100 anni fa, al Cairo, in un pacchetto di richieste presentate ad una riunione dell’Egyptian Nationalist Congress, a Eliopoli, chiese che alle donne fosse consentito entrare nelle moschee per la preghiera congregazionale.

L’autrice è attualmente titolare del Reza Khatib and Georgianna Khatib Chair in Religioni Comparate presso il St. Joseph’s College di Brooklyn.

Traduzione di Antonella Cesarini

 

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