Al Jazeera parla inglese. Ma come?
Federica Zoja 19 January 2009

Il Cairo

“Finalmente, dopo un inizio di alto livello qualitativo, ma senza una personalità distinta, direi che comincia a prendere forma l’identità della rete”: così Lawrence Pintak, direttore del Centro Adham per il giornalismo televisivo dell’Università americana del Cairo (Auc) e giornalista, commenta l’avvento del nuovo canale satellitare Al Jazeera International. Inizialmente, rileva Pintak, “la prospettiva con cui erano confezionati i servizi era globale, come quella di Cnn e Bbc”. Difficile individuare tratti originali e scelte editoriali. Ora, invece, finita la fase di rodaggio, “si percepisce che si tratta di una produzione araba e soprattutto si può individuare una prospettiva ‘global south’ – prosegue lo studioso – l’attenzione dedicata alle problematiche dei paesi in via di sviluppo è unica nel panorama dei canali informativi”.

Ma quale avvenimento ha segnato il passaggio dai primi ‘vagiti’ alla ‘parola’ vera e propria? “Ritengo che l’assassinio di Pierre Gemayel, in Libano, (ministro trentenne del governo Siniora e discendente della potente famiglia cristiano-maronita dei Gemayel, ndr) abbia segnato la svolta. La copertura data da Al Jazeera International all’evento ha staccato, e di parecchio, quella degli altri canali in lingua inglese: per profondità, quantità di servizi, ricerca di commenti e opinioni. Hanno saputo e potuto trattare la morte di Gemayel meglio degli altri, sfruttando anche l’esperienza di Al Jazeera araba”.

Lo stesso vale “per le vicende palestinesi” e per le tematiche arabe del ‘post 11 settembre’: “Rispetto ai concorrenti, il nuovo canale dedica il 30% in più del proprio palinsesto al terrorismo, non solo in termini di cronaca, ma di analisi”. Grazie alla lingua inglese, il polo qatariota dei media migliorerà la propria immagine, cancellerà le diffidenze allontanando i sospetti di legami con lo ‘sceicco del male’ Osama bin Laden? “Non credo che il gruppo Al Jazeera abbia investito tutti questi soldi per ‘marketing’ – conclude Pintak – I mezzi di comunicazione sono soprattutto potere. E Doha ha saputo mettere in crisi il primato dei sauditi nella regione. Credo che l’obiettivo sia stato e rimanga questo: dare al piccolo Qatar la statura di paese influente nel mondo arabo”. Su un piano giornalistico, la produzione di Al Jazeera, inglese o araba, dà una sferzata di energia al panorama globale: “Reclutando il meglio dei professionisti sulla piazza, inoltre, Al Jazeera si è auto-imposta dei limiti alla manipolazione delle notizie. I giornalisti assunti hanno una reputazione da difendere, sono forti e influenti, non si faranno mai mettere i piedi in testa dall’editore. Punteranno a dare il massimo”.

Visione d’insieme, dov’è?

Di diverso parere Ibrahim Saleh, professore di giornalismo e comunicazione di massa alla American University del Cairo, che invece mette l’accento sulla “crisi di identità che stanno attraversando tutte le televisioni arabe” in genere. “A suo tempo, quella della tv del Qatar fu una grande esplosione – ricorda Saleh – il contesto di allora era completamente diverso, anche da un punto di vista giornalistico. Dieci anni fa mancava la cultura del reportage e delle inchieste nel panorama della comunicazione araba”. Ora invece, secondo il docente, “Al Jazeera ha perso il suo smalto: per l’Occidente è una televisione da guardare con sospetto, perché in qualche modo associata al terrorismo di Al Qaeda; e anche per il mondo arabo, dove in molti ritengono che ci siano collegamenti con Israele o gli Stati uniti”.

Un’emittente destinata a dividere, a far parlare di sé. E che ora ha forse bisogno di rinfrescare la propria immagine. Il professore non nasconde un filo di delusione: “Finalmente abbiamo un punto di riferimento, diceva la gente, abbiamo immagini, approfondimenti, notizie attendibili. Ma in realtà dov’è la denuncia delle cose davvero importanti?”. Ma allora quali sono le colpe di Al Jazeera, da dieci anni accusata alternativamente di tutto e del suo contrario? E che cosa è successo, se è vero, per perdere credibilità agli occhi degli spettatori? “Ritengo che le ragioni siano due: innanzitutto, un approccio sensazionalistico alle notizie che, con il passare del tempo, ha stancato”. E poi, di conseguenza, un atteggiamento che Ibrahim definisce “dei due pesi due misure”, ovvero una certa condiscendenza verso alcuni regimi mediorientali, vicini e potenti, ad esempio quello saudita.

“Al Arabiya non è perfetta – ammette il docente – ma grazie a uno stile di ‘basso profilo’, meno urlato, si è tracciata una strada verso audience diverse”. Quanto ad Al Manar, emittente libanese che fa capo al partito Hezbollah, “è un male che in Europa sia stata bandita, perché è importante conoscere diversi punti di vista. È una emittente di nicchia, ma ha una buona copertura dei fatti”. Indebolita sul fronte interno, dunque, sembra che lo sbocco verso il pubblico anglofono possa ridare forza al marchio Al Jazeera: “Il gruppo sta cercando di avvicinarsi al mondo occidentale, ma ha comunque un problema di penetrazione perché il servizio è erogato negli Stati uniti attraverso cavo e web. E quante persone accedono al web stream?”.

E la questione finanziamenti solleva numerosi dubbi: “Fino a quando si può continuare a spendere senza mai guadagnare? Niente pubblicità, solo la proprietà che continua a versare soldi. Secondo una prospettiva aziendale, si calcola che un’emittente impieghi in media cinque anni per andare a regime”. Ma Al Jazeera ha superato i suoi primi dieci anni e continua a rappresentare per i proprietari una spesa e basta. “A meno che non parliamo di propaganda e allora il discorso cambia”, ovviamente anche quello dell’affidabilità dell’informazione. “Per queste ragioni di carattere economico-finanziario, gli esperti di media non hanno grandi aspettative riguardo a Al Jazeera International, non in termini giornalistici. Non c’è dubbio che tecnologie e personale siano ottimi, ma ancora mi chiedo quale sia la visione d’insieme, il progetto, la linea editoriale e l’obiettivo reale della proprietà”, conclude Saleh.

Occidente, penetrazione difficile

A proposito del nuovo canale in lingua inglese, Augusto Valeriani, ricercatore dell’Università di Bologna specializzato in media arabi, parla invece di “ennesimo colpo di genio”, ampliando la prospettiva di analisi. Ricorda l’esistenza di Al Jazeera Bambini, Al Jazeera Sport, Al Jazeera In diretta, oltre al sito web e a un giornale ora allo studio. Valeriani mette sullo stesso piano polo media e “iniziative della Qatar Foundation, Giochi di Doha, Gran premio di motociclismo, discussioni del ciclo di Doha su Bbc World”. E mette in evidenza “l’importanza della media diplomacy”. È la dimostrazione che “anche un piccolo uomo può giocare con la sua ombra e spaventare i giganti”. Da qui a prevedere un brillante futuro di pubblico per Al Jazeera inglese, però, ce ne vuole. Valeriani non si dice ottimista: “Non credo che in Occidente questa rete segnerà un cambiamento. Il successo di Al Jazeera araba è nato dalla domanda di informazione qualificata da parte del mondo arabo stesso. Forse oggi vi è una richiesta simile da parte delle comunità musulmane non di lingua araba, ma è troppo presto per dirlo”. Nel mondo anglofono, invece, internet e i canali collaudati sembrano già soddisfare l’esigenza di notizie. A meno che Al Jazeera International sappia proporre prospettive e linguaggi innovativi anche per l’audience più ‘viziata’.

Questo articolo è stato pubblicato nel gennaio 2007

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