Radiografia di un paese a rischio frantumazione
M. T. 11 September 2008

Sarà Bosnia, saranno Bosnie o la Bosnia non sarà? Il paese balcanico, teatro di una sanguinosa guerra (1992-1995) che scosse le coscienze dell’Occidente, affronta un momento delicatissimo. No, la guerra non tornerà. Ma il paese sta implodendo, ha toccato un punto dal quale si rischia di non fare ritorno. Le divisioni etniche, i continui veti incrociati tra le etnie e le riforme che marciano a rilento rischiano di condannarlo all’inazione perenne. E quel profilo né carne né pesce di stato “uno, bino e trino” potrebbe rafforzarsi ancora, fino a divorare l’ultimo spazio per costruire un futuro diverso. Un futuro da stato normale.

Spieghiamoci meglio. La Bosnia, la cui architettura istituzionale deriva dagli accordi di Dayton del dicembre del 1995 che posero fine al conflitto, è uno stato federale, con un governo centrale (sede a Sarajevo) dotato di poteri non così incisivi, e con due entità etniche – la Republika Srpska (RS) e la Federazione di Bosnia e Erzegovina (FBiH) – che vantano funzioni e competenze piuttosto rilevanti. Una e bina, si capisce. Più bina che una, a dirla tutta. Ma perché trina? Il punto è che all’interno della Federazione, meglio nota come Federazione croato-musulmana, croati e bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) non vanno così d’accordo e più volte i primi, anche se invano, hanno chiesto la creazione di una loro entità.

Dalla fine della guerra a oggi la Bosnia ha intrapreso un cammino complesso e tortuoso, il cui sbocco finale, oggi, non s’intravede. Nel senso che lo status quo recita ormai la parte del leone. La situazione attuale vede i partiti etnici dominare la scena e la classe politica, composta perlopiù da figli della guerra abituati a ragionare secondo schemi etnici, di diffidenza nei confronti dell’altro, chiude ogni spazio – così come spiega bene Christophe Solioz nell’intervista pubblicata da Resetdoc – alle nuove leve, tendenti a pensare in chiave più moderna, senza i condizionamenti del conflitto. Lo strapotere dei dinosauri della politica, unito alla rigidezza di Dayton, crea un cocktail devastante per la Bosnia. Se, al momento della firma della pace, la “cantonalizzazione” appariva la soluzione giusta per normalizzare il paese, oggi è diventata invece una sorta di Alcatraz, dalla quale scappare sembra estremamente difficile. C’è stata un’importante occasione di fuga nel 2000, quando le forze del cambiamento – i socialdemocratici e il partito per la Bosnia-Erzegovina – andarono al potere. Ma quell’esperienza durò solo due anni e risultò schiacciata dall’incapacità di riformare seriamente il paese e dalla pressione incalzante dei partiti etnici, che, tornati sulla scena nel 2002, hanno imposto le loro rispettive ortodossie, totalmente incompatibili. I bosgnacchi perorano la causa di uno stato senza entità. I serbi reagiscono aggrappandosi a Dayton e impedendo revisioni costituzionali, per tutelare l’esistenza della RS, la “creatura” di Radovan Karadzic.

Due polizie sono meglio di una

Le riforme non si fanno, in Bosnia. Coltivare il proprio orticello è l’imperativo dei partiti etnici, come dimostra l’infinita discussione sull’unificazione delle polizie serba e croato-musulmana, che l’Ue ha posto come requisito per la firma degli accordi di Associazione e Stabilizzazione (Aas), primo passo per aspirare a una futura membership. RS e Federazione croato-musulmana un accordo l’hanno raggiunto, e l’Ue ha siglato l’intesa sugli Aas. Eppure, in molti mettono in luce che la riforma delle polizie è stata solo un ritocco cosmetico e che Bruxelles ha dato l’ok agli Ass controvoglia, perché non poteva fare altrimenti e doveva dare alla Bosnia un’apertura di credito, pena l’aumento della frustrazione a Sarajevo.

Banja Luka vuole andarsene

Gli esperti e i diplomatici vedono per la Bosnia un’unica exit strategy: il potenziamento del governo centrale e la conseguente limitazione dei poteri delle entità e dei dieci cantoni – in alcuni dominano i bosgnacchi, in altri i croati, in altri ancora c’è una paralizzante maggioranza mista – in cui si suddivide la Federazione croato-musulmana. Ma la situazione non si evolve. In primis perché la comunità internazionale non se la sente di prendersi dei rischi, specie in un momento in cui gli Usa hanno altre beghe da sbrigare e l’Ue è in preda a una sindrome da over-enlargement. Tutto ciò fa il gioco di Milorad Dodik, l’ambizioso primo ministro della RS, leader dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), che vede in questa contingenza la possibilità di accelerare le proprie tentazioni indipendentiste.

In più occasioni Dodik ha avanzato l’idea di convocare un referendum popolare per secedere dalla Bosnia e dare ai serbi una patria tutta loro, chiudendo la convivenza scomoda con musulmani e croati. Ce la farà? Secondo William Montgomery, ex ambasciatore americano a Belgrado, non è escluso che passo dopo passo Dodik possa portare a compimento questo obiettivo. Montgomery ha scritto di recente sul sito di B92 (www.b92.net), emittente belgradese, che il premier serbo-bosniaco punta a seguire le orme del collega montenegrino Milo Djukanovic, le cui ambizioni indipendentiste trovarono all’inizio forte ostilità in Serbia – com’è ovvio – e in seno all’Ue. Poi, una volta crollato il regime miloseviciano e una volta convinta l’Ue che la separazione con la Serbia era inevitabile, Djukanovic ha coronato la lunga cavalcata verso la piena sovranità, sancita dal referendum del 21 maggio 2006. Ostilità interna (quella da parte dei bosgnacchi) e critiche esterne (quelle di Bruxelles) creano un’analogia tra RS e Montenegro, dove Dodik ha inviato i suoi emissari, per capire il segreto del successo di Djukanovic. Eppure l’architettura di Dayton, che riconosce la repubblica serbo-bosniaca, vincolandone però l’esistenza all’accettazione della costituzione del ’95, è un ostacolo in apparenza insormontabile per Banja Luka (la capitale della RS).

Musulmani divisi

Ma a dare una mano a Dodik potrebbero essere i musulmani, la cui élite politica si è avvitata nel corso degli ultimi due anni in una dura lotta. Da una parte il Partito d’azione democratica (Sda), guidato dagli eredi di Alija Izetbegovic, il leader che guidò i sarajevesi nella resistenza al lungo assedio serbo. Dall’altra il Partito per la Bosnia Erzegovina dell’ex ministro degli esteri Haris Silajdzic, oggi presidente nella presidenza federale tripartita (che prevede tre membri, un croato, un bosgnacco e un serbo, che ricoprono a rotazione la carica). La battaglia tra le due fazioni ha indebolito notevolmente i bosgnacchi, tra l’altro costretti ad affrontare anche una seria crisi economica in seno alla FBiH, i cui conti sono in rosso a causa dell’aumento delle pensioni per i veterani di guerra. Un provvedimento preso nel 2006 alla vigilia delle parlamentari, per accattivarsi la simpatia degli ex combattenti.

E i croati, da che parte stanno? Appoggiano in privato le mosse di Dodik, ma non hanno il coraggio di sostenerle pubblicamente. Si appostano, in generale, sulla riva del fiume. E aspettano. La situazione è stata ben riassunta dall’ex Alto rappresentante della comunità internazionale per la Bosnia, Lord Paddy Ashdown, che ha scritto sul Guardian: «I musulmani sono divisi e dovrebbero anteporre il bene pubblico a quello personale, i croati aspettano, Dodik perlomeno ha un piano». Un piano separatista, che però viene perseguito con astuzia e pragmatismo. La RS, infatti, sta sperimentando una fase di crescita grazie a una serie di riforme e privatizzazioni. Dodik fa l’anfibio: è duro quando si toccano gli interessi nazionali, è duttile in economia. Ce la farà a sviluppare i suoi piani? Dipende da come si evolverà la lotta intra-bosgnacca e da quello che faranno – se faranno qualcosa – i croati. Dipende anche dall’Europa, se vorrà darsi una mossa a cercare un “piano B” per la Bosnia. Prima che il singolare (Bosnia) venga sostituito definitivamente dal plurale (Bosnie). Prima che arrivi il disastro: la scomparsa della Bosnia.

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