Attenti a Riad, in video ma non giornaliste
Naomi Sakr 23 September 2009

Questo è il testo presentato dall’autrice alla Conferenza di Doha su donne e media, organizzata da Resetdoc il 19 aprile 2009. E’ basato su una ricerca più ampia dell’autrice dal titolo "Women and Media in Saudi Arabia: Rhetoric, Reductionism and Realities" pubblicata sul numero del dicembre 2008 del British Journal of Middle Eastern Studies, Vol 35, No 3, pp 385-404.

Negli anni recenti, il governo dell’Arabia Saudita ha introdotto numerose riforme economiche e politiche. Una descrizione di tali riforme deve tener conto del fatto che esse furono fatte negli anni Novanta e sono dunque precedenti sia agli attentati del settembre 2001 che alle pressioni internazionali che li hanno seguiti perché l’Arabia Saudita avviasse un processo di riforma sociale. Sebbene i cambiamenti di cui si discute nel presente articolo si siano verificati nel triennio 2004-2006, è importante che essi vengano compresi nel contesto di una storia più lunga, risalente a molti decenni prima. Poiché la nostra attenzione, in questa sede, è concentrata sul tema dei media, non c’è bisogno di risalire a molto prima degli anni Sessanta, con l’avvento della televisione nel regno saudita.

Ma, dal momento che anche le donne sono al centro della nostra attenzione, è importante ricordare che nel 2000 l’Arabia Saudita ha firmato la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw). Il governo saudita ha avanzato molte riserve alla propria adesione alla convenzione. Il fattore decisivo, tuttavia, è che ha firmato per ragioni che sembravano collegate a un’offerta di maggiori investimenti stranieri e all’ingresso nella World Trade Organization (Wto) e che, dunque, non avevano nulla a che vedere con le pressioni esterne seguite ai fatti dell’11 settembre.

Va anche riconosciuto che in Arabia Saudita il dibattito pubblico sul tema della condizione femminile è ricco di contraddizioni. Da una parte, la retorica ufficiale parla di «natura delle donne», come se tale «natura» imponesse delle ovvie limitazioni a ciò che le donne possono fare e ai luoghi in cui possono andare. Dall’altra, nelle politiche governative concernenti l’istruzione, l’occupazione e la posizione giuridica femminile, sono stati introdotti dei grandi cambiamenti. 

Professioni e corsi universitari che un tempo erano interdetti alle donne, diventano ora accessibili. Le donne possono fare richiesta di un documento di identità anche senza il consenso di un tutore di sesso maschile. Nel 2005, vi fu la promessa del voto alle donne per le elezioni municipali previste per il 2009, poi rinviate. Le contraddizioni sono interessanti perché indicano che vi è una spinta intrinseca verso la rinegoziazione. Molti studiosi hanno colto tale punto, dimostrando in che modo, per le donne saudite, le contraddizioni tra il dibattito ufficiale sulle donne e la realtà concreta presentino delle ramificazioni nella vita quotidiana. Un esempio estremo ci viene dall’incendio della scuola femminile di Makkah, nel 2002. Vi morirono quindici ragazze. Le famiglie delle vittime accusarono la polizia religiosa di aver ostacolato l’evacuazione dell’edificio a causa delle norme religiose che vietano il contatto con donne a capo scoperto. In seguito a quell’episodio, la responsabilità per l’istruzione femminile fu trasferita dalle autorità religiose al Ministero dell’Istruzione.

La visibilità cresce

Il mio obiettivo, nel presente articolo, è quello di valutare fino a che punto la condizione personale e politica delle donne in Arabia Saudita sia stata rinegoziata attraverso i media. Per fare ciò, disponiamo di due insiemi di elementi contraddittori. Il primo indica che, tra il 2004 e il 2006, la visibilità delle donne nel mondo dei media sauditi è aumentata in modo considerevole. Il secondo suggerisce invece che, malgrado l’aumentata visibilità, nella condizione lavorativa delle donne giornaliste si sono verificati ben pochi cambiamenti. Tale contraddizione può contribuire a spiegare le pressioni volte a rinegoziare la condizione delle donne giornaliste. Nello stesso tempo, tale contraddizione merita una spiegazione, che questo articolo tenterà di dare.
Tuttavia, prima di esporre gli elementi di cui disponiamo, è necessario fare tre osservazioni di fondo. La prima è che la visibilità delle donne nel mondo dei media non necessariamente dice molto circa la loro condizione in altri settori della vita pubblica. Ad esempio, sebbene in Egitto vi siano numerose donne presentatrici, sia alla radio che alla televisione, ve ne sono poche che siedono in Parlamento.
La seconda osservazione è che, in Arabia Saudita, il dibattito pubblico si basa quasi esclusivamente sui riferimenti all’islam e tali riferimenti sono inevitabilmente specifici dal punto di vista storico. Vale a dire: chi è al potere interpreta l’islam in modo diverso a seconda dei diversi momenti storici e dei diversi luoghi. In Iran, ad esempio, l’ayatollah Khomeini rovesciò la propria posizione circa i diritti politici delle donne. Nel 1962, affermò che il voto alle donne era contrario ai principi dell’islam.

Nel 1979 disse invece che le donne musulmane avevano il dovere di intervenire nella vita politica.
Anche l’Arabia Saudita ha sperimentato alcune revisioni. Sempre nel 1979, alcuni contestatori presero d’assedio la Grande Moschea di Makkah, accusando i leader politici del regno di depravazione morale. Il governo reagì con ciò che le donne saudite esperte di media descrivono come un’ondata di iniziative «anti-femministe», tra cui l’allontanamento delle donne da molti programmi televisivi e l’imposizione di una rigida segregazione nei luoghi pubblici. Tale reazione corrispondeva a ciò che spesso accade quando determinati gruppi di interesse hanno la necessità di ostentare unità. Essi lo fanno esercitando pressioni sui meno forti perché si attengano a norme legittimate dal richiamo alla «tradizione». In questo caso, la «tradizione» equivale all’islam. Tuttavia, come osserva la studiosa Hanna Papanek, le cosiddette «tradizioni» possono essere inventate da coloro che sono già potenti, attraverso la loro particolare visione del passato e la speranza di un potere futuro.
La terza osservazione di fondo ha a che vedere con il modo di valutare i cambiamenti in atto tra i media nel ritrarre le donne. La domanda di come affrontare tale valutazione può sembrare difficile quando i ritratti sono estremamente contraddittori. L’edizione del 2005 dell’Arab Human Development Report, sottotitolata The Rise of Women in the Arab World, concludeva che «la contraddizione è la caratteristica prevalente dell’immagine della donna, nei media come nella società».
Sui canali televisivi di proprietà dei sauditi, tra cui Mbc, Rotana, Al-Risalah e Al-Majd, in ogni genere di programmi, appaiono immagini molto differenti delle donne arabe. Poiché i significati non sono immutabili, nessuno sa davvero in che modo il singolo spettatore interpreta i diversi volti femminili visti in televisione. D’altro canto, più le descrizioni sono diverse, più ampie sono le possibilità di interpretazione. Ciò implica che, anziché tentare di valutare i ritratti femminili nel senso di classificarli come «favorevoli» o «contrari» alle donne, essi possono essere valutati secondo il grado di diversità.

Quando la diversità dei personaggi e delle vicende narrate aumenta, sia nei contenuti reali che in quelli immaginari, aumenta anche la gamma dei punti di riferimento attraverso cui discutere i temi concernenti la condizione delle donne.
Passando ora all’elemento della visibilità delle donne nei media sauditi nel triennio 2004-2006, la scelta di tale periodo è avvalorata da un articolo pubblicato nel giugno 2006 sul sito liberale saudita Elaph. L’autore di quell’articolo affermava che nei due anni precedenti si era verificata una grande trasformazione dei media sauditi. Egli scriveva: «le donne, oggi, appaiono ogni giorno nelle prime pagine di tutti gli otto quotidiani ufficiali, un tempo monopolizzati dagli uomini. I canali televisivi ufficiali, nei cui notiziari e nei cui programmi di altro genere la presenza femminile era ridotta al minimo, sono ora diventati i propugnatori dell’invasione (iqtiham) dei media da parte delle donne saudite».
Per molti cittadini sauditi, la logica risposta a tale pretesa «trasformazione» è stata quella di sottolineare che si tratta di una trasformazione che ha riguardato soltanto l’ultimo quarto di secolo. Un paragone con la situazione precedente al 1979 avrebbe potuto essere molto meno sorprendente. Durante gli anni Settanta, ad esempio, in Arabia Saudita la gente aveva l’abitudine di frequentare i cinema all’aperto, sia in compagnia di donne che di uomini. Dopo la fine degli anni Settanta, ciò non è stato più possibile.

Arrivano le conduttrici

Come spiegare l’improvviso aumento di visibilità delle donne osservata da Elaph? Abeer Mishkhas, una giornalista saudita, nel 2004 aveva già notato una tendenza in questa direzione. Mishkhas collegava tale fenomeno a due fatti accaduti nel corso del 2003: l’introduzione del National Dialogue e l’annuncio che le elezioni municipali si sarebbero tenute nel 2005. Il National Dialogue ebbe inizio come un’ iniziativa finanziata dallo Stato consistente in sei incontri mensili con persone provenienti da settori diversi della società saudita per discutere vari temi di politica sociale.
La promessa di tenere le elezioni municipali, nel frattempo, sollevava la speranza che le donne avrebbero potuto votare e candidarsi a cariche pubbliche. Così, quando fu annunciato che l’incontro del National Dialogue del giugno 2004 avrebbe affrontato il tema delle politiche riguardanti le donne, ciò coincise con un periodo di grandi aspettative e di intenso dibattito, che spinse la stampa a interessarsi delle attività favorevoli e contrarie alla partecipazione delle donne alla vita politica.
Allo stesso tempo, cambiarono anche le regole relative alla pubblicità delle discussioni del National Dialogue. Inizialmente quegli incontri si tennero a porte chiuse. Gradualmente, per effetto delle pressioni esercitate da vari ambienti, comprese alcune delle stazioni radio-televisive più liberali del regno, ai media fu concesso di registrare i lavori. Il tema dell’incontro del giugno 2004 contribuì a portare un elemento di equilibrio riguardo al sesso dei partecipanti al Dialogue.

Questi due sviluppi contribuirono a far aumentare la presenza delle donne quali soggetti delle vicende raccontate dai media. Ma le donne cominciavano anche ad apparire in veste di presentatrici.
Al-Ikhbariya, un canale saudita d’informazione di proprietà dello Stato fu inaugurato agli inizi del 2004 e i suoi dirigenti ritennero importante avviare i programmi con la presenza di presentatrici femminili. Ciò si armonizzava con i tentativi statali di modernizzare l’immagine del regno e di tenere il passo con le tendenze dei canali televisivi di cui erano proprietari alcuni imprenditori privati sauditi. In particolare, il gruppo Mbc, nel 2003, aveva lanciato un suo canale di informazione, Al-Arabiya, e aveva assunto molte donne in tutti i settori della produzione delle notizie. Dopo il 2003, i canali arabi di informazione e di intrattenimento iniziarono a proliferare; per conquistare gli spettatori sauditi, Al-Ikhbariya doveva concentrarsi sulle notizie nazionali e sui programmi d’attualità.
Al-Ikhbariya aveva iniziato a trasmettere da un anno e mezzo quando, nel 2005, salì al trono il re Abdullah. Poco dopo la sua ascesa al potere, il re incontrò due grandi rappresentanze di donne per ascoltare le loro opinioni sui necessari cambiamenti in campo sociale e giuridico; le telecamere ripresero quegli incontri e li misero in onda.

Quando, qualche mese più tardi, ebbe luogo il successivo incontro del National Dialogue, sembrò naturale che Al-Ikhbariya riprendesse dal vivo la discussione a cui le donne saudite partecipavano in un ruolo di primo piano. Ciò non significa tuttavia che quelle iniziative non abbiano incontrato opposizioni. Il poco che si sa sugli incontri di re Abdullah con le rappresentanti delle donne occupate nei vari settori, tra cui i media, indicano che egli le esortò ad adottare un approccio «prudente», in modo da non mettere in allarme gli ultraconservatori sauditi. In seguito, il re incontrò gli editori locali dando loro istruzioni di «fare attenzione» a non farsi beffe dei rigidi costumi sociali locali nella pubblicazione di immagini femminili.
Quando due donne segnarono un notevole passo in avanti venendo elette nel consiglio di amministrazione della Camera del Commercio e dell’Industria di Jeddah, alcuni editori scelsero di minimizzare l’importanza della notizia per timore di provocare una reazione misogina. D’altra parte, vi sono importanti indicatori di cambiamento nel mondo dei media per ciò che attiene al modo di descrivere le abitudini sociali che riguardano le donne. Nell’ottobre 2006, un episodio della popolare serie televisiva saudita Tash ma Tash, ironizzava sul regime di rigida segregazione dei sessi. Sempre nel 2006, fu pubblicato il romanzo Banat Al-Riyadh (Ragazze di Riyadh) e un tribunale ne autorizzò la distribuzione in Arabia Saudita. Quello fu il periodo durante il quale il numero delle scrittrici e delle blogger saudite crebbe più rapidamente.

Ma le giornaliste non aumentano

Il secondo gruppo di elementi non riguarda la visibilità delle donne sugli schermi televisivi e sulle prime pagine dei giornali, ma il numero e la condizione delle donne occupate nel settore dei media. Qui i segni del cambiamento sono meno evidenti. Maha Akeel, una giornalista saudita, ha calcolato il numero delle donne che lavoravano nel settore mediatico negli anni 2004-2006. Nel 2004, la presenza femminile in questa area rappresentava meno dell’8% del personale impiegato nelle redazioni dei giornali e circa il 5% di quello occupato nelle radio e nelle televisioni. Due anni più tardi, quelle percentuali non erano cambiate in modo significativo.
Anche in questo caso, le ragioni sono semplici. La principale, in questo periodo di tre anni, è da imputarsi all’assenza di scuole in cui le ragazze potessero ottenere la qualifica di giornaliste. Fino al 2005, in Arabia Saudita, le ragazze non potevano accedere ai corsi di giornalismo e anche dopo quella data essi furono introdotti in modo graduale, considerata la separazione tra i campus femminili e quelli maschili. Senza una qualifica professionale, le donne potevano accedere solamente a lavori freelance, con retribuzioni relativamente basse e nessuna scurezza del posto di lavoro. Molte si sono trovate a doversi pagare le spese.

Un’altra ragione è da imputare alla mancanza di aree di dibattito in cui le donne potessero esercitare delle pressioni sulle autorità perché i corsi di giornalismo venissero resi accessibili anche alle donne. Vi furono editori solidali sia nel settore televisivo che in quello della carta stampata in lingua inglese, dove le donne giornaliste chiesero l’apertura alle donne dei corsi di formazione giornalistica. Ma non fu sempre facile sostenere questi argomenti durante gli incontri a livello personale e professionale. Suzan Zawawi, scrivendo per «Saudi Gazette», racconta di come, nel 2005, alcune donne presenti a un dibattito della Saudi Association for Media and Communication abbiano cercato di sollevare il problema della formazione professionale ma, essendo fisicamente separate dagli uomini, i loro tentativi di interloquire furono ignorati.
Si potrebbe sostenere che, con la nascita, nel 2004, della Saudi Journalists Association (Sja) e della National Human Rights Association (Nhra), le giornaliste saudite hanno avuto a disposizione due nuovi strumenti per rivendicare un trattamento più equo. Alcune donne che non avevano timore di esprimere la propria opinione hanno saputo sfruttare i ritardi nell’istituzione della Sja per proporsi come candidate e due di loro sono state elette nel consiglio, dopo di che si sono impegnate per affrontare i temi-chiave dei contratti di lavoro delle donne, della formazione professionale e della sicurezza del posto di lavoro. Sia la Sja che la Nhra, tuttavia, sono prive di autonomia.

Nel consiglio di amministrazione della Sja siedono gli editori, di nomina governativa. Anche i 41 membri della Nhra, di cui 10 donne, vengono nominati dal governo. Perciò, qualunque analisi dell’attivismo femminista attraverso i media, in Arabia Saudita deve essere visto nel contesto di una struttura politica più ampia e in quello di una concentrazione dei poteri decisionali.
Infine, per concludere, non resta che cercare di spiegare il contrasto tra i due insiemi di elementi, uno dei quali dimostra un’elevata e sempre maggiore visibilità delle donne saudite durante i tre anni presi in esame, mentre l’altro indica un ritmo di cambiamento molto più lento per ciò che attiene all’occupazione delle donne nel campo dei media e alla loro apparente capacità di influenzare tale cambiamento. Si direbbe che, in questo caso, le contraddizioni riflettano i meccanismi del clientelismo all’interno di un sistema fondamentalmente autoritario, in cui è in atto una modernizzazione superficiale, priva di un autentico trasferimento di potere.

L’accresciuta visibilità delle donne nel mondo dei media sauditi durante il triennio 2004-2006, probabilmente è stato il risultato di iniziative prese dall’alto, quando membri importanti della famiglia reale hanno fatto valere il loro peso nelle iniziative volte a modernizzare agli occhi del mondo, attraverso progetti come quello del National Dialogue, di Al-Ikhbariya e del Nhra, l’immagine del regno. 
I principi sauditi e i loro alleati, nel frattempo, hanno utilizzato le stazioni radio e televisive come la Mbc e Rotana per incoraggiare il dibattito su temi sociali, compreso quello della condizione personale e politica delle donne.
Il principe Alwaleed bin Talal, nipote del re Abdullah e proprietario del Gruppo Rotana, ha personalmente promosso a posizioni di alto profilo un elevato numero di donne. Mona Abu Suleyman, nota per i suoi contributi al programma trasmesso dalla Mbc, Kalam Nawaem, ricopre un incarico importante nella Alwaleed’s Kingdom Holdings. La prima attrice saudita, Hind Mohammed, ha debuttato nel film prodotto dal Gruppo Rotana, Keif al-Hal? Hala Nasser, autrice di un libro che racconta le difficoltà che deve affrontare una donna saudita nel mondo dei media, è diventata la prima caporedattrice della rivista del Gruppo Rotana. L’esposizione mediatica del caso di Rania al-Baz, una giornalista della Tv saudita che è stata selvaggiamente picchiata dal marito, sotto certi aspetti può essere fatta risalire a Walid al-Ibrahim, cognato del predecessore di re Abdullah e proprietario della Mbc.

Fu la Mbc diretta da Al-Ibrahim che scelse di importare, sottotitolare e trasmettere lo show di Oprah Winfrey su Mbc4, perché il modo di affrontare delicate esperienze personali attirava il pubblico femminile saudita. Rania Al-Baz fu intervistata da Oprah Winfrey in una puntata che, successivamente, fu trasmessa dalla Mbc.
Queste osservazioni sul sostegno ricevuto ad alti livelli non vogliono assolutamente sminuire il coraggio e l’energia di donne che si sono preparate ad avere successo. Ciò, tuttavia, implica condizioni diverse per gli uomini e per le donne che non godono di protezioni. Come suggeriscono i dubbi relativi all’efficacia di organismi come la Sja e la Nhra, coloro che in Arabia Saudita sono impegnati in iniziative di riforma che partono dal basso devono tuttora affrontare ostacoli molto più numerosi di coloro che si impegnano in una riforma che viene «dall’alto». In Arabia Saudita, nel triennio 2004-2006, l’affascinate interazione tra donne e media ha messo in luce il modo in cui, in un sistema autoritario, uomini e donne estranee all’élite di governo e alle reti clientelari lottano per far udire la loro voce.


Naomi Sakr è professoressa di media policy alla School of Media, Arts and Design della Università di Westminster

Traduzione di Antonella Cesarini

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