Perché l’Occidente ha bisogno della Siria
Una conversazione con Sami Moubayed 19 November 2009

Quali sono i fattori che hanno portato la Siria ad un’apertura verso i paesi arabi “moderati”?

Io adotterei un punto di vista diametralmente opposto: perché i cosiddetti stati arabi moderati sono tornati a negoziare con la Siria? In primo luogo perché hanno realizzato che Obama era sul punto di invitare Damasco a sedere al tavolo delle trattative. Inoltre la guerra di Gaza ha dimostrato che Hamas non può essere sconfitta facilmente. L’unica via per trattare con Hamas passa attraverso Damasco; e questo significa intraprendere lo stesso sentiero battuto ai tempi dei negoziati con gli Hezbollah nel 2006.

Sarebbe corretto dire che il Presidente Bashar al Assad ha optato per la politica del pragmatismo, abbandonando una linea più marcatamente idealista?

L’ideologia è importante, ma non ha mai prodotto grandi risultati sulla tabella di marcia siriana. Abbiamo partecipato alla guerra contro il Kuwait nel 1991, sebbene si trattasse di una nazione araba e con forze alleate guidate dagli Stati Uniti. Era interesse della Siria vedere il Kuwait libero. Ci siamo seduti al tavolo dei negoziati di Madrid in funzione della liberazione delle alture del Golan. Non credo dunque che l’ideologia sia stata uno strumento efficace per la Siria, eccetto nel breve periodo che va dal 1966 al 1970. La Siria ha accettato di partecipare al meeting di Riyadh insieme con l’Arabia Saudita, l’Egitto ed il Kuwait così come ha preso parte ai lavori per la sottoscrizione dell’accordo di Doha puntando unicamente alla costruzione di un ponte tra i giocatori arabi in campo. La Siria non è mai stata artefice di rotture e divisioni. Fu l’Arabia Saudita ad assumere un atteggiamento aggressivo nei confronti della Siria, sulla scorta di una possibile minaccia iraniana. Lo stesso è accaduto al Cairo. Ma percorrendo a ritroso la storia delle relazioni tra la Siria, l’Arabia Saudita e l’Egitto, già negli anni Cinquanta i tre paesi erano stretti in sodalizio. Noi non possiamo rinnegare la nostra storia.

Come può la Siria garantirsi i vecchi alleati ed al tempo stesso costruire nuove alleanze sul versante opposto?

La Siria è un alleato dell’Iran sin dal 1979. Ma durante gli anni novanta la connessione tra Damasco e Teheran non veniva propagandata perché era l’epoca dell’America di Clinton, un’amministrazione amica del governo saudita, iracheno (dopo il 1998), egiziano e francese. La comunità internazionale ha iniziato a percepire l’alleanza tra Damasco e Teheran come una minaccia a partire dal 2003, quando si sono incrinati i rapporti tra Washington ed i suoi alleati. Dopodiché la Siria ha preso parte al summit di Annapolis nel 2007, sebbene contro il volere sia di Hamas sia di Teheran. La Siria ha dimostrato al mondo di tenere fede esclusivamente al proprio interesse nazionale. Infatti Damasco continua a perseguire la stessa linea: nonostante la Siria goda oggi di un grande ventaglio di alleanze sul tavolo come la Francia, il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Iran ed allo stesso tempo gli Stati Uniti, il fine ultimo della Siria è la liberazione delle alture del Golan. A tal fine, la politica di Damasco è “più amici per la Siria e meno nemici”.

Qual è il peso della Siria nel processo di pace iracheno?

La Siria ha un rapporto ottimale con le tribù irachene. Damasco è in grado di coinvolgere le parti sunnite nel processo politico. La nomina dell’ambasciatore siriano in Iraq rappresenta un passaggio cruciale e chiaramente simbolico, poiché si tratta della nomina dell’ambasciatore di uno stato nazionalista arabo che si è opposto all’occupazione dal primo giorno. La Siria intrattiene inoltre buoni rapporti con Muqtada al-Sadr e l’entourage di rappresentati ufficiali come Nuri al Maliki. Il Presidente Bashar al Assad può infatti legittimare il governo di Maliki e della sua squadra agli occhi degli iracheni. Allo stesso tempo può aiutare gli americani – come ha detto il ministro degli Esteri Mouallem – a ritirarsi dall’Iraq dignitosamente. La Siria non ha alcun interesse a vedere umiliati gli Stati Uniti nel loro ritiro dall’Iraq. La preoccupazione principale per Damasco è che l’escalation di violenza in Iraq possa sconfinare in territorio siriano.

Che cosa si aspetta la Siria in cambio dai paesi arabi? E dagli Stati Uniti?

La Siria si aspetta che i leader arabi collaborino nel processo di pace in Iraq e che dismettano il loro atteggiamento ostile verso i gruppi di resistenza come Hamas e Hezbollah. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la Casa Bianca dovrebbe esercitare pressione sul governo di Netanyahu in quanto la Knesset ha dimostrato di non essere interessata al processo di pace.

Che cosa rappresenta per la Siria la vittoria in Libano dell’Alleanza del “14 Marzo”?

Credo che la vittoria in sé non sia una sorpresa, ma lo scarto numerico in termini di seggi tra la coalizione “8 marzo” e l’Alleanza “14 marzo” è rilevante. Il partito di Dio non ha perso, ma è uscito vittorioso dalle elezioni. Ma la coalizione ha perso, e Hezbollah è parte di essa. Ora si lavora per mantenere lo status quo del 2005-09, ma con un nuovo slancio verso la comprensione tra le parti. Non credo che i risultati elettorali in Libano rappresentino un arretramento sul fronte libanese per i siriani. Al contrario, dimostrano che i siriani non interferiscono con gli affari interni libanesi, rispettando la linea indicata dagli Stati Uniti. Damasco è convinta della sua innocenza nel caso di Rafiq Hariri. Lo stesso Presidente Bashar ha ribadito in più interviste che se avrà luogo un processo trasparente – non politicizzato – ed i siriani risulteranno colpevoli, verranno puniti. Io credo che il neoeletto governo libanese spianerà la strada per una nuova intesa tra gli Stati Uniti e la Siria.

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