“Perché sono fiero di essere europeo”
Tzvetan Todorov intervistato da Daniele Castellani Perelli 5 August 2008

Tzvetan Todorov, lei ci ha regalato affascinanti riflessioni sui valori europei. Ma è possibile parlare di un’“identità europea”? E quali sono, a suo parere, i principali valori dell’Europa?

No, non credo che sia giusto, in realtà, stilare una graduatoria dei valori dell’Europa. Quella europea è un’identità aperta, sempre cangiante e pronta a inglobare e arricchirsi di nuovi elementi. Allo stesso tempo, però, è un’identità niente affatto “arbitraria”: con ciò intendo dire che l’Europa ha concepito uno specifico “status per le differenze”. Ed è proprio questa la vera prerogativa del Vecchio continente, rispetto ad altre importanti civiltà ed entità composite quali la Cina, gli Stati Uniti o persino la Russia, dove permane una certa tendenza a omologare società anche assai eterogenee sotto un medesimo ombrello di valori e un’unica organizzazione centrale. La specificità dell’Europa, e dell’Unione Europea in particolare, sta nella tutela della diversità dei propri membri e, al contempo, nel riconoscimento agli stessi di un particolare status. Il che si traduce anzitutto nel dovere di tolleranza (niente più guerre reciproche) e, più in generale, in un fermento di idee e opinioni plasmate dalla critica e dal confronto con il punto di vista dei propri vicini.

Uno dei nostri obiettivi, infine, è l’attuazione del modello statuale che, più di due secoli fa, Jean-Jacques Rousseau descriveva e identificava con la “volontà generale”. E la volontà generale – ossia dell’intera comunità, e nel nostro caso del continente – non può in alcun caso riflettersi in un accordo totale, omogeneo, uniforme tra tutti i membri; si concretizza, invece, in un ventaglio di valori che tiene conto anche delle più piccole differenze (oltreché, ovviamente, le più eclatanti). Questo particolare “status della differenza”, questa pluralità nell’unità va a costituire il tratto più saliente dell’Europa. A mio parere, dunque, quest’ultima non andrebbe identificata con uno specifico contenuto sostanziale, bensì con un modello, una formula in virtù della quale contenuti mutevoli e discordanti possono coesistere.

C’è forse un momento in particolare, nella vita di tutti i giorni, in cui sente di essere “europeo”?

Sì, certamente. Anzi, posso dirle che mi sento quasi sempre “europeo”, soprattutto da quando la Bulgaria, il mio paese d’origine, ha fatto ingresso nell’Unione Europea. Ed è una sensazione, questa, che si rafforza giorno dopo giorno: pur vivendo ormai stabilmente in Francia, e sebbene torni in patria soltanto in rare occasioni, credo e so che un aspetto fondamentale della mia personalità è stato plasmato dall’infanzia e dalla prima giovinezza trascorse in Bulgaria. Ecco perché il suo ingresso in un’entità politica qual è l’Unione Europea ha rappresentato, per me, una tappa così importante. In determinate situazioni, in realtà, mi sento francese più che europeo, perché tale è la cittadinanza di cui godo in questo momento, e ogni volta che attraverso la frontiera e mi si chiedono i documenti, quel che mostro è un passaporto francese, non europeo. A parte questo, però, resta fortissimo in me il senso di cittadinanza “europea”: vado ben fiero della tradizione di questo continente e sono orgoglioso di appartenere a un’entità che fa del pluralismo e della complessità le sue caratteristiche più salienti, pur non avendo contribuito granché a edificarla. L’Europa contempla anche, va da sé, molte pagine dolorose e non pochi lati oscuri, ma resto convinto che sia possibile progettare un modello positivo a partire dalla sua Storia, ed è in questo modello che proietto e identifico la mia persona.

Arriverà mai il giorno in cui ci definiremo “europei” anziché francesi, italiani e via dicendo?

Non ne sarei tanto sicuro. Vede, laddove si è custodi di una cittadinanza o ci si identifica con uno spettro di valori, ecco che subentrano forme di attaccamento su scala minore, per così dire. Una di queste è prettamente culturale; ma la cultura è profondamente legata alla lingua, e non credo che arriveremo mai a parlare l’“europese”, una sorta di ibrido tra i vari idiomi europei. Si continuerà a parlare tedesco, spagnolo, francese, italiano e inglese, anche come lingua franca: ma è proprio così che i momenti più importanti della nostra vita quotidiana si innestano nell’identità culturale. La quale, come dicevo, è talvolta ancorata a realtà ben più piccole, regionali o locali: c’è chi si sente “catalano”, “siciliano”, “piemontese”… Non vedo per quale ragione si dovrebbe cancellare tutto ciò.

Oggi, un paese è sostanzialmente uno spazio di solidarietà, più che di valori condivisi. Tutti gli Stati membri dell’Unione europea condividono gli stessi valori politici e morali – i più importanti, dunque – ma non il medesimo spazio di solidarietà. La previdenza sociale, per dire, garantisce una certa tutela ai cittadini a livello di sanità, pensioni e istruzione, ed è connessa alla singola entità statuale. Non vedo, dunque, perché lo Stato dovrebbe scomparire. Né sono convinto che un sistema di previdenza sociale esteso all’intera Europa possa offrire risultati migliori rispetto alle formule adottate in Francia, in Italia o in Germania. Credo che sia necessario accettare, invece, l’appartenenza a entità diverse, più o meno estese e diffuse. Ne siamo perfettamente in grado: l’essere umano sa benissimo come adattarsi a una pluralità di appartenenze.

Lei non vagheggia, pertanto, uno “Stato federale europeo”.

È una possibilità che non escludo; quel che mi interessa, in ogni caso, non è la sua denominazione. Registro con soddisfazione la crescente integrazione del sistema di difesa e giudiziario; integrazione che, tuttavia, è giocoforza potenziare. Auspico, in particolare, una maggiore integrazione economica, alla luce della necessità di tutela dagli effetti perversi della globalizzazione. E soltanto lo spazio europeo, non i singoli Stati nazionali, può oramai garantire tale protezione. Vi è un ampio ventaglio di realtà e ambiti, insomma, per cui una più forte integrazione europea sarebbe più che opportuna, dunque auspicabile. Credo anche, però, che vi siano altre realtà più direttamente legate alla lingua o all’esperienza di piccole comunità, e che occorra trovare per ognuna di essere lo spazio più congeniale, senza pregiudizi dogmatici.

Esistono forti differenze, a suo avviso, tra l’identità europea e quella americana? Oppure il divario può essere colmato, ad esempio, dalla vittoria di Barack Obama alle presidenziali Usa?

Beh, penso che il programma e la personalità di Barack Obama possano indubbiamente riscuotere, tra gli europei, maggiori consensi rispetto al presidente ancora in carica. La sua vittoria alle prossime elezioni presidenziali, tuttavia, non imporrebbe modifiche strutturali ai rapporti tra Europa e Stati Uniti che, ricordiamolo, sono entrambi un vessillo dell’Occidente. Sì, gli europei resteranno alleati degli americani. Essere un “alleato”, però, non significa condividere sempre e comunque le stesse vedute, e sa perché? Perché gli Usa sono uno Stato-nazione. Un unico Stato, cioè, che pur contemplando differenze a livello regionale è dotato di un singolo governo, un Senato, un Parlamento, una sola lingua e così via, e che, in ragione della sua straordinaria importanza come potenza militare, industriale e finanziaria, assolve inevitabilmente a un ruolo strategico a livello globale. Tutt’altra è la storia dell’Unione Europea. Qui siamo al cospetto di una straordinaria scoperta: la scoperta della capacità, da parte di 30 Stati o giù di lì, di incontrarsi e imparare a convivere senza che l’uno tenti di sopraffare l’altro. Vi sono ottime probabilità che un lussemburghese, il prossimo anno, strappi l’elezione alla presidenza dell’Europa. Se così fosse, assisteremmo a un evento assai significativo e, per il sottoscritto, piuttosto entusiasmante: a vedersi assegnata una poltrona così importante, infatti, sarebbe non un nuovo Napoleone, né tanto meno – ovviamente – un nuovo Hitler, che impartisce ordini a tutti gli altri, bensì qualcuno che aspira alla volontà generale cui prima accennavo, a questa capacità di tener conto di tutte le differenze e i vari punti di vista dei cittadini.

Sono fortemente convinto, tra l’altro, che Europa e Stati Uniti custodiscano un passato assai diverso, il che probabilmente spiega l’impossibilità di una loro identità di vedute. Il continente europeo è abitato da secoli e secoli da popolazioni ben radicate nel territorio e con una profonda consapevolezza del loro passato, delle rispettive tradizioni. Ciò è vero nel caso dell’Italia, probabilmente, più che in qualsiasi altro paese; ma lo stesso si può dire della Francia, dell’Europa in generale e, in ultima analisi, di ogni paese del mondo. Il cosiddetto “Nuovo Mondo”, invece, è popolato da immigrati sbarcati non troppo tempo fa, le cui radici sono altrove e che si proiettano nel futuro più che verso il passato. Ora, tutto ciò si traduce in una serie di vantaggi e benefici per il “Nuovo Mondo”, ma offre qualche risvolto positivo anche agli europei, giacché nel Vecchio Continente le lezioni del passato sono assai più vive e presenti. Mi colpisce il fatto che i paesi europei non sembrano affatto tentati da nuovi progetti imperiali, se pensiamo che molti di essi – in particolare Francia e Gran Bretagna, ma anche Germania, Belgio, Olanda, Italia e Spagna – hanno alle spalle una lunga storia coloniale. Evidentemente, hanno saputo far tesoro delle lezioni del passato, e non sono più tentati di dominare il mondo controllando il passaggio a Nord-ovest, i giacimenti petroliferi in Medio Oriente o le coltivazioni di banane in America Latina… Mi azzardo a sostenere che tutto ciò esula completamente dall’orizzonte dell’immaginario europeo e che, stando alla migliore delle ipotesi, i due continenti saranno in futuro alleati non-identici, con qualche obiettivo comune ma anche con un ventaglio di differenze, e l’uno potrà contribuire a riequilibrare la posizione dell’altro.

Tony Blair sarebbe un novello Napoleone…

Tony Blair ha alle proprie spalle un passato ingombrante. Un passato da leader politico che ha completamente subordinato la linea politica del suo paese non al consenso dell’Unione Europea, bensì all’avventura militaristica degli Usa. Non credo affatto che ciò rappresenti un atout per un candidato a presidente dell’Europa. Tony Blair sembra indulgere, tra l’altro, all’idea che sia possibile imporre la democrazia a suon di bombardamenti e occupando paesi terzi: una posizione, questa, che considero assolutamente anti-europea.

Islam e Europa. Quale lezione possiamo trarre dallo scontro tra aztechi e conquistadores spagnoli? È giusto allacciare un dialogo con personaggi come Tariq Ramadan che, pur adottando spesso comportamenti discutibili (come nel caso della Fiera del Libro di Torino), incarnano comunque un’alternativa democratica nel mondo musulmano?

Lo scontro tra europei e aztechi ci consegna una lezione assai triste e dolorosa. Questi ultimi furono sostanzialmente sottomessi e sterminati, e dovettero passare addirittura secoli prima che l’identità azteca potesse essere nuovamente rivendicata. Dobbiamo quindi augurarci che l’incontro tra grandi realtà culturali non ripeta il canovaccio della conquista dell’America, uno scontro a dir poco tragico che ha poi dato spunto a straordinarie narrazioni, di cui tuttavia non possiamo chiaramente accontentarci…Quanto all’incontro tra paesi europei e islamici, credo sia necessario partire da una premessa: è sbagliato identificare il comportamento di centinaia di milioni (se non più di un miliardo) di persone con la rispettiva religione. Per questo non credo all’idea di uno scontro tra Occidente e Islam. Raffigurando quest’incontro con formule preconfezionate del genere, non si fa che compromettere e distorcere la natura dello stesso. I musulmani non costituiscono affatto una particolare sottospecie della razza umana determinata in toto dalla religione, diversamente da cinesi, indiani o europei, che asseconderebbero invece qualsivoglia impulso e determinazione… Non credo, insomma, che siamo alle prese con l’“emergenza Islam”.

Al contrario, dovremmo sforzarci per qualche tempo di dimenticarcene, e affrontare le concrete sfide politiche, sociali, economiche e demografiche poste da queste regioni del mondo. Detto questo, non vedo perché non si dovrebbe instaurare un dialogo con Tariq Ramadan o chicchessia, purché l’interlocutore non aspiri a colpirci a suon di pallottole ed esplosivi… Se l’“altro” accetta la forma del dialogo verbale, credo sia doveroso, da parte nostra, dar prova di estrema apertura. Non saprei dire, tuttavia, quanto in realtà sia forte, e soprattutto su chi possa avere effetto, l’impatto degli scritti e delle parole di Tariq Ramadan o chi per lui… Probabilmente, sui musulmani residenti in Italia, in Francia o nei Paesi Bassi più che sui loro omologhi in Siria, Iraq o Indonesia. Il quadro è quanto mai variopinto e frastagliato, e Tariq Ramadan ora dà l’impressione di identificarsi con i fondamentali valori democratici – e in tal caso non v’è alcuna difficoltà nell’instaurare un dialogo con lui, al contrario: la disponibilità di simili personaggi all’incontro andrebbe salutata con entusiasmo –, ora si erge a paladino di posizioni di forte impronta religiosa. E, come lei sa, se ognuno mette al primo posto il suo Dio, allacciare un contatto fecondo diventa assai complicato. Per dirla con Max Weber, si innesca una “Guerra tra Dei” da cui diventa impossibile uscire. Il dialogo può portare numerosi frutti, purché i termini del confronto restino confinati alla sfera umana. Non appena scivola in uno scontro tra divinità, ecco che tutto diventa più difficile.

Traduzione di Enrico Del Sero

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