Quando il calcio divide
11 September 2008

È che molto spesso il calcio allevia i mali cronici dei paesi. Annulla le divisioni etniche o – se di divisioni etniche non si riscontra traccia – vanifica le lacerazioni della politica. Esempi? A bizzeffe. L’ultimissimo è quello della Spagna campione d’Europa. La vittoria delle furie rosse ha unito le tante “Spagne” del paese iberico, i molteplici microcosmi che reclamano autonomia e chiedono a Madrid, chi con più ardore (Paesi Baschi e Catalogna), chi con meno (Galizia, Canarie e Andalusia) di ricalibrare i rapporti tra centro e periferie. Il successo a Euro 2008, ottenuto anche grazie alle prestazioni portentose del catalano Xavi, votato miglior giocatore del torneo, ha però messo da parte, almeno per un po’, le solite menate tra le comunidades e il governo. E le Spagne sono diventate Spagna.

Anche in quella Turchia che sul piano politico ha attraversato tra luglio e agosto un momento delicatissimo, con la fazione repubblicana pronta a mettere fuorilegge l’Akp, partito islamico-moderato al governo, il pallone ha fatto momentaneamente dimenticare i dissapori tra le due anime del paese e diffuso un sano sentimento patriottico. «Arriveremo a Vienna, finalmente». Così la stampa del paese anatolico, di destra e sinistra, repubblicana o islamica, ha scritto più volte durante i campionati europei, scommettendo sul fatto che il calcio avrebbe potuto riuscire laddove i sultani avevano fallito: prendere la capitale austriaca. La squadra di Fatih Terim non ce l’ha fatta, ma c’è andata vicina. E i turchi, per qualche giorno, si sono sentiti turchi e basta. Altro che “turchi laici” o “turchi islamici”.

Altre storie, altri aneddoti. Viene in mente la Germania, dove gli “Ossis” e i “Wessis”, che, complice una riunificazione complessa, gli strascichi del passato, del Muro e di quant’altro, a volte mal si sopportano, si sono “riunificati” intorno alla squadra nazionale – tanto al mondiale 2006 che all’ultimo europeo – capitanata guarda caso da Michael Ballack, nato e cresciuto nella ex Ddr.

Il caso bosniaco

Questo canovaccio si può applicare a tutti i paesi d’Europa e del mondo. Al Belgio che negli anni ’80, con la nazionale che furoreggiava in Europa e nel mondo, sembrava una nazione orgogliosa e non sul punto, come oggi, di implodere causa le divisioni tra fiamminghi e valloni. Oppure alla Costa d’Avorio, scossa da una logorante guerra civile ma sempre pronta a riconciliarsi quando si tratta di fare il tifo per la rappresentativa calcistica, capitanata dall’attaccante del Chelsea Didier Drogba. Questo canovaccio, dicevamo, vale per tutte le nazioni del mondo. Per tutti tranne la Bosnia. Nel paese balcanico, devastato dalla guerra del 1992-1995 e ancora diviso lungo le vecchie linee del fronte, il calcio divide ancora di più. I serbi, asserragliati nella repubblica Srpska – una delle due entità federali – fanno il tifo per la Serbia. Loro si sentono serbi, mica bosniaci. E vedono in Belgrado, e non nella musulmana Sarajevo, ribattezzata con disprezzo «la Teheran d’Europa», la loro vera capitale.

Basterà citare una dichiarazione rilasciata un paio d’anni fa al settimanale Dani dal primo ministro serbo-bosniaco Milorad Dodik per capire come i serbi di Bosnia la pensano sul calcio. «Purtroppo non ce la faccio a tifare per la nazionale di calcio della Bosnia-Erzegovina, se non quando gioca contro la Turchia», disse Dodik. E che c’entra la Turchia? Questione di retaggi. Il fatto è che nella coscienza della nazione serba la lotta secolare contro quell’impero ottomano che soggiogò la Serbia per cinque secoli è talmente radicata che la Turchia, anche oggi che non è più il cuore pulsante del vecchio impero dei sultani, è spesso vista con una lente retroattiva e anacronistica.

Sulle rive della Neretva

Già la Turchia. Non sono solamente i serbi a odiare il paese della mezzaluna. All’ultimo europeo, quando si è disputato il quarto di finale tra Croazia e Turchia, nella città di Mostar, “la Berlino dell’Erzegovina”, sono stati dispiegati un migliaio di agenti in tenuta antisommossa, per evitare possibili scontri tra la popolazione croata che tifava il team di Modric, Corluka, Olic, Klasnic, Niko e Robert Kovac e quella musulmana, che parteggiava per la Turchia. A nulla sono valse le precauzioni: c’è stata una mega-scazzottata e sono finiti in carcere quaranta scalmanati hooligan. Entrambe barricate nei rispettivi quartieri – i croati a ovest, i musulmani a est – le due etnie di Mostar convivono difficoltosamente nella città, in cui la guerra ha lasciato il segno. Durante la prima fase del conflitto, quando i serbi assediarono Mostar, croati e musulmani unirono le forze. Poi, una volta cacciati i serbi, i primi attaccarono all’improvviso i secondi, li espulsero dalla parte occidentale della città e imposero loro di spostarsi a est.

A più di dieci anni dalla guerra, le due rive della Neretva, il fiume verde smeraldo che scorre a Mostar, sono due mondi impermeabili, i reciproci rancori sono qualcosa di più significativo di una semplice intolleranza e in pochi hanno avuto il coraggio di tornarsene a vivere nelle case in cui abitavano prima della guerra, dall’altra parte del fiume. Il calcio è uno specchio fedele della situazione che vige a Mostar, capitale meridionale della Federazione croato-musulmana (l’altra entità della Bosnia-Erzegovina). E ogni tanto ci scappa la rissa, come accaduto per Croazia-Turchia, e come successo due anni fa al termine del match tra Croazia e Brasile, disputato durante il mondiale tedesco e vinto dai carioca. I croati di Mostar sfogarono la rabbia per la sconfitta assaltando la parte orientale della città. I musulmani, che tifavano Brasile in opposizione alla Croazia, reagirono e, complice la scarsa prontezza delle forze dell’ordine, ci furono scontri furibondi che lasciarono sul terreno una ventina di feriti.

Ma non finisce qui. Ogni anno, quando si disputa il derby tra lo Zrinjski e il Velez, la squadra croata e quella musulmana della città, si respira un’aria pesantissima. I tifosi croati esaltano il generale Ante Gotovina, accusato di crimini di guerra dal Tribunale dell’Onu per la ex Jugoslavia, inneggiano alla nazione croata e sberleffano i musulmani. Questi ultimi riscoprono i miti del titoismo e lanciano slogan durissimi contro gli odiati cugini. Si dirà: tutto regolare, nei derby funziona così. Ma per la Bosnia un discorso del genere vale fino a un certo punto. I tifosi del Real Madrid e del Barcellona se le possono cantare di tutta ragione durante il derby di Spagna, ma poi quando gioca la nazionale, salvo poche eccezioni tra i supporter blaugrana, tifano le furie rosse. I fan del Bruges (squadra fiamminga) e quelli dello Standard Liegi (vallona) si insultano clamorosamente, ma poi si ritrovano a tifare Belgio. Non potrebbe risultare altrimenti anche perché i fiamminghi, affini per lingua e cultura agli olandesi, detestano questi ultimi e li considerano “femminili”.

La fine della Jugoslavia

La lista di disunioni che diventano unioni è lunga. Ma la Bosnia non ci rientra. I serbi tifano per la squadra nazionale solo quando quest’ultima gioca contro la Turchia (anche se poi non è così vero, visto che alle qualificazioni di Euro 2008, quando la Bosnia superò 3 a 2 la Turchia, Dodik non profferì parola). Quelli dello Zrinjski tifano Croazia, quelli del Velez Bosnia-Erzegovina. Perché il fatto è che a tifare Bosnia sono i soli musulmani, che formano la maggioranza etnica della nazione e che quindi si sentono in una certa misura, considerati i “tradimenti” dei serbi e dei croati (inclini a tifare altre nazionali) i soli legittimi supporter della nazionale bosniaca. Una squadra dove però serbi, croati e musulmani giocano insieme. Ma nessuno se lo ricorda, sembra. Il calcio, in Bosnia e nei Balcani, è un elemento della cortina che divide, a quindici anni dalla frantumazione della Jugoslavia, i paesi della regione. Non è un caso se in molti evocano il famoso match del 1990 tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa, durante il quale scoppiò una furibonda rissa tra le tifoserie (con un giovane Zvonimir Boban lesto a pestare un agente della polizia federale jugoslava), come il fatto che precorse la morte, avvenuta nel 1991, della patria degli slavi del sud.

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