«Parliamo di diritti umani, non solo di nucleare»
Pietro Marcenaro intervistato da Ernesto Pagano 27 January 2010

Senatore, iniziamo dalla sua visita. Chi ha incontrato in Iran?

Su iniziativa dell’ambasciata italiana a Teheran ho avuto due incontri istituzionali con Alaeddin Burujerdi, presidente della Commissione esteri e del Consiglio della sicurezza nazionale, e con Ali Ahani, viceministro degli esteri con responsabilità per l’Europa. In seguito ho incontrato privatamente persone dell’università, del mondo dell’impresa, della cultura e dello spettacolo, persone del dissenso… Non ho invece visto i leader dell’opposizione, anche perché temo che il solo fatto di incontrare un uomo politico di un Paese occidentale come l’Italia possa essere oggi un argomento usato contro di loro. Ricordo che solo due anni fa la situazione era molto diversa e che una delegazione parlamentare italiana poté incontrare a lungo e liberamente il presidente Katami nel suo studio.

Che impressione ha avuto da questi contatti?

L’impressione di un Paese con una domanda di cambiamento talmente forte che non credo si possa arrestare. Nonostante una repressione di una durezza sconosciuta in passato, con migliaia di persone in carcere e un fortissimo grado di violenza, il governo non è riuscito a chiudere la partita contro gli oppositori. 

Quindi un fenomeno non confinato soltanto alla realtà urbana di Teheran…

No, anche perché, contrariamente a quanto spesso si pensa, l’idea che l’unica realtà urbana dell’Iran sia Teheran, circondata da un grande mare di campagna, non corrisponde alla realtà del Paese. Ho sentito lo stesso clima a Isfahan, Shiraz, Yazd, che sono grandi centri urbani con delle università e una vita sociale e culturale ricca. Quindi l’impressione che ho riportato è di un fenomeno relativamente omogeneo che riguarda il Paese, e non soltanto una sua parte.

Che appello ha rivolto ai suoi interlocutori?

Ho detto a Burujerdi che non si può discutere come se il nucleare fosse l’unico punto dell’agenda e ignorare la questione dei diritti umani sui quali oggi è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Ho detto che è inimmaginabile risolvere una crisi politica come quella in corso in Iran con la violenza e la repressione. Ho anche aggiunto che per quanto ci riguarda, l’esistenza di un solo prigioniero politico è già troppo. Non si tratta di fare sui diritti umani una discussione astratta, ma di chiedere all’Iran di rispettare le convenzioni e i trattati internazionali che ha sottoscritto, a partire dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, che da più di 25 anni sta violando sistematicamente.

Qual è stata la loro reazione?

Burujerdi si è sostanzialmente rifiutato di riconoscere la natura sociale e politica dello scontro in atto e imputa la situazione all’azione di provocatori e teppisti, di persone strumentalizzate dalle potenze internazionali e da Israele. Ahani era più attento e mi è sembrato riconoscere con maggiore chiarezza i problemi, anche se , alla fine, la sua posizione politica non è diversa. Altra musica, evidentemente, quella che ho ascoltato dalle altre persone che ho incontrato in Iran.

A tal proposito qual è lo sguardo del popolo del dissenso nei confronti dell’Occidente?

È quasi impossibile passeggiare per le strade di Teheran, di Isfahan, di Yazd, senza essere fermati da giovani che soltanto con lo sguardo trasmettono il loro desiderio di comunicazione con il mondo che vedono attraverso noi, un mondo di libertà e di nuove possibilità. D’altra parte penso che non si possa spiegare quello che è accaduto in Iran dopo le elezioni di giugno senza collegarlo anche al quadro internazionale nuovo che l’elezione di Obama ha aperto, la svolta che ha rappresentato, le speranze che ha suscitato.

Ma alcune questioni, come l’ingerenza americana sul nucleare non sono condivise nemmeno dall’opposizione…

E’ evidente che l’opposizione non può lasciare la bandiera della difesa degli interessi nazionali nelle mani di Ahmedinejad. Quando ai colloqui di Ginevra sembrava che il presidente iraniano fossedisponibile ad accettare un compromesso sulla questione nucleare, si levarono due voci: quella di Larijani, potente presidente del parlamento iraniano che esprime il punto di vista della Guida Suprema, e quella dell’opposizione. Proprio la questione del nucleare, se non viene trattata in modo giusto ed equilibrato, rischia di ricompattare la società iraniana contro l’Occidente.

Qual’è la strategia da seguire?

Chi vorrebbe vedere crescere in Iran le possibilità di libertà e democrazia, dovrebbe trovare una strada che non ci isoli da quelle persone che si battono. Purtroppo oggi, nell’agenda delle relazioni fra comunità internazionale e Iran, la questione del nucleare è l’unica a essere stata messa sul tavolo, come se il problema dei diritti umani fosse del tutto secondario. In questo c’è una miopia da parte di chi ha in mano la direzione di queste relazioni e di questo negoziato. Il non capire che l’avanzamento di un processo di democratizzazione in Iran sarebbe il più forte contributo alla pace e alla stabilità rischia di essere un errore molto grave. D’altro lato è bene essere consapevoli che nella repressione che oggi colpisce l’Iran c’è un fatto nuovo rispetto al passato: da strumento per tenere a bada con la violenza una minoranza è diventata la via scelta per incutere paura e terrore a una maggioranza del Paese che il potere sente ostile.

Accanto alla questione sociale c’è anche il dissenso interno delle élites politiche e religiose…

Il fatto che lo scontro avvenga anche tra kodì, che in persiano vuol dire “i nostri”, ovvero coinvolga esponenti delle classi dirigenti come Moussavi, Karroubi e Khatami, che hanno fatto e fanno parte organicamente del sistema politico e religioso, è molto importante. È proprio la combinazione tra i fenomeni sociali e le contraddizioni interne alle élite che ha reso impossibile al governo chiudere la partita contro gli oppositori. Questo spiega anche perché personalità come Moussavi e Karroubi resistano in questa situazione e esprimano una così forte e ammirevole coerenza. Essi sentono di esprimere e rappresentare un loro mondo, dal quale si sentono anche difesi e protetti, e non solo una pur ampia opinione pubblica. Purtroppo non ci sono ancora risposte alla domanda di quanto tempo ci vorrà e di quale sarà il prezzo da pagare per costruire una via che conduca al cambiamento.

E forse anche dove vuole arrivare questo cambiamento: se a un rovesciamento della Repubblica Islamica o al ripristino del suo funzionamento “ideale”…

Si tratta di una questione aperta. Dal nostro punto di vista è evidente che la vileyat-e-faqih, il governo del giureconsulto teorizzato da Khomeini, è in netta contraddizione con i fondamenti della democrazia. Ma quando il regime ha scritto la costituzione, ha dichiarato che l’idea di repubblica islamica era compatibile con la democrazia. Adesso sono loro di fronte alla responsabilità di verificare questa compatibilità, perché fino ad oggi la risposta che hanno dato si è mossa nella direzione opposta.

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