«Non servono bombe, ma sanzioni mirate»
Una conversazione con Karim Mezran 27 January 2010

Le elezioni politiche in Iran hanno portato alla luce profondi contrasti all’interno dell’establishment, qual è lo scenario attuale?

Possiamo dividere le élites al potere in diversi gruppi. I pragmatici, che fanno capo all’ex presidente Rafsanjani, i fondamentalisti che ruotano attorno a Larijani (presidente del parlamento) e ad altri esponenti della prima generazione della Repubblica Islamica, e i radicali di Ahmedinejad. Possiamo definire riformisti gli uomini vicini a Karroubi e Khatami, mentre Moussavi si pone in una posizione ibrida tra fondamentalisti e riformisti.

In cosa differisce la posizione dei riformisti rispetto a quella degli altri gruppi sulla questione del nucleare?

L’unica differenza è che i riformisti vogliono portare avanti dei negoziati che siano alla luce del sole. Ovvero in accordo con il diritto internazionale e con l’Occidente. Ahmedinejad, invece, gioca in modo ambiguo: fa dichiarazioni che poi vengono contraddette dai fatti. E’ chiaro che per lui la questione del nucleare è uno strumento di pressione e legittimazione interna.
 
Cos’altro contestano al presidente iraniano?

La gestione totalitaria del potere. Il “colpo di stato” effettuato da Ahmedinejad, che non ha rispettato, secondo loro, il risultato elettorale. Inoltre Moussavi e altri membri dell’opposizione hanno accusato il presidente di stare trasformando il Paese in un sistema pretoriano come quello dell’Egitto, o una dittatura militare, in cui di repubblica islamica rimarrà poco o niente.

Chi è il popolo dell’Onda verde? A quale classe sociale appartiene? 

La cosa curiosa è che stiamo assistendo a una rivoluzione al contrario, dove i ceti medio alti, giovani soprattutto, scolarizzati, mediamente colti e benestanti, protestano contro l’attuale gestione del potere da parte delle classi del proletariato, meno abbienti e meno colte, che usano arroganza e repressione come mezzo d’esercizio del potere. I basiji, ad esempio, provengono dalle campagne e dai quartieri più poveri della città, mentre i dimostranti sono in larga misura ragazzi della media e alta borghesia e vengono dai quartieri alti di Teheran.

Quali sono le loro richieste e le loro prospettive?

Ci troviamo di fronte a una generazione che ha vissuto e conosciuto solo la repubblica islamica, tant’è che se si guarda alle loro richieste, si nota soltanto un contrasto al risultato elettorale. Ma, a parte sporadici gruppi, non esiste un piano organico alternativo alla repubblica islamica, vuoi che si tratti di un sistema democratico sul modello occidentale o di un governo liberale. Tra l’altro si tratta di una protesta senza testa, perché Moussavi e Karroubi sono punti di riferimento, ma non certo dei leader.

Che ruolo ha avuto invece l’ayatollah Montazeri nell’opposizione?

Montazeri è stato inserito tra le icone dell’opposizione soltanto perché in passato ha contestato la politica di Khomeini. Questo dimostra anche la povertà di punti di riferimento nel campo riformista. 

Quindi gli appelli dei Paesi occidentali in nome della salvezza e la libertà dell’intero popolo iraniano come vanno presi?

E’ chiaro che dietro c’è un po’ di demagogia occidentale che tende a fare “buoni” e “cattivi”. Questo è, in particolare, l’approccio degli americani. Si tratta di una lacuna nell’analizzare le dinamiche sociali e politiche del Paese, per cui si tende a vedere i riformisti come “buoni”. Ma ci sarebbe da domandarsi cosa vogliono riformare i riformisti. Ne troviamo alcuni che hanno detto di voler trasformare la repubblica islamica in democrazia piena, ma molti altri non ne hanno mai parlato. Così come troviamo tra i “cattivi” dei personaggi con i quali si può tranquillamente ragionare e negoziare. Dal mio punto di vista non possiamo dire che siamo di fronte a una situazione in cui il popolo è contro il regime. Che poi l’escalation di violenza possa condurre a quello, può anche darsi, anche perché, se continua così, l’Iran si trasformerà in una dittatura militare in cui di repubblica islamica rimarrà poco o niente.

A che cosa può mirare una nuova strategia delle sanzioni, vista la loro inefficacia provata già durante l’amministrazione Bush?

Le sanzioni sono un annuncio politico che dichiara al mondo: “Noi non stiamo zitti a guardare, ma reagiamo e possiamo mettervi in un angolo”.

Quindi annunci e non vere strategie…

La vera strategia deve avvenire dietro le quinte. Bisognerebbe ad esempio prendere le prime dieci persone che stanno attorno ad Ahmedinejad e colpirli in maniera mirata sui loro conti correnti, i loro acquisti, i loro spostamenti eccetera.

Si sta parlando anche di bombardare i siti nucleari, una strategia percorribile?

Potrebbe esserlo soltanto politicamente, ma non tecnicamente. In realtà non c’è da bloccare la capacità di costruire la bomba atomica, ma da dimostrare al mondo che non si può permettere all’Iran di annunciare l’avanzamento del suo programma nucleare senza reagire. L’intervento armato non mi sembra comunque una strategia praticabile. Penso che nei prossimi mesi gli Stati Uniti cercheranno di allargare le sanzioni sperando in un aumento delle proteste di piazza e in un’implosione del regime. E poi, non credo che gli iraniani siano vicini, né tanto meno a un passo dal costruire la bomba atomica.

Ma l’Iran vuole davvero l’arma nucleare?

Più che all’arma nucleare, gli iraniani sono interessati alla capacità di poterla avere. Sono alla ricerca di status e ruolo di potenza nucleare. Se quindi si dicesse loro che la bomba ce l’hanno, sarebbero già contenti. Averla concretamente è troppo complicato e troppo rischioso, soprattutto in termini di gestione…

Che ruolo sta giocando l’Europa in questa partita?

L’Europa, ammesso che esista, fa delle proposte inconcludenti. Se invece fosse unita, se si guardassero gli interessi dei Paesi europei nella loro collettività, allora potrebbe diventare un attore nei negoziati. Questo è un discorso che non vale solo per l’Iran, ma per tutto il Medio Oriente.

Mentre alla Casa Bianca è cambiato qualcosa nella gestione dei rapporti con l’Iran, rispetto all’amministrazione Bush?

Almeno nella retorica c’è molta differenza. Non so nella sostanza a quali risultati potrà produrre, ma già il solo fatto di aver aperto all’Iran dicendo che gli Stati Uniti sono disposti a trattare (se dall’altra parte c’è ascolto) ha messo in mora il governo iraniano, mettendo in crisi il discorso dell’americano cattivo. Questo non è da sottovalutare, perché in un mondo dove la retorica conta tantissimo, usare un atteggiamento diverso, anche solo nel linguaggio, è spiazzante. Anche perché gli iraniani, nonostante il regime antiamericano, sono il popolo più filoamericano che esista.

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