I tg che fanno peggiore il mondo
Lance Bennett con Giancarlo Bosetti 10 January 2007

Lance Bennett, la televisione è ancora il mezzo di comunicazione di massa predominante nei sistemi democratici?

È ampiamente documentato che i telegiornali rimangono la fonte principale attraverso cui il grande pubblico acquisisce informazioni e riflette sul senso dei problemi. Sul versante Internet e web si registrano progressi rilevanti, che magari un giorno potranno modificare questa realtà. Esistono, infatti, numerosi canali alternativi di informazione oggi facilmente accessibili. Tuttavia, in molti paesi la maggior parte degli utenti tende ad accostarsi al mondo dell’informazione solo per seguire gli aggiornamenti e gli sviluppi delle crisi, il che fa della televisione una forza politica ancora importantissima nella società.

È così ovunque?

I canali attraverso cui la televisione opera sono molto diversi da un paese all’altro. Gli Stati europei, in particolare quelli dell’Europa settentrionale, hanno un solido servizio radiotelevisivo pubblico: la Bbc è un modello, in questo senso. Si tratta di fonti importanti per il pluralismo. Così, ad esempio, in molti paesi – penso all’Italia, alla Francia, alla Spagna e alla Germania – ci sono quotidiani nazionali indipendenti che svolgono un ruolo parimenti essenziale nel dare il tono al dibattito delle élite intellettuali su numerose questioni pubbliche. Nondimeno, la televisione resta il mezzo principale, perché veicola immagini e, come ben sappiamo, spesso le immagini sono molto più importanti delle parole che le accompagnano.

E le tendenze di fondo cui fa riferimento nel suo libro News. The Politics of Illusion (ed. Longman): personalizzazione, drammatizzazione, frammentazione, spirale disordine-ordine?

Ritengo che la tendenza di molti giornalisti televisivi sia concentrarsi sul dramma, sulla paura, sull’emotività e sulla crisi, poiché sono gli aspetti che più colpiscono. La questione, ovviamente, è se ciò non instilli nel pubblico la sensazione che il mondo sia fuori controllo e che resti ben poca speranza di ripristinare l’ordine nelle situazioni di caos. A mio avviso, alcuni elementi suggeriscono che siano proprio questi gli effetti della televisione, ossia un senso di caos e di crisi, dietro cui vi è un’informazione non sempre impeccabile. Ne consegue che, spesso, le persone non comprendono a fondo ciò che vedono in televisione. In molti casi, la loro comprensione proviene essenzialmente dai governi stessi, in particolare da quelli nazionali, cosicché nei vari paesi le notizie sono notevolmente filtrate attraverso i governi. Negli Stati Uniti, ad esempio, a un paio d’anni dall’inizio della guerra in Iraq, persisteva una serie di equivoci sulla guerra: molti credevano ancora che in Iraq ci fossero armi di distruzione di massa o che gli attentati terroristici dell’11 settembre fossero da attribuirsi ai collegamenti esistenti tra Saddam Hussein e Osama bin Laden.

Come è possibile che si continui a credere a cose palesemente false?

Il motivo è molto semplice. I notiziari, e in particolare quelli televisivi, le riportavano come convinzioni del presidente, del vicepresidente, del segretario di Stato, del segretario della Difesa e degli altri vertici di Stato americani. Di conseguenza, era proprio il governo a indurre nella gente una percezione fallace della situazione. Il grado di percezione errata e di disinformazione variava ben poco a seconda dei notiziari. La Fox News di Rupert Murdoch produceva un maggiore livello di disinformazione semplicemente perché proponeva un numero più elevato di fonti ufficiali dell’amministrazione Bush. Il dato interessante emerso da alcuni sondaggi condotti negli Stati Uniti è che anche altre reti televisive nazionali generavano un livello abbastanza elevato di disinformazione, non di molto inferiore a quello della Fox. Quindi Cbs, Nbc e Abc hanno prodotto parecchia disinformazione perché anch’esse hanno dato spazio a fonti governative nei loro notiziari.

Nel suo lavoro lei dimostra che buona parte delle distorsioni non è frutto di una mente perversa che decide di manipolare la gente, bensì deriva da una logica intrinseca al sistema dell’informazione televisiva. È vero?

Non del tutto. Ritengo che le due cose procedano di pari passo. Penso che chi è al governo dispone di consulenti esperti di comunicazione, i quali svolgono un ruolo di primo piano nel conformare il discorso pubblico a quelli che per loro sono gli standard utilizzati dai giornalisti. È quel che accade con le operazioni di spindoctoring della comunicazione di governo, e le due cose insieme funzionano abbastanza bene. Non che i giornalisti ignorino ciò che i funzionari di governo dicono, il fatto è che i giornalisti lo riportano precisamente come i funzionari governativi vogliono che sia riportato. Credo che si attui una grande manipolazione, ma è una manipolazione del giornalismo, perché i politici sanno che la stampa riporterà al pubblico ciò che dicono. C’è dunque distorsione, ma è una distorsione che sta nella logica intrinseca all’informazione. Negli Stati Uniti, la stampa e gli addetti alla comunicazione del governo lavorano a stretto contatto, il che ovviamente implica una certa conflittualità perché ai giornalisti non piace essere manipolati, e da par loro gli addetti alla comunicazione si irritano quando i giornalisti non riportano fedelmente ciò che essi vogliono che venga riportato. Di qui la tensione nei loro rapporti.

Passando dal livello nazionale a quello globale emerge una differenza. Su scala nazionale, negli Stati Uniti c’è un governo e ci sono altresì enormi interessi economici che, presumibilmente, dominano e definiscono la scaletta dei notiziari. Tuttavia, se ci si sposta sul piano internazionale, non esiste una singola potenza che possa condizionare ovunque i notiziari. Al Jazeera, ad esempio, non dipende dagli Stati Uniti. E seppure un telegiornale nazionale dipendesse da altre potenze, comunque non esiste un’unica potenza in grado di dettare la linea dei tg in tutto il mondo. In questa situazione sempre più «fuori dal controllo di un’unica potenza», vi sono orientamenti che dipendono dalla logica del medium e le tendenze generali che ne risultano somigliano a quelle che abbiamo visto in azione sul piano nazionale: personalizzazione estrema, frammentazione, drammatizzazione, enfasi sul caos e richiesta di ordine. Qui la tendenza opera complicando le relazioni internazionali. Il danno maggiore causato da tale situazione è che il modo in cui l’immagine degli «altri» mondi è rappresentata sta radicalizzando e compromettendo la possibilità di comprendersi.

Penso che questo sia vero fino a un certo punto. Sicuramente, il giornalismo vive di crisi ed è sempre in cerca di immagini personali e sensazionali. D’altra parte, però, è difficile rappresentare eventi come la guerra in Iraq se non come un fatto estremamente grave e come un attacco pressoché unilaterale degli Stati Uniti nei confronti di un popolo che non aveva sollecitato l’invasione. È arduo trovare un equilibrio sul modo di rappresentare tali eventi. Negli studi sulla guerra e sui vari incidenti che le hanno fatto da corollario – il caso della prigione di Abu Ghraib, ad esempio – abbiamo riscontrato che ovviamente tali eventi vengono descritti in modo diverso nelle diverse nazioni. Negli Stati Uniti si tende a proporre in modo fedele e prudente la linea di Washington. Ad esempio, fino a poco tempo fa i fatti di Abu Ghraib sono stati descritti non come tortura ma come incidenti isolati ad opera di soldati poco addestrati. Sin dall’inizio, invece, in Europa, e curiosamente proprio negli Stati con un’opinione pubblica meno definita sulla guerra e culturalmente prossimi agli Stati Uniti, si riscontra un maggiore equilibrio tra la tesi della tortura e quella degli “abusi” isolati sui prigionieri, come nella stampa britannica, oppure si trova un uso più frequente di termini quale “tortura”, ad esempio nella stampa italiana o spagnola. Esistono dunque differenze nazionali. Naturalmente, è molto più probabile che Al Jazeera, che in certa misura rappresenta le comunità islamiche del mondo o, quanto meno, a esse si rivolge, parli di “tortura”. La realtà, quindi, dipende sempre dai filtri culturali attraverso cui la si osserva, così come dal diverso tipo di pubblico e dalle sue posizioni politiche. In generale, c’è sicuramente un eccesso di sensazionalismo nei notiziari; tuttavia, non è ben chiaro come si potrebbe concepire un sistema di informazione nuovo che possa correggere certi difetti.

Nessuno è così esperto, almeno finora, da saperci dire qual è l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, dalla Cina all’India al Giappone alla Malesia fino agli Emirati Arabi, però si può provare ad abbozzare ipotesi mettendo insieme faticosamente tante esperienze nazionali diverse. E per quanto riguarda gli Stati Uniti, si può chiedere a studiosi come lei qual è la rappresentazione del mondo arabo negli Usa. Ma nel mondo occidentale e perfino in Europa, che pure geograficamente è prossima all’Egitto o alla Libia, l’informazione e i notiziari televisivi non riescono a dare una idea di quella che è la normalità in quei paesi. Pur trattandosi di popolazioni e culture grandi e non direttamente coinvolte nello scontro tra Occidente e Oriente, è comunque difficile avere la benché minima percezione della loro quotidianità a partire dai telegiornali. Se passa qualcosa in tv del genere, avviene in ore di bassissimo ascolto.

Ritengo che nella maggior parte delle nazioni si possano fare enormi progressi nella copertura delle crisi internazionali, ma in molti paesi esiste altresì una tendenza culturale a vedere le cose attraverso sistemi di valori locali. Per giunta, in alcuni paesi si tende a filtrare i fatti attraverso il controllo statale, ed è difficile modificare questa tendenza senza cambiare lo Stato o i governi che controllano i notiziari. A ciò si aggiunge il fatto che spesso si tratta di eventi drammatici che comportano grande sofferenza. A mio avviso, pretendere che l’informazione diventi ponderata, propositiva sulle politiche relative a tali questioni, significherebbe chiedere un po’ troppo, soprattutto nel caso degli Stati Uniti, dal momento che il governo stesso non sembra analizzare troppo le proprie politiche; cosicché non si avverte l’esistenza, dietro la notizia, di una realtà più profonda che la gente non riesce a cogliere. Sicuramente, nel caso degli Stati Uniti la realtà più profonda dietro le notizie è l’opinione pubblica mondiale, che chiaramente l’informazione americana non presenta in modo adeguato al popolo americano. I sistemi di informazione potrebbero cercare di collocare il proprio giornalismo in più ampi contesti regionali e globali, ponendosi questi interrogativi: cosa dicono gli altri paesi su questo tema? Cosa fanno a riguardo? Sono le loro iniziative di pace che dobbiamo cercare di appoggiare? Questo genere di domande sarebbe utile al giornalismo di molti Stati, dal momento che la maggior parte delle nazioni tende a guardare il mondo soltanto con i propri occhi, per quanto ciò valga in alcuni paesi più che in altri. Molti Stati europei, e anzi lo stesso processo dell’unificazione europea, hanno ampliato le prospettive e tracciato una tendenza a cercare risposte comuni o iniziative potenzialmente comuni. Il fatto che l’Unione Europea, ad esempio, abbia agito in quanto entità politica nei confronti dell’Iran è stato uno sviluppo estremamente interessante, che senza dubbio può modificare la natura dell’informazione nazionale su quell’aspetto del Medio Oriente.

C’è qualche elemento dell’agenda pubblica su scala nazionale che occorrerebbe correggere, o è quantomeno possibile una parziale correzione dei danni provocati dalla frammentazione delle immagini basate esclusivamente sulla violenza? Prendiamo l’esempio delle vignette danesi in Europa: i violenti attacchi compiuti da centinaia di persone contro ambasciate e consolati di Stati europei sono stati trasmessi a ciclo continuo, quasi come se quegli interi paesi fossero coinvolti negli attentati. Si tratta di situazioni non tanto diverse da quelle delle rivolte nelle città occidentali in cui sono implicate poche centinaia di persone, minoranze estremiste laddove al contempo milioni di altre persone non vi partecipano, continuando a svolgere la loro vita normalmente. È difficile dunque spiegare che ad attaccare il consolato italiano non era tutto il popolo libico, ma gruppi isolati di giovani. Invece è più facile spiegare in Italia che quando alcune centinaia di teppisti sfasciano auto e vetrine e Milano, non si tratta della gioventù italiana o milanese, ma solo di alcuni teppisti organizzati. Da vicino si comprende la differenza. Invece quella differenza tende a sfuggire se si tratta di situazioni dell’altra sponda del Mediterraneo.

È così, ma anche in questo caso non è ben chiaro in che modo si possa cambiare il sistema dell’informazione. È improbabile che cambi e ancor meno verosimile che si orienti verso un modello migliore di informazione: occorre piuttosto cercare di dar vita sul web a spazi stimolanti, dove i cittadini possano comprendere meglio i problemi. C’è un handicap per quanti non hanno accesso a Internet, ma è pur sempre un obiettivo.

Quindi un’alternativa esiste, ma non è quella di tentare di modificare la logica dei notiziari.

Credo che in tutto il mondo i notiziari si trovino di fronte a un dilemma che nasce da una causa interessante: la gente si sta disaffezionando. Si potrebbe pensare che ciò induca a tentativi più radicali di cambiare il giornalismo, ma a quanto pare così non è. Secondo me i giornalisti devono essere coinvolti in un dibattito nazionale sul loro lavoro e sul futuro della loro professione. In questo senso si registrano esperimenti interessanti. La Bbc sta cercando in modo graduale e attento di trovare una nuova configurazione, ponendosi come strumento per i cittadini e non come semplice fonte di informazione. L’integrazione tra i notiziari televisivi e le diverse tecnologie internet e web potrebbe sfociare in una maggiore comunicazione tra i cittadini e in una maggiore riflessione; magari un giorno saranno gli stessi cittadini a determinare la scaletta dei notiziari e la copertura delle notizie. Per il momento, gli schemi di copertura sono dettati dal marketing e spesso da una pessima concezione dell’impatto delle notizie.

Oggi c’è un’enorme differenza tra la Bbc e la Fox, un abisso, ma anche tra la Bbc e le reti italiane. Se si analizza la copertura internazionale della Bbc, al confronto con le battute faziose tra le coalizioni, normali in Italia, sembra di stare nel clima terso di un’agorà in cui si discute e si approfondisce. E gli analisti ci dicono che la faziosità è dominante anche in tutto l’est europeo.

In effetti, la Bbc sta cominciando a fornire un modello possibile di cambiamento in direzione di un forum internazionale, in cui si conducono sondaggi e discussioni tra gli ascoltatori e i telespettatori. La rubrica della Bbc I can, disponibile solo nel Regno Unito, potrebbe essere uno spazio in cui i cittadini definiscono i problemi e li approfondiscono, insieme e con l’aiuto dello staff della televisione pubblica.

Quindi, come diceva all’inizio, c’è bisogno di più Bbc.

Credo che quello sia solo un modello, ce ne sono molti altri interessanti. Ad esempio OneWorld, una web tv che produce giornalismo di altissima qualità. E così diverse altre, non solo la Bbc.

Lance Bennett è professore di scienze politiche e direttore del Center for Communication and Civic Engagement all’Università di Washington, Stati Uniti.

Questa intervista è stata pubblicata originariamente dalla rivista Reset, numero 97.

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