“Quei tre (tedeschi) e il postsecolare”
Gian Enrico Rusconi 18 September 2007

Definire “post-secolare” la condizione spirituale delle società occidentali oggi significa affermare che il processo storico di secolarizzazione, che ha portato alla progressiva irrilevanza pubblica dei sentimenti religiosi, ha toccato i suoi limiti. Ne discendono importanti conseguenze per il rilancio del classico dibattito “fede e ragione” e nella riconsiderazioni dei rapporti tra istituzioni ecclesiastiche e Stato. Si assiste a un “ritorno delle religioni” nella sfera pubblica, in coincidenza con l’acutizzarsi di questioni morali collegate alle problematiche bioetiche e alle biotecnologie, a nuovi interrogativi sulle condotte sessuali e sulla concezione della famiglia. Ma anche a fronte del riemergere di nuove esigenze identitarie di carattere collettivo (l’identità dell’Occidente o dell’Europa a fronte dell’emergenza dell’islam), le religioni, o meglio le Chiese e le loro agenzie, si sentono deputate o sollecitate a offrire indicatori di identità culturali o norme di etica pubblica – senza con ciò contestare in linea di principio la natura laica, secolare o secolarizzata delle istituzioni politiche.

Ma qui nascono i problemi. Uno dei prodotti della secolarizzazione, infatti, è la pluralità delle identità e degli stili di vita morali e degli ethos, mentre le religioni, in particolare la cattolica, rivendicano per sé in modo univoco, se non esclusivo, il monopolio della morale “vera” e/o “naturale” ovvero un ethos comune, da promuovere eventualmente anche con dispositivi di legge vincolanti per tutti. È a questo punto che è lecito chiedersi se il post-secolarismo non rischi di rimettere in discussione alcuni fondamenti della democrazia stessa. Decenni or sono un classico della democrazia, Hans Kelsen, era convinto che la vita democratica fosse incompatibile con una qualunque verità religiosa o credenza morale assoluta. Ne traeva la necessità per la democrazia di essere “relativista” (un’espressione che nel frattempo è usata come atto di accusa morale). Tra l’uomo religioso e quello non religioso – diceva – persiste il contrasto di principio insuperabile tra convinzioni basate, per l’uno, su “verità” che sono trascendenti, univoche, assolute, e per l’altro su “certezze” che sono immanenti, plurali e relative nel senso che sono riferite a circostanze contingenti e modificabili nel tempo – soprattutto quando sono in gioco giudizi e comportamenti morali.

La società post-secolare cambia qualcosa di questa situazione? Innanzitutto bisogna prendere atto che accettando la secolarizzazione dello Stato il credente è entrato a pieno titolo nella dinamica politica democratica, ha imparato a fare i conti con le verità/certezze altrui, accetta le regole del compromesso politico (sia pure motivandolo in modo diverso dal laico), adotta la logica della maggioranza/minoranza. Insomma come cittadino-credente si colloca nell’ottica della ricerca del massimo consenso “relativo”. Ma se rinuncia a imporre la sua “verità”, rimane convinto che soltanto i valori morali da lui difesi sono positivi anzi indispensabili per “tenere assieme” la società. Si ritiene depositario dell’ethos comune di contro alla deriva individualista del non credente o del laico (incidentalmente sappiamo che i due concetti non sono sinonimi, ma fa parte della strategia clericale far finta che lo siano). Insomma il credente dell’età post-secolare ritiene di possedere e di poter offrire quei presupposti morali normativi che consentono il funzionamento stesso della democrazia secolarizzata.

Il Diktum böckenfördiano

Questo atteggiamento nei confronti della democrazia può fare riferimento alla felice e fortunata tesi del costituzionalista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde: “Lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire”. Coniata nell’ormai lontano 1967 in un contesto culturale, politico e scientifico inconfrontabile con quello odierno, la formula ha una pregnanza (soprattutto quando precisa che “questo è il grande rischio che (lo Stato laico) ha corso per amore della libertà”) che va ben al di là dell’uso strumentale cui si tenda di assegnarle. La tesi böckenfördiana infatti può essere considerata da due punti di vista: come denuncia di una aporia insuperabile dello Stato liberale secolarizzato, oppure come suggerimento a sciogliere tale aporia ri-attivando i valori cristiani. La temperie post-secolare sembra sollecitare e promuovere questa seconda lettura, secondo cui la religione (cristiana) avanza la rivendicazione di garantire lei stessa “i presupposti normativi” dello Stato liberale senza negare il principio della laicità.

In effetti la riflessione di Böckenförde ha contribuito a far sì che gli uomini di Chiesa (innanzitutto quelli di cultura tedesca, a cominciare da Joseph Ratzinger) abbandonassero ogni riserva nei confronti della democrazia liberale, purché questa riconosca il suo deficit strutturale di valori. La Chiesa avanza quindi la sua offerta di ethos che, mediata dalla sua dottrina tradizionale, si presenta come insostituibile per il buon funzionamento della società democratica, in particolare per la sua integrazione. Va detto subito che la riflessione böckenfördiana sulla necessità di valori consensuali pre-politici, che diano al patto politico la sua efficacia integrativa, pur chiamando in causa le radici storiche del cristianesimo, non contiene alcuna indicazione civil-politica. Böckenförde diffida di ogni uso del cristianesimo come “religione civile”. Tanto meno raccomanda una qualche restaurazione di Stato cristiano. Il processo di secolarizzazione è irreversibile. Il rapporto istituzionale tra Chiesa e Stato rimane una “separazione bilanciata”, una relazione “dialettica” orientata alla partnership nella rigorosa separazione delle competenze, che prevede attenzione reciproca tra tutti i cittadini di qualunque orientamento, apertura al compromesso e alla lealtà nei riguardi delle decisioni della maggioranza.

In breve, per Böckenförde, da una parte c’è la Chiesa che concepisce il suo ruolo come annuncio religioso che viene prima di ogni eventuale suo contributo legittimatorio nei confronti dell’ordine politico esistente, per quanto importante sia la sua influenza di fatto. Dall’altra parte c’è lo Stato secolarizzato e razionale, che è tenuto strettamente al principio della libertà dei cittadini come requisito per il mantenimento della pace e della sicurezza. Semplicemente deve essere consapevole di non essere in grado di creare una piena integrazione, perché i suoi “presupposti normativi fondativi” gli sono esterni. Attingono infatti a valori pre-politici, religiosi innanzitutto. Come si vede, quella che il Diktum böckenfördiano sintetizza efficacemente è una situazione aporetica aperta, in continua tensione, che si radica nei fondamenti costituzionali stessi della democrazia e che deve così affidarsi alla ragionevolezza/razionalità di una politica che sia consapevole dei propri deficit normativi.

La critica di Habermas

Tra i critici più fermi di questa tesi c’è Jürgen Habermas, preoccupato che l’enfasi di Böckenförde sui valori pre-politici metta in discussione la capacità auto-legittimatoria delle procedure giuridiche prodotte democraticamente. Il filosofo francofortese ripropone la sua “concezione proceduralista, ispirata da Kant”, che fonda i principi costituzionali sulle procedure stesse che li rendono razionalmente accettabili a tutti i cittadini, a prescindere dalle loro credenze o presupposti di valore. Habermas ammette che il buon funzionamento della democrazia richiede risorse pre-politiche: ma si tratta di atteggiamenti culturali o mentalità presenti nella società civile ovvero nelle sue “forme di vita”, che non possono pretendere di valere come fondamenti normativi dello Stato costituzionale. In altre parole, opzioni e motivazioni anche di carattere religioso e stili morali adeguati sono indispensabili per la vita democratica, ma il “vincolo unificante” (che genera ethos condiviso) non va cercato prima o fuori dal processo politico-costituzionale democratico stesso. Lo Stato liberale – insiste Habermas – può e deve fondarsi in modo autoreferenziale esclusivamente su procedure giuridiche, prodotte e gestite democraticamente. In questa concezione della democrazia l’autonomia dei principi e dei criteri costituzionali diventa accettabile a tutti i cittadini, a prescindere dalle loro opzioni di fede, tramite l’esercizio della razionalità. In questa prospettiva il cristianesimo appartiene semplicemente alla genealogia della ragione secolare o laica. Secondo il filosofo francofortese, le religioni possono partecipare a pieno titolo al processo democratico se realizzano tre condizioni: la rinuncia al monopolio della verità; l’accettazione dell’autorità della scienza; il primato a livello pubblico del diritto laico/secolare. Solo a queste condizioni le religioni trovano il loro spazio nella società democratiche anche post-secolari.

Dobbiamo prendere atto della distanza che separa il filosofo laico dal cattolico militante Böckenförde che dichiara con estrema chiarezza: “l’idea che la democrazia (propria di uno Stato costituzionale) sia la sola forma di Stato o quantomeno la sola legittima è un postulato ideologico – nulla di più. I diritti umani possono essere riconosciuti e attuati sotto diverse condizioni politiche, non solo sotto quelle democratiche. La democrazia non si oppone ai diritti umani, ma non è la condizione della loro possibilità e realtà. La democrazia non è affatto universale, come vogliono essere i diritti umani. Ma dipende nella sua possibilità da determinati presupposti storici, socioculturali e di mentalità senza i quali non può esistere. Una posizione teologica costruita su un terreno così precario – prosegue Böckenförde – si liquida da sola”.

L’idea böckenfördiana del nesso tra religione, costituzione e sfera pubblica democratica rimane lontana da quella di Habermas anche quando quest’ultimo parla dei “presupposti cognitivi per l’uso pubblico della ragione da parte dei cittadini religiosi e laici”. Per il filosofo francofortese infatti rimane valido il principio che “il procedimento democratico non può trarre la sua forza legittimante da una morale preordinata al diritto senza distruggere il senso performativo dell’autodeterminazione democratica di una collettività”. In altre parole, ogni pretesa di valore, ogni esigenza morale, ogni convinzione religiosa acquista legittimità soltanto se e nel momento in cui viene accolta entro il sistema giuridico che si dà la collettività democratica.

Convergenze

Detto questo, se si esaminano più da vicino gli ultimi scritti dei due autori si notano – pur sulla base dei differenti impianti – significative convergenze. Così Habermas scrive che lo Stato liberale non può scoraggiare i credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, “perché non sa se altrimenti la società secolare non si priva di importanti risorse di fondazione di senso”. Non è una concessione da poco per una concezione “proceduralista” della democrazia. Non si tratta di mettere in discussione la separazione tra convinzioni religiose e procedure politiche, ma di consentire ai credenti – dice Habermas – di esprimersi “come tali anche politicamente”, di “tradurre” politicamente il loro linguaggio di fede.

Ma nel contempo il filosofo avanza ai cittadini credenti cristiani richieste non lievi: apertura verso i contenuti di verità delle altre religioni, riconoscimento della autonomia e della autosufficienza del sapere secolare e del monopolio degli esperti scientifici nei loro ambiti di competenza e da ultimo il primato delle ragioni secolari nell’arena politica. Alla base del ragionamento habermasiano non c’è (come in Böckenförde) la convinzione che le religioni siano le depositarie dell’ethos necessario al mantenimento dei valori liberali, ma semplicemente il convincimento che laici e religiosi debbano imparare vicendevolmente e pariteticamente. In particolare il “potenziale di verità” che il laico deve essere disposto a riconoscere nelle tradizioni religiose sta nel fatto che “articolano la coscienza di ciò che manca. Tengono desta la sensibilità per l’esperienza del fallimento umano”.

In realtà l’assenza nelle considerazioni del filosofo francofortese di concreti riferimenti pratici, impedisce di verificare l’effettiva consistenza o rilevanza di quanto dice. Si limita a suggerire operazioni di autoriflessione e processi di apprendimento reciproci tra credenti e laici che sono plausibili in un lavoro intellettuale (di tipo seminariale), ma sono insufficienti nel confronto quotidiano delle opinioni pubbliche e degli attori sociali che hanno di mira strategicamente deliberazioni politiche. Se si pensa poi alla situazione italiana attuale, l’invito all’”apprendimento reciproco tra laici e credenti” suona per lo meno ingenuo. Il compromesso legale-diplomatico, cui porta l’intesa tra laici e cattolici, non è neppure un surrogato del reciproco sforzo di capire le ragioni delle parti coinvolte. Böckenförde ha ripreso e ha sviluppato alcuni dei motivi ricordati sopra in un saggio del 2006 (“Lo Stato secolarizzato, la sua giustificazione e i suoi problemi nel XXI secolo”.) L’interesse di questo lavoro sta anche in alcuni passaggi che scoraggiano ogni tentativo di fare riferimento alle sue tesi per raccomandare allo Stato di promuovere la religione come fattore di integrazione valoriale.

Il ragionamento si muove sul filo di due tesi: la secolarizzazione irreversibile dello Stato liberale, garante insostituibile della libertà, e la questione sempre aperta della creazione di un vincolo sociale capace di ethos. Il punto d’avvio è una duplice accezione di neutralità dello Stato di fronte delle religioni: la prima è sinonimo di indifferenza, di presa di distanza se non di ostilità verso la religione; la seconda è una neutralità aperta, ampia, estesa, comprensiva anche nel senso di comprendere la dimensione di espressione pubblica della religione. Dopo questa premessa ricompare il quesito classico: “Da dove attinge e come mantiene lo Stato liberale, secolarizzato oggi il criterio, quella comunanza pre-giuridica e l’ethos portante, che è indispensabile per un prospero convivere in un ordine liberale?”. Il problema della coesione sociale culturale acquista oggi tratti ancora più urgenti in riferimento alla immigrazione islamica in Europa e in Germania.

Chi garantisce quello zoccolo culturale (originariamente religioso) sul quale lo Stato stesso poggia e senza il quale si parcellizza, si svuota e perde la sua forza di coesione? Quello zoccolo non può essere garantito né dalla religione da sola né dalla sua promozione da parte dello Stato. Infatti “lo Stato secolarizzato non può garantire con i mezzi a sua disposizione la persistenza e la vitalità della religione, non può neppure dichiarare la religione fondamento cogente della vita collettiva. La libertà religiosa da esso mantenuta garantisce soltanto la possibilità della religione e dell’esistenza religiosa, non la sua vitalità”.

Un’aporia di fondo

In nessun testo come in questo Böckenförde rivela l’aporia di fondo del suo ragionamento, che coinvolge addirittura la religione stessa. Infatti postula la religione come fattore creatore di ethos ma nel contempo ammette che essa stessa non è in grado di garantire la propria vitalità. Siamo davvero dentro a un dilemma. In verità più avanti l’autore offre una chiave di soluzione in una direzione ortodossamente liberale. La soluzione infatti sta nella “leale ottemperanza delle leggi esistenti con la franchigia delle idee”. In un ordine liberale cioè le idee (religiose) sono/devono rimanere in una zona franca. Questo significa semplicemente ribadire la centralità del concetto di libertà, che l’autore ritrova nel cuore stesso della dottrina cattolica (grazie al Concilio vaticano secondo) che vede nella libertà il connotato della persona umana come tale, prima ancora che del credente. In questo modo il modello dello Stato liberale secolarizzato appare alla fine più efficiente di quanto non ci si sarebbe aspettato, date le premesse di partenza.

Così ad esempio lo Stato secolare è in grado di affrontare la spinosa questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. A questo proposito registriamo in Böckenförde una significativa puntualizzazione nei confronti di un preoccupazione espressa dall’allora cardinale Ratzinger in un scambio di lettere con l’autore, che sulla “Süddeutsche Zeitung” aveva dissentito da una generalizzata proibizione del velo islamico. Ratzinger al contrario contestava che in uno Stato, pur ideologicamente neutrale, i simboli debbano essere considerati tutti allo stesso modo e quindi non escludeva alcune forme di discriminazione per salvaguardare la propria identità. “Uno Stato non può strapparsi completamente dalle sue radici ed elevarsi a puro Stato razionale per così dire, che privo di una propria cultura e senza un profilo proprio tratta in modo uguale tutte le tradizioni che sono rilevanti per l’ethos e per il diritto, e classifica in modo eguale tutte le manifestazioni pubbliche delle religioni”. Così scriveva Ratzinger.

Böckenförde risponde a questa preoccupazione in modo netto: “la libertà religiosa non è diversamente distribuibile e deve comprendere pubblicità anche per simboli religiosi di altre fedi Questa apertura naturalmente deve poter accogliere anche la cultura dominante senza dover rinnegare la sua peculiarità. Ci sono buoni esempi di come le due esigenze siano conciliabili”. “La quintessenza di questa discussione – prosegue – consiste per me nel fatto che da un lato la libertà religiosa in quanto diritto umano non sta e non può stare sotto alcuna riserva culturale, d’altro lato per la libertà religiosa e l’uguaglianza dei diritti delle religioni non può sorgere alcuna pretesa all’appiattimento ad alcun tipo di cultura e forma di vita religiosamente determinata come parte dell’ordre public. Da questo punto di vista gli appartenenti ad altre religioni (per lo più religioni minoritarie) vivono nella diaspora. Per tale vita nella diaspora l’islam e la religione ebraica hanno esplicitamente l’indicazione a osservare le leggi e i costumi del paese”.

Questa citazione contiene un passaggio interessante per il successivo sviluppo del ragionamento böckenfördiano. Infatti il concetto di riserva o Vorbehalt si traduce positivamente nel dovere dello Stato secolarizzato a rispettare la “riserva interiore” degli immigrati anche nei suoi riguardi purché questi garantiscano “la lealtà alle leggi”. Lo Stato secolarizzato dunque non può pretendere dagli immigrati l’adesione intima ai valori culturali storici da cui ha tratto origine, ma si deve accontentare di esigere da essi la lealtà alla leggi. Tiriamo una rapida conclusione. Se applichiamo questa coerente concezione di Stato laico al di là dello specifico ambito delle religioni immigrate e la consideriamo concezione generale dello Stato liberale, non risulta forse relativizzata l’enfasi böckenfördiana sulla necessità di presupposti di valore (anche religiosi) comuni per il buon funzionamento della società? Affermando che “al posto di generali dichiarazioni è la lealtà alla legge che diventa fondamento del vivere comune”, Böckenförde non si avvicina di fatto alla concezione (proceduralista) della democrazia di Habermas?

Böckenförde, Ratzinger, Habermas

Non è affatto casuale che qui si rincorrano i nomi di Böckenförde, Ratzinger, Habermas. I tre autori hanno riferimenti reciproci, ma – al di là di questo – circoscrivono con le loro riflessioni un’area teorica di qualità rara nell’orizzonte occidentale (per tacere delle sconfortanti baruffe ideologiche nostrane). Forse è anche una piccola rivincita del pensiero tedesco contemporaneo. Tra gli autori ricordati, Habermas è il più attento alle convergenze/divergenze. Non a caso nel suo celebrato (e spesso frainteso) colloquio del 2004 con l’allora cardinale Ratzinger, il filosofo francofortese iniziava il suo discorso rifacendosi criticamente al Diktum böckenfördiano. Ma l’allora Prefetto della congregazione per la dottrina della fede non aveva reagito.

In realtà l’intera conversazione tra i due illustri ospiti dell’Accademia cattolica di Monaco, al di là della vicendevole deferenza e della comune convinzione della necessaria complementarietà tra Wissen und Glauben, non ha segnato reali passi avanti nella reciproca conoscenza. La ragione di questa incomprensione è seria e sta nella impermeabilità delle rispettive costruzioni teoriche. Soprattutto da parte di Ratzinger. In compenso il mondo cattolico ha dato molta pubblicità alle tesi habermasiane sulla legittimità dell’accesso dei credenti al “discorso pubblico”, senza prendere nota delle condizioni impegnative che il filosofo stesso ha elencato per questo accesso.

Da parte sua Habermas è rimasto zitto, anche dopo l’importante lezione di Papa Ratzinger a Regensburg che (al di là dell’incidente della infelice citazione percepita in chiave anti-islamica) riesponeva con rigida fermezza le sue tesi sul rapporto tra ragione e fede. In questo contesto un argomento decisivo era la ripresa del tema storico-teologico dell’ellenizzazione del cristianesimo (un tema che – diciamolo per inciso – trova assolutamente impreparata la cultura italiana sia cattolica che laica). In breve, Benedetto XVI ha ribadito che la sintesi tra fede e ragione, messa a punto dalla tradizione cristiana antica e tradizionale “ellenizzata”, è l’unica sostenibile ancora oggi. E quindi presenta e respinge sotto forma di “dis-ellenizzazione del cristianesimo” tutti tentativi moderni e contemporanei di superare quella sintesi. Comprese le forme della razionalità scientifica che oggi espungono dal loro orizzonte la fede e l’ethos da essa promosso.

Con ritardo ma con fermezza Habermas ha reagito a queste tesi nel febbraio scorso con un articolo sulla “Neue Zuercher Zeitung”. All’interno di una riflessione contro “il disfattismo della ragione” (che certamente trova il consenso del credente) e a favore della complementarietà tra ragione e fede (dove quest’ultima è presentata come genealogia della ragione laica), il filosofo prende distanza dalle tesi di Ratzinger. Il Pontefice – dice – “ha dato al vecchio dibattito sull’ellenizzazione e disellenizzazione del cristianesimo una svolta inattesa nel senso di una critica alla modernità. Con questo, ha fornito anche una risposta negativa alla domande se la teologia cristiana deve tenere conto delle sfide della ragione moderna, post-metafisica”. Non è questa la sede per rimettere a fuoco il dibattito storico-filosofico-teologico della “ellenizzazione del cristianemo”. Prendiamo semplicemente atto della delusione di Habermas che la complementarietà tra ragione e fede e quindi la “ragionevolezza della fede”, quale è intesa da Ratzinger, non vanno nella direzione da lui attesa in occasione del celebrato colloquio di Monaco. Ne prendano nota i cattolici che continuano a segnalare Habermas come l’interlocutore laico ideale.

Gian Enrico Rusconi è professore di Scienza politica all’Università di Torino, editorialista de «La Stampa» e collaboratore della rivista «Il Mulino». La sua ricerca spazia dall’analisi storico-politica alle tematiche etico-politiche. Tra i suoi ultimi libri: Come se Dio non ci fosse (Einaudi 2000), Germania Italia Europa. Dallo Stato di potenza alla «potenza civile» (Einaudi 2003), L’azzardo del 1915 (Il Mulino 2005), Non abusare di Dio (Rizzoli, 2007).

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 101.

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