«Così è nato un Paese»
Soazig Dollet (Reporters sans frontières) intervistata da Ernesto Pagano 24 January 2011

Il traballante governo provvisorio tunisino ha fatto molte promesse sul campo della libertà d’espressione… ma quanto c’è di concreto?

Le dichiarazioni di apertura verso il pluralismo mediatico sono segnali senza dubbio importanti, ma erano anche la cosa più facile da fare, vista la situazione. Tuttavia, alcuni effetti di questa apertura dichiarata si cominciano a vedere: possiamo dire che oggi, dopo la fuga di Ben Ali, i giornalisti tunisini sono riusciti a riprendere il controllo dei loro media. Ma si tratta di una fase transitoria. Adesso ci sarà bisogno di un vero sindacato dei giornalisti in grado di rappresentare la categoria, di una piena libertà sulla rete, cosa che esiste da poco più di una settimana, di un un sistema solido che garantisca il pluralismo dell’informazione sul lungo periodo.

Facendo un paragone con gli altri Paesi arabi, qual era l’atteggiamento della Tunisia di Ben Ali nei confronti della stampa?

Fino alla caduta del regime, la Tunisia era una delle realtà più chiuse del mondo arabo, con una stampa totalmente asservita al governo e al Raggruppamento Costituzionale Democratico; dove per i giornalisti locali era difficilissimo lavorare in maniera indipendente. Se si volesse fare un paragone, metterei la Tunisia accanto alla Siria: un Paese, anche quello, con un regime fortemente autoritario e una polizia politica onnipresente. In altri Paesi, come ad esempio l’Egitto, il reporter di una testata indipendente riesce, seppur con difficoltà, a fare il suo lavoro. Certo anche qui, a partire dalle elezioni legislative del 2010, la censura ha fatto un giro di vite, ma direi che la situazione tunisina, in ambito regionale, sia sempre stata fuori dall’ordinario.

Quanto è stato difficile per i giornalisti stranieri raccontare la “rivoluzione dei gelsomini”?

All’inizio delle manifestazioni in Tunisia c’è stato un vero e proprio blackout dell’informazione imposto dal governo. Quindi molte notizie, così come le immagini degli scontri, sono arrivate attraverso i canali di Facebook e Twitter, un po’ come in Iran. Ma a differenza di quest’ultimo i media occidentali hanno avuto meno difficoltà per accedere al Paese: un giornalista francese può entrare in Tunisia senza visto facendosi passare per turista, cosa impossibile a Teheran.

Eppure, prima della crisi attuale, la Tunisia sembrava totalmente assente dall’agenda dei media stranieri…

In effetti si può dire che è la prima volta che si parla di questa Tunisia. In tempi “normali”, un corrispondente straniero in veste ufficiale nel Paese era seguito costantemente da poliziotti in borghese. Questa situazione ha fortemente compromesso il lavoro dei reporter. In più, chi rilasciava alla stampa straniera dichiarazioni critiche nei confronti del regime correva enormi rischi per la sua incolumità.

In questo modo, fino a dicembre scorso sulla sponda nord del Mediterraneo sopravviveva l’immagine di una Tunisia che vantava sviluppo economico ed emancipazione femminile…

Ci sono degli argomenti che sono serviti da paravento per nascondere la situazione reale del Paese: vuoi che si tratti della condizione della donna o della lotta del governo al fondamentalismo islamico. E d’altro canto è vero che rispetto ad altri Paesi della regione, la condizione economica e la posizione delle donne erano in qualche modo migliori. Ma si tratta di un’immagine di facciata con la quale il governo tunisino ha parecchio giocato coi Paesi occidentali.

Cosa ha fatto saltare in maniera così repentina questa immagine di facciata?

C’è stato un periodo in cui il Paese ha beneficiato del “miracolo economico”. Si trattava di un benessere di cui, seppur con disparità, riusciva a giovare buona parte della società. C’erano investimenti stranieri, che volevano dire anche posti di lavoro per i locali. Quindi si trattava di un processo positivo, anche se, naturalmente, non riguardava la libertà politica. Ma con la crisi economica, tutti i sacrifici di una generazione arrivata ad ottenere alti titoli di studio sono risultati vani. E allora il malessere sociale è esploso in una contestazione aperta, che poi successivamente ha assunto una connotazione politica.

Esiste davvero un’alternativa politica in grado di sostituire il regime di Ben Ali?

Il regime è riuscito a dividere la società in compartimenti stagni, mettendo l’uno contro l’altro. Inoltre bisogna tenere conto che per decenni la maggior parte delle associazioni e dei partiti è stata messa fuori legge. Anche per questo motivo si arriva oggi senza figure politiche di riferimento. Ma adesso è successo qualcosa di straordinario, perché diversi attori della società civile tunisina, tradizionalmente divisi, sono scesi in strada in nome di una causa comune, per dire no alla corruzione e domandare libertà.

Quindi, secondo Lei, ci sono gli elementi per avviare il Paese su un sentiero democratico?

Il Paese sembra appena nato, e il vuoto politico creato dalla fuga di Ben Ali mette la Tunisia in una situazione pericolosa. Ma onestamente è molto difficile fare previsioni su quello che potrebbe accadere da qui a due settimane. Adesso sta a tutti quei tunisini che hanno preso parte alla “rivoluzione dei gelsomini” far si che la loro battaglia non si traduca in fallimento o, peggio, venga confiscata da qualche altro soggetto politico. La risoluzione di questa crisi è nelle loro mani.

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