Il monastero di Visoki e l’imposizione della tolleranza
Matteo Tacconi 20 November 2007

Visoki, Kosovo

Barbe lunghe ma ordinate, codino, tonaca nera. I pope del monastero di Visoki sembrano soldatini, uno uguale all’altro. Alle otto del mattino il cortile di Visoki è già in fermento. Alcuni operai allestiscono un’impalcatura. Devono effettuare piccole riparazioni alle mura esterne. I monaci scorrazzano qua e là, fanno la spola tra il monastero e la chiesa, che sorge qualche metro più in là. La visitiamo. È un gioiellino. Affreschi ovunque, cristi e madonne, rilievi d’oro. C’è un’aria di misticismo e devozione, che non può sfuggire. Neanche a un profano. La fede serbo-ortodossa affonda le radici in questo monastero e nella vicina cattedrale di Pec (Peja in albanese), che marcano rispettivamente il massimo periodo di potenza dello stato serbo medievale e la nascita dell’autocefalia serba, sorta nel 1219, quando Sava, fratello del principe Stefan Nemanja, si staccò dal patriarcato di Costantinopoli, scegliendo Pec come sede del patriarcato. Ancora oggi il patriarca serbo (il metropolita di Belgrado) riceve le funzioni nella elegante cattedrale di Pec.

Il Kosovo, culla della civiltà serba

Fu, il 1219, l’origine non soltanto della chiesa, ma anche della nazione serba. Autocefalia e nazione sono infatti due concetti che nei paesi di tradizione ortodossa spesso coincidono. Grecia, Ucraina, Russia, Bulgaria, Romania: ognuno di questi paesi ha una sua chiesa nazionale. Quella serba, come detto, nacque sotto la monarchia dei Numanja, consolidatasi ulteriormente, attraverso conquiste territoriali, durante il regno di Stjepan III e Dusan (il figlio). Fu proprio Stjepan III a volere la costruzione di Visoki. Correva l’anno 1327. Ancora oggi, le reliquie del penultimo sovrano della dinastia dei Nemanja (dopo Dusan lo stato serbo si sgretolò sotto i colpi degli ottomani, ndr) sono conservate nel monastero di Visoki.

Sovrastato dalla sagoma imperiosa delle montagne che separano il Kosovo occidentale da Montenegro e Albania, il monastero, che sorge nei pressi della vicina cittadina di Decani, è un formidabile esempio di preziosismi architettonici e artistici. Padre Ilarion, che ci accompagna della visita, sottolinea come Visoki, che vanta anche una biblioteca sterminata, composta prevalentemente da opere trascritte da amanuensi, sia il più importante museo religioso dei Balcani. Nonché un luogo di pellegrinaggio. Sono molti i fedeli che, organizzati in comitive, giungono a Visoki da Belgrado, Novi Sad, Nis e dalle altre città serbe. Le loro offerte rappresentano un’importante voce nel bilancio dei pope visokiani, che si guadagnano di che vivere producendo vino, icone religiose, candele e rakija, una sorta di grappa, spesso aromatizzata con frutta (in maniera particolare con prugne) che nei Balcani è una vera e propria istituzione.

La questione extraterritoriale

La vita, all’interno del monastero, scorre via tranquilla. Non altrettanto si può dire per quello che accade “fuori” dalle mura di Visoki. Il punto è che l’area di Decani, roccaforte dell’ex comandante dell’Uck (Esercito di liberazione kosovaro) Ramush Haradinaj, ora sotto processo all’Aja per crimini di guerra, è stata teatro di un’opera certosina di contropulizia etnica, che ha portato i serbi, vessati, minacciati e pestati, a emigrare dopo il cruento biennio del ’98-‘99. Visoki è come un puntino nell’oceano, è un piccolo bastione serbo sprofondanto nel bel mezzo di territori etnicamente puri, monolitici. Ciò comporta una particolare attenzione da parte dei militari italiani della Kfor, il contingente Nato. I nostri soldati, di stanza a Villaggio Italia, alle porte di Pec, presidiano la via d’accesso al monastero, minuto su minuto.
Già diverse volte i nazionalisti albanesi hanno lanciato colpi di mortaio sulla cinta muraria di Visoki. Questioni di intolleranza etnica, di contrabbando (il monastero “ostruisce” la via ai valichi di montagna che conducono in Montenegro e Albania) e di extraterritorialità. Quest’ultimo concetto rappresenta uno dei cardini del rapporto elaborato qualche mese fa da Martii Ahtisaari, ex inviato speciale dell’Onu per il Kosovo, incaricato di tratteggiare il futuro assetto socio-politico della provincia, formalmente ancora serba, ai sensi della risoluzione 1244 del consiglio di sicurezza dell’Onu. Ahtisaari ha previsto per chiese e monasteri serbi uno status extraterritoriale, simile a quello concesso alle ambasciate. Uno strumento capace di tutelare il patrimonio artistico e culturale del Kosovo dalle sfuriate albanesi e di garantire che i pope serbi possano continuare a diffondere il loro verbo, anche in terra straniera (il piano Ahtisaari appoggia l’indipendenza del Kosovo).

Il punto è che più volte gli ex guerriglieri dell’Uck hanno vandalizzato gli edifici religiosi serbi del Kosovo. Basterà ricordare i tumulti del 17 marzo del 2004, divampati a Mitrovica e diffusisi in tutto il Kosovo. In quell’occasione, i nazionalisti albanesi usarono un evento luttuoso (la morte di due ragazzini a Mitrovica, annegati nel fiume Ibar) per lanciare un’offensiva spietata contro la minoranza serba. A leggerlo a posteriori, quell’evento è apparso ai più pianificato: l’accusa che gli albanesi hanno rivolto ai serbi, considerati gli esecutori materiali dell’annegamento dei due giovani albanesi, non è stata suffragata da prove convincenti. Resta il fatto che in tutte le cittadine del Kosovo, la furia nazionalista s’è abbattuta, in quel fatidico 14 marzo, contro il nemico serbo. Il bilancio di quella giornata è stato tragico: una dozzina di serbi hanno perso la vita e sono stati incendiati oltre venti siti religiosi, tra chiese e monasteri. L’extraterritorialità accordata a Visoki e agli altri siti ortodossi del Kosovo (se ne contano a centinaia) ha quindi lo scopo di arginare possibili devastazioni. Ma anche la funzione di garantire, rispettando i principi di multietnicità, il libero culto, requisito fondamentale per costruire uno stato kosovaro tollerante e moderno, rispettoso della minoranza serbe, tutt’oggi ghettizzati nelle enclavi, protette dai militari del contingente di peace-keeping.

Albin Kurti contro i pope

Non la pensa così Albin Kurti, guida storica di Vetevendosje (Autodeterminazione), un gruppo movimentista kosovaro, nemico giurato della missione dell’Onu e dei monasteri. Kurti ha più volte spiegato – lo ha fatto anche per la rivista italiana Limes – che l’extraterritorialità darebbe modo alla Serbia di conservare la propria sovranità sul Kosovo. Belgrado, questo il Kurti-pensiero, punterebbe infatti a sfruttare i monasteri come depositi di armi e come centri logistici, per continuare a controllare il Kosovo e impedire agli albanesi l’affrancamento dall’ipoteca esterna serba. In questa sua battaglia, Kurti, ex leader studentesco, s’è trascinato dietro una discreta pattuglia di ex combattenti dell’Uck, che più volte, provocatoriamente, hanno organizzato manifestazioni di protesta a Decani, contro l’extraterritorialità del monastero di Visoki e ipso facto di tutti gli edifici religiosi serbi presenti nella regione.

Secondo i calcoli del numero uno di Vetevendosje, se venisse concessa l’extraterritorialità a chiese e monasteri, il 9 per cento del territorio kosovaro rimarrebbe nelle mani di Belgrado. A giudicare dal precedente nefasto del 14 marzo 2004, i ragionamenti di Kurti fanno acqua da tutte le parti. Il Kosovo ha bisogno di multietnicità e tolleranza. Certo, se si avesse a che fare con uno stato “normale” non si ricorrerebbe all’extraterritorialità. Ma nel Kosovo, spicchio di Balcani grande appena quanto l’Abruzzo, risentimenti e veti incrociati, strascichi d’odio e muri, impediscono la dialettica tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. La tollerenza, in altre parole, va imposta. L’extraterritorialità serve a questo. Malgrado i teoremi di Kurti.

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