La sfida globale dei giornalisti
Ibrahim Helal 16 July 2008

Questo testo è il discorso tenuto dall’autore alla Conferenza internazionale di Doha, organizzata in Qatar da Reset Dialogues on Civilizations il 26 febbraio 2008.

Non esistono mezzi di comunicazione dell’Ovest e dell’Est, perché i media in Occidente, come altrove, sono diversi fra loro. Una conclusione molto dolorosa a cui sono arrivato è che tanti spettatori guardano i media per riconfermare le loro ideologie e i giornalisti spesso indirizzano le notizie al pubblico del proprio canale perché è difficile raggiungerne altri. Anche quando il pubblico decide di guardare reti diverse lo fa con lo spirito di chi vuole riconfermare la propria percezione delle cose, come è accaduto nel caso della guerra in Libano e come sta accadendo con le primarie americane: il pubblico arabo, infatti, sta seguendo il confronto tra Obama e la Clinton solo nella chiave di comprendere quale candidato sarà in grado in futuro di servire di più i nostri interessi.

La scena globale è diventata più complicata e così anche il mestiere di giornalista. A causa di questa complessità c’è la tendenza a semplificare le cose, perché nelle redazioni cerchiamo di comprenderle nella maniera più semplice possibile in modo da poterle presentare poi al pubblico. La guerra in Libano, la questione palestinese, sono temi molto complessi e il ricorso agli stereotipi ci offre una scorciatoia per semplificarli. Le colpe di tutto ciò sono dei giornalisti, ma anche degli studiosi e dei politici.

Dopo l’11 settembre c’è una sensazione globale di «urgenza», una «mentalità delle emergenze»: viviamo nell’epoca del giornalismo immediato; i grandi eventi e le catastrofi producono una scarica di adrenalina all’interno delle redazioni il che rende più difficile gestire l’equilibrio dell’informazione, anche per la forte concorrenza che si è venuta a creare tra i maggiori media globali e per la volontà di ciascuno di mostrare i propri muscoli: seppure senza convinzione, cerchiamo di intervistare alcune personalità perché vogliamo dimostrare il nostro equilibrio o mandiamo corrispondenti e inviati dove non serve.

Nella mia carriera ad Al Jazeera mi sono sempre sentito libero. La nostra è un’organizzazione molto trasparente. Mi sono dimesso due volte, ho lavorato con la Bbc International e, nonostante tre anni fa avessi criticato duramente AlJazeera in una conferenza pubblica dicendo che il suo modo di fare giornalismo non rafforzava i principi della democrazia, ora sono vicedirettore del canale inglese. Come ho detto, per i media è difficile alimentare il flusso delle informazioni a dispetto degli stereotipi. Dobbiamo essere selettivi perché le informazioni che arrivano sono migliaia e ci focalizziamo di più sulle cattive notizie perché sono più indicative dei cambiamenti e sono parte integrante della realtà. Quando mi chiedono perché Al Jazeera racconti di più le morti dei palestinesi piuttosto che quelle degli israeliani, o perché mostri le immagini delle demolizioni delle abitazioni palestinesi, rispondo semplicemente che lo facciamo perché ci sono più palestinesi che muoiono e perché le loro case vengono distrutte. Come una volta dissi a Shimon Peres, «fermate le demolizioni e noi smetteremo di parlarne».

Qual è il nostro compito? Facilitare il cambiamento mantenendo una posizione imparziale, oppure contribuire direttamente al dialogo come protagonisti? Se, come credo, il nostro ruolo è comunicare aldilà dell’Est e dell’Ovest, dovremo non solo combattere i vecchi stereotipi, ma crearne di nuovi.

Ibrahim Helal è vicedirettore generale di Al Jazeera International

Traduzione di Martina Toti

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