L’Unione Europea, una potenza “non vincolante”
Emanuela Scridel 7 January 2010

Si è conclusa il 18 Dicembre scorso a Copenhagen la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP 15), cui hanno partecipato 193 Paesi. Il risultato è stato “un accordo, né legalmente né politicamente vincolante”. Un accordo senza cifre sulle riduzioni della Co2, con il riconoscimento dei dati scientifici che stabiliscono a 2 gradi il massimo di aumento della temperatura entro la fine del secolo, e uno stanziamento ingente per il trasferimento delle energie pulite ai paesi meno sviluppati: 30 miliardi di dollari nel triennio 2010-2012 che aumenteranno a 100 miliardi entro il 2020. L’Accordo, di fatto proposto dagli Stati Uniti e dal Basic (Brasile, Sudafrica, Cina e India) e appoggiato dall’Unione Europea, a causa del dissenso di sette paesi – Venezuela, Nicaragua, Cuba, Bolivia, Costarica, Sudan e Tuvalu – è stato in un primo momento bloccato in base al meccanismo delle Nazioni Unite che prevede il consenso unanime. Si è dunque dovuto trovare un espediente tecnico che consentisse di uscire dall’empasse e rendere operativo un testo politico: l’Assemblea delle Nazioni Unite ha così “preso nota” di un documento chiamato “Accordo di Copenaghen”. La decisione comprenderà la lista dei paesi che si sono detti a favore dell’intesa e quelli, invece, dichiaratisi contrari.

Quale che sia la valutazione dei risultati cui ha condotto, il vertice di Copenhagen ha in ogni caso avuto il pregio di fornire una fotografia nitida e alquanto precisa di quella che è la realtà geo-politica ed economica attuale a livello globale e degli equilibri che la sottendono. L’Unione Europea ha confermato la sua caratteristica di essere “gigante economico” e “nano politico”, e la sua debolezza – che ci si aspetta vada scemando in virtù dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – nel parlare efficacemente “con una sola voce”, unico modo per poter “pesare” all’interno del rinnovato contesto internazionale. Stati Uniti e Cina, grandi assenti del protocollo di Kyoto, sono stati i “major players” di questo vertice, a testimonianza da un lato della nuova politica estera e commerciale americana (che sta segnando il passo con un drastico spostamento degli interessi economico-politici verso la regione asiatica del Pacifico), e dall’altro dell’emergere, non solo come “gigante economico” ma anche come attore essenziale nella definizione della governance globale, della Repubblica Popolare Cinese. Ed è un dato che fa riflettere, se si considera che la Cina è oggi la “prima potenza carbonica”, avendo superato gli Stati Uniti per l’emissione di CO2.

La chiusura del vertice di Copenhagen si è infatti giocata quasi interamente sull’asse del nuovo “G2”. Gli Stati Uniti si sono trovati a dover affrontare due questioni cruciali oltreché conflittuali, nei confronti della Cina, poiché gli aiuti al Paese, previsti dall’Accordo, potrebbero di fatto trasformarsi in un vantaggio competitivo per la Cina rispetto agli stessi Stati Uniti. In secondo luogo, la resistenza fatta dalla Cina nell’accettare la possibilità di controlli internazionali sul raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo – considerandoli un’ingerenza esterna in questioni di politica interna – pone in risalto la necessità di vincolare più che mai qualunque tipo di finanziamento al principio di trasparenza. La promessa fatta da Pechino è quella di ridurre l’ “intensità carbonica del suo sviluppo”. Ma fino a che punto è realistico che Paesi come la Cina o l’India possano “tassare” il proprio sviluppo? Uno sviluppo che spesso coinvolge solo determinate fasce della popolazione e solo determinate aree del Paese in questione. Ne è un esempio l’India, uno dei Basic, dove 400 milioni di persone vivono senza accesso alla corrente elettrica.

L’Unione Europea, maggiore economia mondiale, dispone di know-how e tecnologie che le consentirebbero di assumersi la leadership economica in campo ambientale e di guidare quella che viene definita la terza rivoluzione industriale, quella basata sull’efficienza energetica e sulle energie rinnovabili. Ed anzi, proprio in quest’ambito si potrebbe intraprendere un’azione comune che veda coinvolti tanto i paesi a tecnologia avanzata quanto i paesi in via di sviluppo. I paesi industrializzati potrebbero infatti offrire gli strumenti più avanzati a coloro che non hanno ancora sviluppato la seconda rivoluzione industriale. Un’azione di questo tipo permetterebbe di far saltare a questi paesi una fase dello sviluppo, trasferendo, ad esempio, le rinnovabili a coloro che non sono nemmeno connessi alla rete elettrica, tenendo dunque insieme crescita economica e tagli alle emissioni. Il che creerebbe un circolo virtuoso positivo, che porterebbe vantaggi economici e di sviluppo, sia ai paesi “portatori” che a quelli riceventi.

Dunque, date le competenze e la volontà, indiscussa, di avere un ruolo attivo e decisionale all’interno dei differenti consessi internazionali, perché la “marginalità” dell’Unione Europea al vertice di Copenhagen? Una spiegazione potrebbe forse essere intravista nella percezione che di essa si ha all’esterno: un insieme di stati con un insieme di politiche, condivise, “ma non vincolanti”!

Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.

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