La disputa tra Habermas e Streeck sulla sinistra e il futuro dell’Europa
Luca Corchia 9 April 2014

A luglio è attesa la nomina del Presidente della Commissione, da parte del Consiglio europeo con il voto di fiducia del Parlamento, per cui si sono candidati i leader dei maggiori gruppi parlamentari, ad oggi, Jean-Claude Juncker (Partito popolare), Martin Schulz (Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici), Alexis Tsipras (Sinistra unitaria), Guy Verhofstadt (Alleanza dei Democratici e dei Liberali), José Bové e Ska Keller (Verdi-Alleanza Libera), Marine Le Pen (Alleanza per la Libertà). Da luglio a dicembre, infine, l’Italia assumerà la Presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione europea, l’organo di coordinamento dei ministri degli Stati membri nelle dieci principali materie politiche di competenza comunitaria; un’occasione propizia per restituire al nostro Paese il ruolo di impulso nel processo di integrazione e mediazione tra i contrastanti interessi nazionali.

A mettere in discussione l’esito di procedure democratiche che il Trattato di Lisbona ha innovato – e, a torto, vengono rubricate sotto il titolo del business as usual – si addensa la nube della crescita di consenso dell’antieuropeismo, “punto di coagulo” dell’opposizione di correnti culturali che si muovono nel fluido spazio dell’opinione pubblica europea. Ne sono portavoce partiti eterogenei storicamente collocati alle ali estreme, la destra nazionalista o ultra-capitalista e la sinistra antagonista, ma anche nuovi movimenti populistici che agitano la bandiera dell’antipolitica, tutti persuasi di dare una rappresentanza agli interessi della gente comune strangolata dall’establishment. È un dissenso minoritario, certo, ma farà molto rumore nei prossimi mesi.

Come d’abitudine, in attesa della frenetica rincorsa del mainstream nazionale, la questione è stata posta all’ordine del giorno con la rilevanza che merita solo all’interno delle ristrette cerchie accademiche e intellettuali. Tra i saggi più stimolanti ricordiamo il recente Mal di Nazione di Alberto Martinelli[1], per la capacità di descrivere la costellazione ideologica dell’antieuropeismo, ricostruirne la genesi e gli sviluppi, mantenendo sullo sfondo il terreno germinale della globalizzazione e focalizzando lo sguardo sulle contraddizioni istituzionali ed economico-sociali della devoluzione di sovranità statuale al livello comunitario. Il testo si conclude, opportunamente, sulle linee di frattura che scompongono il campo della sinistra europea nei confronti del processo di integrazione, anche tra coloro che disapprovano l’appiattimento della socialdemocrazia sulle politiche dominanti dell’austerity imposte dalle istituzioni comunitarie. Un “duello a sinistra” – avremmo scritto un tempo – che è tanto più interessante perché Martinelli mette a confronto due intellettuali tedeschi, entrambi ostili al perdurante compromesso della Große Koalition che governa il Paese da cui dipendono le sorti dell’Unione europea: Wolfgang Streeck, direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung di Colonia, e Jürgen Habermas, vecchio maestro della teoria critica che – rassicuriamo i lettori de “Il Messaggero” – non dobbiamo ancora “compiangere”, come erroneamente riferito da Giulio Sapelli l’otto febbraio, commentando la sentenza della Corte suprema di Karlsruhe[2].

Il confronto tra le figure preminenti della cultura politica tedesca, passato alla cronaca come Streeck-Habermas Debatte, ha ricevuto un’immediata attenzione in Germania, dove la disputa su “che cosa significa il socialismo oggi”, nel conteso dell’unificazione europea, è ancora attuale e coinvolgente. Se in Italia si comincia a parlarne lo si deve ad accademici attenti al pensiero di scuola francofortese, come Maurizio Ferrera, che per primo, a luglio, ne dava conto sulle pagine de “Il Corriere della Sera”[3], e Walter Privitera, curatore della traduzione – pubblicata a settembre da “Reset” – del saggio Demokratie oder Kapitalismus?[4], in cui Habermas spiega “perché la sinistra anti-Europa sbaglia”. Alcuni mesi dopo, sono giunti i contributi di studiosi marcatamente europeisti come Sergio Pistone, su “The Federalist”[5] e Michele Salvati[6] e Antonio Padoa-Schioppa[7], su “il Mulino”, e, più recentemente, l’intervento di Stefano Rodotà[8], le cronache dell’“Avanti!” e del­l’“Avvenire”[9]. La discussione, infine, è stata alimentata dalla contemporanea traduzione di Gekaufte Zeit, il ciclo delle Adorno-Vorlesungen che Streeck ha dedicato, nel giugno 2012, al tema “La crisi rinviata del capitalismo democratico”. Pubblicato da Feltrinelli nel luglio scorso[10], il pamphlet è stato entusiasticamente recensito dalla galassia blogger della sinistra anti-liberista, che nella previsione della crisi ter­mi­nale del capi­ta­li­smo prefigurata dal sociologo del Max-Planck, forse, trova un sostegno alla soluzione greca della deriva post-democratica in cui si sarebbe avviluppata l’integrazione europea. Più prudente è stato l’apprezzamento de “Il Manifesto”, attratto dalla narrazione della pars destruens ma diffidente verso le soluzioni nazionalistiche[11].

Non potendo qui ripercorrere le riflessioni sull’Ue che i due studiosi hanno espresso negli ultimi due decenni, su cui rimandiamo ai testi e alla letteratura critica, consideriamo il principale motivo di divergenza in merito alle politiche alternative delle due sinistre nel progetto di costruzione europea.

I dissensi non pregiudicano peraltro l’apprezzamento più volte manifestato nei confronti delle analisi sulla finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo e sulla crisi delle politiche debitorie dei Paesi europei, trasformati da sistemi fondati sulle imposte a sistemi basati sul consolidamento. Nella relazione tenuta alla Humboldt Universität, nel giugno 2011, aggiornata nel saggio Zur Verfassung Europas (2011)[12], Habermas aveva già citato positivamente un articolo di Wolfgang Streeck e Jens Beckert, da poco apparso sulla “FAZ”[13], in cui venivano analizzati i costi insostenibili delle strategie nazionali che ancora si propongono per il superamento della crisi dei debiti statali: il contenimento della spesa pubblica, l’aumento delle imposte, la trat­tativa con i creditori per la loro riduzione e la politica inflazionistica. Habermas confermava la stima nel successivo articolo Euro-Krise: Rettet die Würde der Demokratie[14], ancor più elogiativo delle tesi esposte da Wolfgang Streeck[15] sulla dinamica del debito degli Stati europei nella cosiddetta fase “Tina” (there is no alternative) del liberismo incontrastato, in cui convivono stridenti ricchezza privata e povertà pubblica, consigliandone la lettura ai «politici che sognano di ritornare nell’integro mondo ordoliberale di una società economica che perfettamente si autoregola in modo apolitico».

Habermas condivide altresì l’idea della “tensione” tra il capitalismo, regolato dalla logica finanziaria, e la democrazia, legittimato dalla sovranità popolare, che vede gli Stati più deboli dell’Ue soccombere a una “velocità mozzafiato”, come provano le rimozioni dei politici eletti ma “sgraditi” al mercato. D’altra parte, lo studio di Streeck – «ricco di spunti ed empiricamente fondato» – può essere accolto da Habermas come una giusta revisione critica delle “tendenze di crisi del capitalismo maturo” che, assieme a Claus Offe, il sociologo di Francoforte aveva verificato nella cornice del keynesianismo[16]. Gekaufte Zeit si propone di ricostruire nelle evoluzioni “lunghe” del sistema economico la dinamica della dissoluzione del “capitalismo democratico”, prodotto del difficile compromesso di classe tra il capitale e il lavoro, con l’emergere dell’antinomia tra “giustizia sociale” e “giustizia dei mercati”, il prevalere delle forze finanziarie sulla sovranità degli stati, che rimettono ai soli strumenti di mercato il compito della ridistribuzione delle opportunità, e le istituzioni internazionali ed europee che ne garantiscono il dominio[17]. Anche Habermas approva l’attacco alla tecnocrazia di Bruxelles – «arrendevole al modello neoliberista» – che «senza radici democratiche non avrebbe la motivazione per accordare un peso sufficiente alle richieste degli elettori in materia di giusta distribuzione del reddito e della proprietà, di sicurezza del tenore di vita, di servizi pubblici e beni collettivi, quando queste confliggono con le esigenze di competitività e crescita economica del sistema»[18]. Tali parole sono estratte dalla conferenza di Lovanio, nell’aprile 2013, dopo la presentazione celebrativa di Herman Van Rompuy, Presidente del Consiglio europeo. È indubbio che Habermas censuri la “via burocratica” all’integrazione europea, non meno della più recente “via intergovernativa” del “rigore” imposta dalle cancellerie. Wolfgang Streeck – egli scrive – «ha il merito di aver dimostrato che la “politica dello Stato debitore”, che il Consiglio europeo porta avanti dal 2008 su pressione del governo tedesco, nella sostanza continua a seguire il modello politico favorevole al capitale che ha condotto alla crisi»[19].

La sintonia nella diagnosi diverge immediatamente non appena si pone il problema delle soluzioni politiche alternative alle austere ricette della troika. La “politica difensiva di revoca dell’euro”, a cui dà credito Streeck, ripropone l’“opzione nostalgica” di un ritorno al protezionismo delle frontiere statuali; una soluzione ricorrente nella “vecchia sinistra”[20], che Habermas aveva criticato negli anni Novanta, attingendo peraltro già allora alle sue ricerche per descrivere le sfide portate alla democrazia nazionale dalla globalizzazione[21]. Ciò che lo sorprende è che proprio la constatazione del vantaggio organizzativo dei mercati finanziari nei confronti delle istituzioni nazionali e del bisogno di regolazione politica, prodotto da un’economia globale volatile e interdipendente, dovrebbe indurre a rigenerare a livello sovranazionale la forza normativa un tempo concentrata nella legislazione degli Stati democratici. Il rafforzamento dell’Unione europea, secondo Habermas, rappresenta l’unica pros­pettiva per riequilibrare il “rapporto impazzito tra politica e mercato”, tra l’appagamento dei bisogni delle persone e le attese di profitto del capitale.

La solidarietà per la “rabbia della piazza” dei popoli greci, spagnoli, portoghesi e italiani non si manifesta incoraggiando la “chiusura a riccio” nella sovrana impotenza delle “fortezze nazionali” bensì realizzando i diritti civili, la democrazia politica, la giustizia sociale in un Europa degli stati e dei cittadini che assicuri le condizioni della crescita economica da cui provengono le risorse. Né può essere l’inadempienza o subalternità al mercato delle istituzioni comunitarie il motivo sufficiente per la “rinuncia disfattista” al progetto di integrazione, su cui l’elettore può incidere a livello statuale e a livello europeo. Per superare il consueto scetticismo nazionalista verso la costruzione di una comune identità europeista, riproposto da Streeck, Habermas sollecita i mezzi di comunicazione di massa e i corpi intermedi della società civile – le associazioni, i sindacati e i partiti politici – a prodursi in una “generalizzazione degli interessi trasversale rispetto ai confini nazionali”, soprattutto in Germania. L’ultimo intervento del “grande vecchio” è del due febbraio, quando, ospite d’onore del seminario a porte chiuse della Spd a Potsdam, tra applausi e imbarazzi, ha preteso un “cambiamento di rotta”, strigliando i dirigenti socialdemocratici «continuatori del precedente governo [che] non state facendo niente, per l’Europa, di quello che avevate promesso». Un impegno per Martin Schulz che è sembrato accogliere calorosamente l’invito[22].
Le imminenti elezioni europee saranno il primo vero “banco di prova”.

Note

[1]Alberto Martinelli, Mal di Nazione. Contro la deriva populista, Milano, Egea, 2013.

[2]Giulio Sapelli, La svolta di Karlsruhe. La ripresa più difficile cambia tutto nell’eurozona, in “Il Messaggero”, 8 febbraio 2014, pp. 1, 20.

[3]Maurizio Ferrera, Il dilemma dell’Europa capitalismo vs democrazia, in “Corriere della Sera”, Supplemento “La Lettura”, 21 luglio 2013.

[4]Jürgen Habermas (2013), trad. it. di W. Privitera, Vi spiego perché la sinistra anti-Europa sbaglia, in «Reset», settembre 2013.

[5]Sergio Pistone, The Debate in Germany on Democracy and European Unification: a Comparison of the Positions of Habermas and Streeck, in “The Federalist”, LV, 2013, pp. 126-135.

[6]Michele Salvati, La crisi rinviata del capitalismo democratico, in “il Mulino”, 6, novembre-dicembre 2013, pp. 902-1000.

[7]Antonio Padoa-Schioppa, Una struttura costituzionale per l’Europa, in “il Mulino”, 6, novembre-dicembre 2013, pp. 1001-1009.

[8]Stefano Rodotà, Il pensiero debole dell’Europa che si accontenta, in “la Repubblica”, 10 gennaio 2014, pp. 1, 28.

[9]Gianfranco Sabattini, La difficile convivenza tra democrazia e capitalismo, in “Avanti!”, 22 settembre 2013; Palano Damilano, Lo Stato sociale ucciso dalle tasse?, in “Avvenire”, 13 novembre 2013.

[10]Wolfgang Streeck (2013), trad. it. di B. Anceschi, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.

[11] Benedetto Vecchi, Le élite rapaci dello stato debitore, in “Il Manifesto”, 6 agosto 2013; Massimiliano Guareschi, La rivincita del rentier, in “Il Manifesto”, 6 agosto 2013.

[12]Jürgen Habermas (2011), trad. it. di C. Mainoldi, La crisi dell’Unione Europea alla luce di una costituzionalizzazione del diritto internazionale. Saggio sulla costituzione dell’Europa, in Id., Questa Europa è in crisi, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 43-94.

[13]Jens Beckert, Wolfgang Streeck, Die nächste Stufe der Krise, in “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 20 agosto 2011, p. 29.

[14]Jürgen Habermas, Euro-Krise: Rettet die Würde der Demokratie, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 4 novembre 2011.

[15]Wolfgang Streeck, The Crises of Democratic Capitalism, in “New Left Review”, 71, settembre-ottobre 2011, pp. 5-29.

[16]Jürgen Habermas (1973), trad. it. di G. Backhaus, La crisi di razionalità nel capitalismo maturo, Bari, Laterza, 1975.

[17]Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, cit., pp. 78, 205-209.

[18]Jürgen Habermas (2013), trad. it. di P. Foglizzo, Democrazia, solidarietà e la crisi europea, in “Aggiornamenti Sociali”, LXV, 1, 2014, p. 22 (18-30).

[19]Jürgen Habermas, Vi spiego perché la sinistra anti-Europa sbaglia, cit.

[20]Albrecht von Lucke (2013), trad. it. di A. Varta, I partiti tedeschi e la crisi dell’euro, in “il Mulino”, 4, luglio-agosto 2013, pp. 668-674.

[21]Jürgen Habermas (1999), trad. it. di L. Ceppa, Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione, in Id., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 103-123.

[22]Paolo Lepri, Germania? Discorso al Conclave della Spd, in “Corriere della Sera”, 5 febbraio 2014, p. 2. Il discorso di Habermas è stato pubblicato con il titolo Für ein starkes Europa – aber was heißt das?, in “Blätter für deutsche und internationale Politik”, 3, 2014, pp. 85-94; trad. it. parz, La nuova Europa in quattro mosse, in “la Repubblica”, 7 febbraio 2014, pp. 1, 34.

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