«Ma il conflitto è più di natura politico-economica che religiosa»
Massimo Campanini intervistato da Ernesto Pagano 10 January 2011

Il governo egiziano si è affrettato a ricondurre l’attentato di Alessandria a una matrice straniera. Tuttavia, soltanto a novembre ci sono stati feroci scontri tra copti e forze di sicurezza per il blocco della costruzione di una chiesa nel governatorato di Giza. Quali sono le responsabilità del governo egiziano nell’alimentare le tensioni tra copti e musulmani?

Non credo vi siano responsabilità dirette del governo egiziano nell’alimentare le tensioni tra copti e musulmani. L’unità nazionale, che non può non fondarsi sull’armonia tra maggioranza e minoranza religiose, è una garanzia per la stessa sopravvivenza del regime. Piuttosto può essere vero che i servizi di sicurezza abbiano sottovalutato (ancora, non credo volutamente ignorato) segnali e indizi che potevano condurre a prevenire l’attentato di Alessandria. La percezione dei copti che il governo sia pregiudizialmente schierato contro di loro è probabile sia una distorsione provocata dallo stesso sentimento di frustrazione, isolamento e, si può dire, “persecuzione” che i cristiani d’Egitto provano nei confronti della maggioranza musulmana.

L’attentato di capodanno minaccia la stabilità del governo egiziano o, paradossalmente, la rafforza?

Entrambe le cose. Da una parte, può rappresentare una minaccia in quanto rischia di attizzare una guerra civile religiosa che potrebbe sfuggire al controllo delle forze dell’ordine e di sicurezza. Dall’altra parte, può offrire il destro per inasprire le misure di coercizione pubblica che rappresentano uno degli ostacoli maggiori per il cammino dell’Egitto verso una piena democrazia. Tengo a sottolineare che, a mio parere, gli organizzatori dell’attentato di Alessandria, siano essi egiziani o “esterni”, avevano come obiettivo la destabilizzazione del regime egiziano attraverso l’alimentazione di annosi contrasti ammantati di religione che, appunto, potrebbero al limite trasformarsi in una guerra civile. I toni della comunità copta sono, comprensibilmente, molto alti e tesi: non vorrei però che i responsabili della chiesa copta si lascino attirare nella trappola tesa dai terroristi, siano essi affiliati della fantomatica al-Qa’ida o esponenti di correnti radicali endogene.

La bandiera della rivoluzione egiziana del 1919 contro la dominazione britannica portava una mezzaluna islamica accanto a una croce cristiana. Quali erano i rapporti tra le due comunità? Quali fattori hanno influenzato l’evoluzione di questi rapporti?

In primo luogo, dal punto di vista sociale e comportamentale, degli usi e delle abitudini, non esistono differenze sostanziali tra cristiani e musulmani. Valori e costumanze fanno parte dell’unica identità egiziana che accomuna i fedeli di diverse confessioni religiose. Ciò induce a credere che gli attuali contrasti tra cristiani e musulmani siano surrettizi e determinati più da ragioni di tipo politico o economico o percettivo che di tipo religioso. L’accesso alle risorse, le opportunità di carriera e successo, la guerra simbolica delle chiese e delle moschee, la volontà di affermare, gli uni contro gli altri, la propria presunta superiorità culturale: sono tutti elementi che attizzano contrasti che vengono poi rivestiti di motivazioni religiose. Nel 1919, la rivoluzione fu condotta dal partito liberale Wafd (“delegazione”), che era un partito fondamentalmente laico e interconfessionale. L’obiettivo del Wafd era quello di liberare l’Egitto dal controllo coloniale britannico e a questo fine copti e musulmani convergevano. Le strade delle due comunità si sono divaricate a partire dagli anni Settanta del Novecento quando l’estremismo musulmano da un lato e l’estremismo copto dall’altro (il papa Shenuda III, negli anni Settanta, stimolò un attivismo rivendicativo copto che condusse anche a prese di posizione molto aspre contro l’Islam) vennero inevitabilmente a confliggere. Certo, in questi conflitti sono individuabili anche motivazioni strettamente religiose, ma le rivendicazioni copte erano (e sono) per lo più motivate dalla convinzione di subire discriminazioni di tipo economico e politico.

Parlando invece di Iraq: al di là degli attentati degli ultimi mesi contro i cristiani, il nuovo assetto politico-istituzionale del paese tutela o mette ulteriormente a rischio le minoranze religiose?

Credo che la situazione politica irachena, estremamente fragile e instabile, non costituisca una garanzia di protezione delle minoranze religiose. Non perché i governi in sé siano insensibili al problema delle minoranze (e basta pensare all’atteggiamento dei curdi e verso i curdi), ma perché essi non sono in grado di tenere pienamente sotto controllo la sicurezza del paese. In questo quadro, quelle frange estremiste che combattono, per esempio, i cristiani, considerandoli miscredenti (ma vi sono sunniti che combattono sciiti e sciiti che combattono sunniti, sempre sulla base di reciproche accuse di miscredenza), hanno comunque facoltà di approfittare delle debolezze strutturali dello stato iracheno per mettere in pratica i loro disegni.

Se si esclude il Libano, gli altri stati del Vicino Oriente sono stati fondati sulla base di un’identità nazionale laica, piuttosto che su base confessionale. Oggi, invece, in paesi come l’Egitto e l’Iraq le divisioni confessionali sembrano emergere… Se la considerazione è corretta, ci dà qualche elemento per capire questa evoluzione?

Può essere forse semplificativo, ma sono convinto che tutto abbia una radice nella sconfitta degli ideali secolari e panarabi, fondati sul nazionalismo e il socialismo, su cui si erano costruite le entità statali mediorientali nell’epoca della decolonizzazione (soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta). Il simbolo di questa evoluzione è stato il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1956-1970). Nasser ha incarnato, nella teoria e nella prassi, gli ideali di nazionalismo, socialismo, panarabismo, gestione laica del potere, pur nel quadro etico di riferimento islamico, su cui si sono rette le indipendenze e il cammino verso la modernità di parte cospicua degli stati arabi e mediorientali. Quando il nasserismo è stato pesantemente sconfitto, o addirittura annientato, nella guerra dei Sei Giorni (giugno 1967), vinta da Israele sugli arabi, la devoluzione del secolarismo, del nazionalismo e del panarabismo ha lasciato spazio a un ritorno in forze dell’Islam. Fattori sociali ed economici, ma anche intellettuali e ideali, hanno poi condotto a una radicalizzazione di talune correnti islamiste, fino alla scelta della lotta armata di frange comunque minoritarie dell’islamismo. Così si sono inasprite anche le divisioni confessionali interne a paesi (come l’Iraq in parte ma soprattutto l’Egitto) in cui era presente una consistente minoranza cristiana. I regimi attuali dei paesi arabi, pur essendo formalmente laici nella maggioranza dei casi, non sono stati immuni dal ritorno all’Islam che ha pervaso prima le società che le istituzioni.

A fronte dell’emigrazione di molti cristiani del Medio Oriente a seguito delle violenze, dall’Asia e dall’Africa arrivano milioni di nuovi fedeli – molti di loro cattolici – spesso a lavorare nel Golfo e in Arabia Saudita. Quali effetti ha (o avrà)  questa presenza sugli equilibri sociali e politici della regione?

Ritengo che si tratterà di un influsso tutto sommato trascurabile. Da una parte, gli immigrati, che cercano soprattutto lavoro e benessere economico, non hanno alcuna convenienza a enfatizzare la propria appartenenza religiosa. D’altra parte, essi rimarranno comunque minoranza in una regione in cui, come ho detto, si testimonia un diffondersi della coscienza islamica che non sembra dover cessare in un prossimo futuro.

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