Sudan, l’economia a picco tra arresti e proteste
Salma El-Wardany, intervistata da Azzurra Meringolo 11 July 2012

A peggiorare le condizioni economiche sono state le perdite di entrate petrolifere registrate dopo la secessione del Sud Sudan nel luglio 2011. Da allora Khartoum deve infatti rinunciare a circa 350.000 barili al giorno, tre quarti della vecchia produzione petrolifera concentrata soprattutto nel Sud. Le recenti rivolte sono nate all’interno dei dormitori femminili dell’università della capitale e da lì si sono estese nelle strade del centro. Per contenere centinaia di manifestanti che cantavano slogan anti regime, le forze dell’ordine hanno usato lacrimogeni e manganelli. A completare il quadro, l’ennesimo giro di vite della polizia sui giornalisti che cercano di coprire gli eventi.

“Stavo aspettando che gli studenti uscissero dalle loro aule per iniziare a manifestare quando la polizia mi ha bloccato. Ero in taxi con una collega, non stavamo facendo niente, aspettavamo di vedere cosa accadeva” racconta Salma El-Wardany, una giornalista egiziana che il 21 giugno è stata arrestata davanti all’università di Khartoum. “Lavoravo in Sudan da un anno e le autorità locali mi hanno interrogato per cinque ore dicendomi che potevo rimanere in Sudan a patto che smettessi di coprire le manifestazioni. Mi hanno detto che per questioni di sicurezza avevano ricevuto ordini di impedire ai giornalisti di coprire le rivolte e per questo mi hanno ritirato il permesso da reporter. Ovviamente non ho accettato le loro condizioni e il 26 le autorità mi hanno rimpatriato con la forza. Ufficialmente mi hanno convocato per chiarire alcune questioni relative alla mia carta da giornalista, ma poco dopo ho saputo di essere in arresto. Mi hanno portato a casa costringendomi a prendere le mie cose di fretta prima di accompagnarmi in aeroporto.”

Quali sono le motivazioni che hanno causato le rivolte?

Sono molteplici. Dopo la secessione del Sud le condizioni economiche del nord sono peggiorate. Khartoum ha perso molte risorse e inflazione e disoccupazione continuano a crescere. Il regime non riesce a contenerle e per risolvere i suoi problemi economici alza i prezzi. Inoltre i manifestanti sono stanchi del regime corrotto e autoritario che emargina coloro che non fanno parte della stretta cerchia dirigente. Lo scontento è forte e i nuovi provvedimenti del governo hanno dato alla popolazione una nuova ragione per ribellarsi perché nessuno potrà sopportare queste misure. Il prezzo della benzina è raddoppiato da un giorno all’altro.

Dopo aver vissuto la rivoluzione egiziana, pensa che sia vicina una primavera sudanese?

I numeri sono molto diversi da quelli egiziani. Non c’è così tanta gente per strada. Per alcuni aspetti però penso che in Sudan sia arrivato il vento delle primavere arabe. Anche qui i protagonisti sono giovani, donne e uomini, con un buon livello di istruzione. Quelli che ho visto per strada sono ragazzi che, come gli egiziani, sono determinati ad andare avanti fino a quando non otterranno quello che vorranno perché questa è l’unica cosa che possono fare per garantirsi un futuro. A organizzare le manifestazioni è un unione di studenti che si è formata prima delle “elezioni” presidenziali del 2010 con l’obiettivo di diffondere consapevolezza tra i sudanesi e screditare Bashir. Questi sono stati per anni perseguitati dall’apparato di sicurezza del regime. Oltre a questa unione c’è Sharara, un movimento giovanile per il cambiamento. Come in Egitto, questi gruppi prendono le distanze dagli storici partiti di opposizione spesso accusati di essere collusi con il regime. Certo il Sudan ha condizioni economiche di partenza molto diverse da quelle egiziane. È un paese molto meno sviluppato, ma ci sono così tanti motivi che spingono i cittadini a ribellarsi che difficilmente quanto è scoppiato potrà arrestarsi. Il regime sudanese è molto debole. Non ha una dottrina come quello siriano. Penso che possa crollare molto prima di quello che ci immaginiamo.

Oltre alle proprie questioni interne, Khartoum deve ancora risolvere problemi legati alla secessione del Sud. Quali sono i punti ancora sospesi?

Molti. Tracciando la linea di separazione tra i due paesi, alcune comunità sud sudanesi sono rimaste nel nord e queste stanno facendo il possibile per tornare in patria, ma devono affrontare molti problemi. Il primo è il viaggio di ritorno che è costoso. Ad oggi, ad aspettare un autobus per il Sud sono circa settecento mila persone che non sanno neanche bene chi e che cosa troveranno ad accoglierli. Le Nazioni Unite possono pagare i biglietti aerei ai rifugiati che vogliono tornare in patria, ma molti preferiscono un viaggio via terra che permette di trasportare le cose che hanno in casa, dai vestiti agli elettrodomestici. Ci sono poi problemi da risolvere con gruppi di ribelli che, ancora nel nord, vogliono separarsi. Infine ci sono territori il cui stato non è ancora chiaro. Abey, che galleggia sul bacino petrolifero di Muglad, fa parte allo stesso tempo del Nord e del Sud. Come distretto del Kordofan meridionale dovrebbe scegliere tramite referendum con chi stare, ma ancora niente è stato deciso. Lo stesso problema coinvolge lo stato del Blue Nile, ricco di energia idroelettrica. Le consultazioni popolari che dovevano determinare il futuro costituzionale della regione sono state rimandate sine die.

Immagine: Omar el Bashir, Wikimedia commons

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