Suad Amiry: “L’ironia ci salverà dalla guerra”
La scrittrice palestinese intervistata da Alessandra Cardinale 23 October 2007

A cosa si riferisce il titolo del suo nuovo libro “Niente sesso in città”?

Il titolo ha diversi livelli di lettura. Il primo si riferisce alla storia di dieci donne palestinesi, quasi tutte in menopausa, che si incontrano una volta alla settimana in un ristorante a Ramallah e discutono, come spesso succede tra donne, di sesso e uomini. Il secondo livello si riferisce alla nascita e alla storia del OLP (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, fondata nel 1964, ndr) che è anche la nostra storia politica personale. E come alcune di noi sono entrate in menopausa anche l’OLP, in un certo senso, è in menopausa. La Palestina si trova in un momento molto difficile perché il più importante partito politico, Fatah, ha perso potere. Infine, ho voluto richiamare il titolo del celebre serial americano “Sex in the city”, che da queste parti, come anche in Giordania, è molto seguito.

Nella prefazione del suo libro, scrive che alcuni occidentali spesso le dicono “Tu non assomigli per niente alla tipica donna araba”. Poi aggiunge che “i paesi occidentali sono i luoghi perfetti in cui nascono stereotipi”.

Sa quanti mi chiedono: “Ma a Ramallah ci sono ristoranti? E’ vero che le donne possono andare in giro per le strade? Avete la televisione?”. A dir la verità non riesco a biasimare queste persone. Ma è chiaro che utilizzare stereotipi è un problema serio e politico. “Niente sesso in città”, nasce da una mia forte esigenza quantomeno di tentare di rovesciare certi luoghi comuni. Ragionare per stereotipi vuol dire raccontare come si percepisce una tal persona o una situazione e non come la persona è realmente. Soprattutto in seguito all’11 settembre 2001, il governo americano e quello israeliano, nel definire il popolo palestinese, hanno molto spesso utilizzato le seguenti espressioni: terroristi, assassini, persone malvagie. A questo punto si è creata una profonda rottura. Nel momento in cui gli altri non ammettono la vera identità dei palestinesi, degli arabi e dei musulmani, si assiste ad un processo di radicalizzazione che nasce dalla sensazione di essere minacciati perché non riconosciuti.

Nel suo libro c’è una pagina bianca dedicata ad una sua amica israeliana. Scrive: “La sua vita, per quanto mi riguarda, non ha mai avuto luogo”. Perché ha fatto questa scelta? Non teme che qualcuno, leggendola, possa pensare che lei è anti-israeliana?

In effetti ho notato che una pagina bianca suscita più interesse di tante parole. Così ho deciso che il mio prossimo libro sarà di 200 pagine bianche! Ovviamente sto scherzando. So benissimo che si tratta di una frase forte. La ragione di questa scelta risiede nel fatto che di Judy e del suo lavoro nell’organizzazione pacifista “Woman in black” (fondata da donne israeliane nel 1988 dopo lo scoppio della prima Intifada, ndr) parlo positivamente nell’introduzione. Lei è una mia vecchia amica e una delle nostre “amiche in menopausa”. Dunque pensavo di aver fatto chiarezza dicendo all’inizio del libro che facevo questo di proposito perché molti israeliani negano l’esistenza di 3 milioni e mezzo di palestinesi. Poi, mi sono accorta che le persone sono rimaste a dir poco scioccate. Io non ho nulla da rimproverarmi e mi sento tranquilla: ho molte amici israeliani e proprio a Judy ho dedicato l’edizione in ebraico del mio primo libro “Sharon e mia suocera”. Sarò franca. Molto spesso penso che gli europei hanno con Israele un rapporto molto complesso. Noi – israeliani e palestinesi – spesso capiamo questa complessità meglio degli europei. Il punto è che la vostra storia con Israele passa attraverso l’Olocausto. La nostra no.

Suad, nel libro ha inventato i nomi delle sue amiche per proteggere la loro privacy. In Palestina e, in generale, nel mondo arabo, il sesso è un tabù ora più che in passato?

Penso che il sesso sia un tabù più ora. Dagli anni ‘70 ad oggi abbiamo assistito, in Medio Oriente, ad una graduale crescita del fondamentalismo islamico, ma anche di quello cristiano ed ebraico. Si registra una tendenza a creare una società sempre più religiosa in cui la connessione tra religione e conservatorismo sociale colpisce, soprattutto, le donne. La religione influenza spesso i comportamenti sessuali e questo succede anche in Palestina e nel mondo arabo. Negli anni ‘60 e ‘70, eravamo giovani studentesse all’Università americana di Beirut e molte di noi avevano abbandonato le proprie famiglie perché ci impedivano di fare politica attivamente. C’era un’apertura sociale che ti faceva sentire pare integrante di un mondo che stava, all’epoca lottando per la conquista della libertà. Le generazioni di oggi, purtroppo, non conoscono questa sensazione. Penso, in generale, che la sinistra, i socialisti, tutte le persone progressiste, non siano riuscite e non riescono tuttora a comunicare con i ragazzi. Gli unici che si rivolgono ai giovani sono i fondamentalisti. Negli anni ‘70 ci sentivamo parte del popolo arabo, invece ora le nuove generazioni sono come ingabbiate e prigioniere. Basta guardare cosa sta succedendo a Gaza: più una società si isola più rischia di diventare una realtà conservatrice.

Viaggiando in Cisgiordania è facile incontrare ragazzi di 14 anni, o anche meno, che leggono giornali e discutono appassionatamente di politica nei bar. In Palestina, come in Israele, i giovani sembrano seriamente interessati alla politica, mentre in Occidente, sempre più spesso, le nuove generazioni ne sono annoiate.

La politica è la nostra vita. Questo è vero. Ma ora non c’è più una leadership, l’OLP non si rivolge più alla popolazione. Quando io ero giovane c’erano molti partiti e movimenti: Fatah, il Fronte Democratico, il partito Comunista, il Fronte Popolare, e ti tempestavano di discussioni e dibattiti sugli argomenti più disparati: la soluzione di uno o due stati, essere pro o contro la guerra, il contrabbando di armi, la liberazione sociale, il ruolo delle donne che, non bisogna dimenticare, all’epoca avevano un ruolo determinante soprattutto nel Fronte democratico e in quello popolare. Venivano avvicinati e condotti per mano nel vivo della politica. Ora noto, grazie anche al mio lavoro di professoressa all’Università, che i giovani non hanno interlocutori. Gli unici che parlano con loro sono i membri di Hamas. Dobbiamo ammettere questo: Hamas, ad oggi, è l’unica vera organizzazione popolare in Palestina.

Ma Hamas è considerata dagli Usa e dall’Ue un’organizzazione terroristica. Non è un interlocutore affidabile. Cosa ne pensa?

Personalmente Hamas non mi piace, ma sono gli unici che si rivolgono direttamente alla popolazione…e francamente, a questo punto, penso che dovremmo dar loro la possibilità di governare. Facciamoli governare così finalmente le persone si renderanno conto di quanto siano irrealistiche le loro politiche. Certo, sono molto bravi ad aprire asili nido, ma questo è molto diverso dall’essere seriamente responsabili dell’economia di un paese o dal risolvere il problema della disoccupazione. Si, ad Hamas dovremmo dare questa opportunità…per fallire.

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