Streeck replica, e la polemica continua
L. C. 9 April 2014

Il compito di questa breve presentazione è di “venire in dialogo con il testo” di Streeck, cercando di colmare lo iato tra la risposta e la domanda originaria che l’interpretazione di Habermas aveva inteso porre a coloro che, volendo dismettere tour court l’unione economica e monetaria, finiscono per far naufragare il progetto di integrazione politica e culturale che animò i padri fondatori.

Streeck lamenta la “leggerezza” con cui molti recensori hanno accolto, “come slogan”, l’“argomento-assassino” [Totschlagargument] dell’“opzione nostalgica”, che ha offerto la chiave interpretativa della sua ultima opera e il pretesto per la propria cacciata dal consesso dei “guardiani del sacro Graal”. Ora, pur riconoscendo che nelle tesi dell’autore di Gekaufte Zeit [4] non vi è traccia dei germi nazionalistici che – come rimarcava Altiero Spinelli – «avevano provocato il disastro delle due guerre mondiali» [5], la critica habermasiana coglie però nel segno la cecità velleitaria di una proposta che finisce per rievocare il sistema del “concerto europeo” tra Stati nazionali ormai impotenti. Possiamo fare meno della “professione di europeismo” che, secondo Streeck, sarebbe richiesta in via preliminare per parlare di politica europea nella sfera pubblica tedesca, ma non di una critica che sia costruttiva e non disfattista. Come dobbiamo interpretare, se non in maniera pre-politica, la “correzione” in cui il sociologo tedesco si «rivela anche al profano come cittadino entusiasta […] di un’Europa dei popoli che fa la sua strada ed in parte si trova già nel mondo»? Un’Europa, egli scrive, «intesa come società mista, unica e sovranazionale, i cui membri combinano in modo sorprendente le differenze tra di loro realmente esistenti invece di rinnegarle o reprimerle. Delle persone che hanno imparato ad accordare e completare le loro identità e continuano a svilupparle». Siamo, certamente, compiaciuti della convivenza tra diverse visioni del mondo, forme di appartenenza e identità soggettive che crescono pacificamente insieme, scaturendo da «un proprio passato che però non è disconosciuto agli altri» o «da una combinazione di passati in cui, oggi – dopo la fine delle guerre territoriali dell’Europa occidentale –, possiamo riconoscere, rispettare e collegare nella vita e nel lavoro le diverse e particolari espressioni di una generale conditio europaea se non humana». Tuttavia, la costruzione di spazio di socialità, in cui Streeck dichiara di sentirsi “felicemente a casa”, non è separabile, anzi dipende, dall’architettura politico-istituzionale che Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Jean Monnet e gli altri padri costituenti immaginarono di erigere per inaridire le sorgenti del nazionalismo più virulento. Un progetto che rappresenta, oggi, l’unica possibilità credibile per fare fronte comune contro le conseguenze indesiderate di una globalizzazione che dischiude alle popolazioni europee sorprendenti opportunità ma altrettanti fattori di rischio.

Non vi è dubbio, come sottolinea Habermas, che la realizzazione del progetto europeo sia l’unica soluzione alla perdita di sovranità di un ordinamento statuale che, non senza conflitti, ha costituzionalizzato quei diritti civili, politici, sociali e culturali che Streeck intende difendere dal­l’“avanzata del neoliberalismo organizzato in modo sovranazionale”. Se non vi è alcun margine di “opposizione” al di fuori dell’Unione europea, ma forse sarebbe meglio parlare di regolamentazione di rapporti sociali, va anche detto che tale finalità non può compiersi al di fuori del tracciato pattizio sinora costruito, che non deve essere abbandonato ma riformato: da un lato, bilanciando le politiche di rigore nella tenuta dei bilanci pubblici con quelle della crescita economica e coesione sociale, dall’altro lato, rafforzando le procedure democratiche da cui deriva la legittimità delle istituzioni comunitarie [6]. Si deve criticare la politica dei “piccoli passi” perseguita sinora, sopra la testa dei cittadini, dalla Commissione europea e dal Consiglio Europeo, ma l’integrazione è giunta a un punto di non ritorno: se alle votazioni del 22-25 maggio dovesse affermarsi una maggioranza favorevole all’abbandono della moneta unica, si innesterà una reazione a catena che arresterà l’intero processo. Vale ancora l’alternativa che Habermas aveva descritto nel settembre 2012: «Danneggiare, con l’abbandono della valuta comune, il progetto di Unione europea concepito dopo la guerra o portare tanto avanti l’unione politica – soprattutto nell’euro-zona – da poter legittimare democraticamente trasferimenti di competenze al di là delle frontiere nazionali? Non si può evitare una cosa senza volere l’altra» [7].

Condividere questa previsione – che in Germania accomuna tutte le forze della Große Koalition [8] – non significa essere “patrioti dell’euro”, il nuovo “totem” e “forma sostitutiva del patriottismo costituzionale”, ma avvertire l’urgenza di un completamento dell’unione monetaria che acceleri il programma di riforme presentato dalla Commissione nel novembre 2012 [9].

Il saggio di Streeck è quasi interamente votato a dimostrare che, di fronte alla crisi mondiale, la moneta unica è stata un fattore di accrescimento degli squilibri strutturali tra le economie dei Paesi del Nord (principalmente la Germania) e dei Paesi mediterranei (l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia), che provocano «danni incalcolabili alla convivenza pacifica dei popoli europei».

Diversamente da quanto previsto dai suoi fondatori l’unione monetaria sarebbe tutto fuorché il veicolo per una solidarietà più stretta tra le popolazioni del continente europeo, le quali manifestano una reciproca avversione che alimenta gli stereotipi nazionali e il ritorno di appartenenze nazionalistiche. Nei confronti dei Paesi dell’Europa meridionale, che i giornalisti anglosassoni indicano spesso in modo dispregiativo con l’acronimo “PIGS”, si torna a parlare di popolazioni incapaci e irresponsabili, facendo riferimento ai valori disastrosi degli indici socio-economici (occupazione, efficienza amministrativa corruzione, produttività, crescita del PIL, innovazione, debito pubblico, etc.). Ma i vecchi cliché, ritenuti dimenticati, colpiscono soprattutto i tedeschi, che «devono constatare con orrore come l’unione monetaria che gli veniva propinata dai governi – non importa di quale colore – come la chiave di volta della loro “occidentalizzazione”, ora li renda sempre più isolati dai loro vicini di casa». Tanto più sorprendente, a giudizio di Streeck, è il tentativo compatto dei partiti politici di maggioranza e opposizione, sostenuti dalle associazioni industriali e dai sindacati, di innalzare «il mantenimento dell’unione monetaria a sacro interesse nazionale […] accompagnato dalle promesse più o meno esplicite che il nuovo isolamento tedesco giungerà a termine quando “noi” avremo salvato gli altri con dei programmi di crescita, gli Euro-bonds, il finanziamento di provvedimenti contro la disoccupazione giovanile e cose simili».

Questa “grande illusione” crollerà non appena i cittadini di tutti gli stati della zona euro si accorgeranno che non siamo alle prese con «una crisi eccezionale e temporanea, nata dalla convergenza di eventi sfortunati» bensì con le contraddizioni di un’integrazione tra «economie pubbliche con differenze strutturali e funzionali significative, costrette a stare insieme nell’unione monetaria». Di più, queste difformità nei sistemi sociali, «su cui la politica può intervenire molto limitatamente nel breve periodo», sarebbero espressione di «modi di vita collettivi» che distinguerebbero le popolazioni del Nord Europa da quelle del Sud.

Richiamando le analisi di Fritz W. Scharpf e Martin S. Feldstein [10], Streeck ritiene che, pur avendo beneficiato della diminuzione dei tassi di interessi, oggi, i Paesi mediterranei non vivrebbero “altrettanto bene” sotto il controllo dei vincoli di bilancio richiesti dall’“ordine monetario unitario”. Per questi Stati, l’unione monetaria viene descritta come un «programma di convergenza feroce [rabiates Konvergenzprogramm] che costringe le parti del nostro continente non ancora razionalizzate dal mercato – e la cui “sussunzione” sotto la logica competitiva dell’accumulazione del capitale è ancora in corso – ad adattarsi, pena il loro progressivo impoverimento, e mettersi sulla strada delle cosiddette riforme strutturali, dalla parte dei rassegnati perdenti, necessariamente sacrificati per il progresso dell’economia globale di mercato». Streeck considera come caso di studio le politiche recenti adottate in Italia, a partire dal governo Monti, la cui fede nella “monocultura capitalistica” della logica dei mercati era pari solo all’adesione al “modello tedesco” dell’austerity. Più in generale, le politiche di rigore e l’ingresso nell’unione monetaria avrebbero penalizzato gli Stati meridionali, strutturalmente meno competitivi, perché non possono più far leva sulle svalutazioni monetarie, che in passato avevano ampiamente impiegato per rendere concorrenziali le proprie merci nei mercati esteri. Di conseguenza, essi sono costretti a ricorrere a una “svalutazione interna”, abbassando i costi dei salari, i rendimenti delle pensioni e la spesa pubblica, e, nel lungo periodo, ad adeguare ogni politica ai dettami dell’economia globale. La perdita di sovranità espone i governi, la cui legittimità dipende dal voto popolare, all’accusa di essere asserviti agli interessi stranieri e favorisce la nascita di movimenti populistici che radicalizzano la salvaguardia nazionale. Streeck propone una similitudine con la crisi dei regimi democratici nel periodo tra le due guerre, ricostruita analiticamente da Karl Polanyi [11].

Per contro, secondo il direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschafts­forschung di Colonia, l’Unione monetaria ha prodotto grandi benefici per la Germania, che, pur rischiando la stabilità della valuta forte e l’egemonia della Deutsche Bank, ha imposto ai concorrenti degli altri Stati membri condizioni favorevoli all’esportazione dei prodotti dell’industria manifatturiera. Le riforme strutturali avviate nel 2003 dal governo rosso-verde di Schröder – l’“Agenda 2010” – hanno certo risanato un Paese che veniva considerato il grande “malato” d’Europa, afflitto da bassa inflazione e alti tassi di interesse, crescita debole e disoccupazione elevata, e ancor più profondamente prodotto un cambio di mentalità nelle forze sociali, protese verso la frontiere dell’innovazione, combinando sicurezza sociale e flessibilità lavorativa. A giudizio di Streeck, tuttavia, la vera svolta per il “capitalismo renano” coincide con il crollo delle economie mediterranee, che la crisi mondiale ha innescato e le successive politiche di rigore e consolidamento dei debiti hanno reso costitutiva. La dimensione della loro crisi è però così ampia che il governo tedesco, scontentando l’elettorato, sarebbe disponibile a rivedere l’opzione di non-salvataggio, allungando la catena alla Banca Europea di Draghi, ma richiedendo, per contro, un surplus di riforme strutturali e clausole di salvaguardia, una condizione che, secondo Streeck, i Paesi del Sud non possono assicurare. Allora le compensazioni che i Paesi del Nord dovranno necessariamente elargire a quelli mediterranei affosseranno la “solidarietà intraeuropea”, «se non delle élites, certo degli elettori che dovranno pagare il conto. Anche se si è decisamente a favore che i ricchi dividano con i meno fortunati, non li si può biasimare del tutto». E, comunque, «dovremmo risparmiare ai Paesi del mediterraneo, per ulteriori decenni, le esperienze greche o spagnole sotto la sovraintendenza tedesca».

Il conflitto di interessi tra il Nord e il Sud dell’Europa sarebbe, quindi, assoluto e determinato dalla comune adesione a un’unione monetaria “forzata” che divide gli uni dagli altri gli Stati nazionali di prima e seconda classe e rischia di minare l’intero progetto di “pacificazione” tra i popoli europei; un obiettivo ben diverso dall’integrazione economica e politica degli Stati e dalla formazione di una cittadinanza europea sostenute da Jürgen Habermas.

La replica di Streeck si concentra sul processo di integrazione ponendo un interrogativo provocatorio: «Come può accadere che qualcuno, come Jürgen Habermas, ci consigli di rimanere attaccati a una tale mostruosa costruzione, a cui anche i suoi partigiani economici danno una possibilità di sopravvivenza solo attraverso delle “riforme” che la renderanno ancora più mostruosa?». La risposta mette in guardia il “visionario” sul reale trasferimento di poteri a livello sovranazionale che, lungi dal procedere verso una democratizzazione delle istituzioni, è governato dalla troika e dagli amici finanzieri e industriali. Che cosa avrebbero da guadagnare i popoli europei se il rapporto tra politica ed economia, democrazia e capitalismo, rimanesse quello degli ultimi decenni? Stante tale organizzazione, anche «una “democrazia europea”, con il parlamento, il governo, la sfera pubblica e qualsiasi altra cosa, non sarebbe altro che un altro strato di argilla postdemocratica imposta dall’alto a uno stato post-nazionale».

I “fatti triviali se non ripugnanti”, che egli ha esposto in Gekaufte Zeit – e contro cui si allea una retorica che ci chiede di “rinunciare al passero in mano per avere il piccione sul tetto” –, dimostrerebbero che stiamo realizzando solo un mercato comune in cui le dimensioni politiche e sociali sono “evitate come la peste”. Come altri intellettuali che “ignorano i fatti che confutano la loro visione”, Habermas spera in una soluzione europea della crisi attraverso una svolta democratica che, però, richiederebbe «un salto fuori dalla storia degli ultimi tre decenni, che sconvolga in modo fondamentale le istituzioni sovranazionali». Da un lato, secondo Streeck, non vi è alcuna possibilità che le attuali istituzioni europee decidano un tale “rivoluzionamento” dello status quo; dall’altro lato, il tentativo di Habermas di ascrivere alla politica tedesca un interesse nazionale alla democratizzazione europea sarebbe illusorio, «tenendo conto che egli presume che la Germania la possa imporre, laddove essa trovasse la volontà di perseguire una politica illuminata che tenga a bada i suoi interessi». Streeck non crede che i cittadini tedeschi abbiano bisogno dell’euro e che, quindi, non possano più tornare indietro rispetto a un’unificazione monetaria che non controllano completamente e finirà per costargli più di quanto renda. Per evitare le ritorsioni elettorali, che già colpirono Schröder per le “riforme neoliberali”, «un governo che volesse seriamente passare dalla democrazia nazionale a quella europea dovrebbe al più tardi fra quattro anni aver raggiunto il traguardo e avere sostituito anche le elezioni tedesche con quelle europee, se vogliamo che sia evitato o che rimanga senza conseguenze ciò che Habermas ha auspicato per la elezione del Bundestag il 22 settembre [2013]: e cioè un drammatico aumento di voti per i partiti come la Alternative für Deutschland».

A giudizio di Streeck, la proposta habermasiana “minimizza” il problema di un’integrazione che non conviene a nessuno degli Stati membri e che, «come è stata operata almeno da Jacques Delors in poi, […] da molto tempo, ha perso la possibilità di democratizzarsi». Invece di cercare una via d’uscita nel passaggio dal campanilismo delle “piccole patrie” al “grande statalismo” del­l’Unione europea, dovremmo «tentare di sfruttare la tipica frammentazione del­l’Europa come una risposta non centralizzata alla chiamata della globalizzazione». Nella “guerra lampo” avviata dalla “tecnocrazia” e “denarocrazia” contro i popoli europei, l’unica “linea di difesa” sarebbero, quindi, le istituzioni degli Stati nazionali, senza le quali «il progetto di economia politica democratica in Europa non sarebbe ancora così necessario, bensì già morto stecchito».

Se Tempo guadagnato è il manifesto della sinistra nostalgica “che dice no all’Europa” e si rivolge agli stati nazionali come «uniche posizioni da cui è possibile se non fermare almeno rallentare l’avanzata del Leviatano neoliberale e sovranazionale», tanti auguri per la direzione ostinata e contraria. Ma non ha torto Habermas, che diffida delle “fortezze” e cerca di costruire nuove vie alla speranza di combinare l’economia e la politica a favore del progresso dell’umanità.

Luca Corchia

Note

[1] Hans-George Gadamer (1960), trad. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000, 2a ed., p. 611.

[2] Wolfang Streeck, Vom DM-Nationalismus zum Euro-Patriotismus? Eine Replik auf Jürgen Habermas, in «Blätter für deutsche und internationale Politik», 9, 2013, pp. 75-92.

[3], Jürgen Habermas (2013), trad. it. di W. Privitera, Vi spiego perché la sinistra anti-Europa sbaglia, in «Reset», settembre 2013.

[4] Wolfgang Streeck (2013), trad. it. di B. Anceschi, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.

[5] Altiero Spinelli (1982), La sfida europea, in M. Mascia (a cura di), L’Università raccoglie la lezione dei Padri dell’Europa, Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli dell’Università degli Studi di Padova, Padova, 2007, p. 15 (12-27).

[6] Jürgen Habermas (2013), trad. it. di P. Foglizzo, Democrazia, solidarietà e la crisi europea, in «Aggiornamenti Sociali», 1, 2014, pp. 18-30.

[7] Jürgen Habermas (2012), trad. it. part. di C. Sandrelli, Un passo indietro dagli Stati nazionali, in «la Repubblica», 23.9.2012, pp. 1, 28.

[8] Angela Merkel, Scheitert der Euro, so scheitert Europa, Bundestag, Berlin, 26.10.2012.

[9] Commissione europea, Piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita. Avvio del dibattito europeo, COM(2012) 777 final/2, 28.11.2012.

[10] Fritz W. Scharpf, Mit dem Euro geht die Rechnung nicht auf, in «MaxPlanckForschung», 3, 2011, pp. 12-17; Id., Rettet Europa vor dem Euro, in «Berliner Republik», 2, 2012, pp. 52-61; Martin S. Feldstein, The Euro and European Economic Conditions, Working Paper 17617, National Bureau of Economic Research, Cambridge (Mass.), 2011, pp. 1-15.

[11] Karl Polanyi (1944), trad. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 20002, pp. 26-39.

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