Riforme, diritti umani e giustizia nella Tunisia di Ennahda
Francesca Bellino intervista Samir Dilou, Ministro tunisino dei Diritti Umani e della Giustizia di transizione 14 May 2012

Basta guardarsi intorno nel centre ville, sull’ormai famosa Avenue Bourguiba, dove si svolgono le principali manifestazioni e dove sono concentrati i caffè più popolari, affollati sin dalle prime ore del mattino. I volti della gente sono tesi, insicuri e perplessi. Uomini e donne si sentono ancora frustrati e pieni di lividi morali e per reazione fumano una sigaretta dopo l’altra. Il futuro del loro Paese non gli è chiaro e, benché il presente sia più dinamico del passato, non hanno alcuna intenzione di abbassare la guardia. Laici e salafiti, gente di destra e di sinistra, studenti, artisti e giornalisti si mescolano nelle strade nelle ore diurne dove si contagia adrenalina e voglia di confrontarsi, mentre appena cala il sole la città si svuota e sono le case a riempirsi di discussioni e voglia di costruire un futuro in cui la dignità, come madre dei diritti umani, sembra essere il cuore di ogni progetto.

La parola sahafia, giornalista in arabo, diventa per me un utile passepartout per evitare lunghe attese ed entrare facilmente nelle sale del ministero. Il ministro Samir Dilou, nato a Tunisi nel 1966, nel quartiere Lafayette, mi riceve nella sala degli incontri ufficiali e si mostra lieto di ascoltare il suono della lingua italiana.

«Durante la mia detenzione di 10 anni, 2 mesi e 8 giorni – precisa e racconta il ministro – ci era proibito vedere i canali francesi alla televisione, allora i carcerieri ci lasciavano la tv accesa sulla Rai perché pensavano che noi non capissimo la lingua e non potessimo ascoltare i Tg. In realtà la mia generazione è cresciuta con i programmi della Rai come “Pronto Raffaella” e inoltre mia figlia mi aveva fatto pervenire un libro d’italiano per studiare e trasmettere agli altri prigionieri le news. Pertanto io ho cominciato a capire la vostra lingua e ascoltavo le notizie ogni giorno. Lo facevo però dando le spalle alla televisione perché non se ne accorgessero…».

Samir Dilou è un avvocato. Ha studiato legge a Sousse e ha iniziato la sua attività politica nel 1984. Si è impegnato per difendere gli attivisti accusati di essere islamisti e per questo è stato arrestato nel 1991 e ha scontato la pena integralmente. Una volta uscito dal carcere si è unito al partito islamista Ennahda e, alle elezioni del 23 ottobre 2011, è stato eletto all’Assemblea Costituente per rappresentare il distretto elettorale di Bizerte e successivamente si è insediato come ministro.

Qualcuno di lui dice che sarà uno dei futuri leader di Ennahda in Tunisia.

Ministro, qual è la situazione dei diritti umani al momento in Tunisia?

È migliorata rispetto prima ma non è ancora all’altezza delle nostre attese. Direi, però, che il contrario sarebbe stato una grande sorpresa perché nei periodi di transizione gli attacchi contro di diritti umani non sono più una politica dell’apparato dello Stato, ma diventano atti individuali. Per mettere fine a questa deriva bisogna avere grande volontà, perseveranza e del tempo.

Su cosa state lavorando in questi mesi?

Abbiamo diversi problemi attualmente nel Paese. Sono a capo di una Commissione che indaga sulle torture formata da rappresentanti di diversi Ministeri e di diverse Associazioni della società civile. Senza anticipare i risultati, posso dire che non sarà facile mettere fine alla pratica della tortura perché mettere fine a una dittatura è difficile e complicato, ma dar vita a una democrazia che rispetti i diritti umani è ancora più difficile. Bisogna far rasserenare il clima giuridico e riformare le istituzioni per arrivare finalmente a cambiare le mentalità.

A che punto è la questione tanto discussa della Giustizia di transizione?

Si è scelto di portare avanti questo procedimento con spirito di concertazione e di dialogo, lontani dalla precipitazione e dalla fretta. Siamo forse il Ministero che ha fatto il più grande numero di riunioni con i rappresentanti della classe politica e con le Associazioni della società civile. Il 14 aprile abbiamo organizzato una conferenza nazionale per lanciare il dibattito sulla Giustizia di transizione e poco dopo abbiamo organizzato una giornata aperta per mettere in piedi un programma di concentrazione nazionale che si concluderà con la promulgazione in Parlamento di una legge organica sulla Giustizia di transizione. Per concretizzare la nostra visione, la promulgazione di questa legge non deve essere affidata soltanto all’Assemblea costituente, ma deve riflettere le attese di tutta la società, astrazione fatta per la maggioranza e per le diverse rappresentanze in seno al Parlamento. Stiamo dando ai nostri interlocutori l’esempio della Costituzione che secondo noi deve essere scritta con spirito di concertazione e di compromesso e non esclusivamente dalla maggioranza. Con lo stesso spirito, dunque, speriamo di promulgare la legge sulla Giustizia di transizione.

Non vi sembra, però, di procedere un po’ lentamente sia nella promulgazione della legge sulla Giustizia di transizione, sia nella realizzazione della nuova Costituzione?

Rispetto alla Costituzione posso dire che l’Assemblea sta lavorando ogni giorno. Anche se la gente non è a conoscenza di tutte le riunioni che vengono fatte, ci sono commissioni che lavorano continuamente. Per quello che concerne la Giustizia di transizione non è consigliato andare troppo in fretta. Altri esempi di Giustizia di transizione messi in atto velocemente, a ridosso di una rivoluzione, hanno fallito. Bisogna prendere un po’ di distanza, ritrovare la calma per lavorare con più tranquillità, con la testa più salda sulle spalle e lontani dalle pressioni.

Avete già preso iniziativa per i risarcimenti degli ex prigionieri dell’era Ben Alì?

Abbiamo preparato una proposta di legge con l’applicazione del decreto sull’amnistia generale che garantisce il risarcimento e la riabilitazione a tutti coloro che hanno beneficiato appunto dell’amnistia generale. Tra questi ci sono persone di ogni tendenza politica: di destra, di sinistra, islamisti. Fino ad ora abbiamo ricevuto più di 10 mila dossier.

Un tema caldo delle ultime settimane è la privatizzazione dei mass media. Qual è il suo punto di vista su questo dibattito?

È una questione che manca di serietà. Personalmente io non immagino un Paese senza media pubblici. Per noi la tv di Stato resta un simbolo di sovranità. La Tunisia di oggi, domani e dopo domani dovrà avere i suoi media pubblici.

Ennahda, però, sembra invece voler andare verso la privatizzazione…

I partiti politici sono liberi di dire la loro anche quando sono rappresentati nel Governo, ma il Governo ha i suoi metodi per esprimersi e gente che parla a suo nome.

Qual è la sua definizione di libertà?

La libertà è la cosa più importante al mondo quando la si perde, esattamente come la salute quando si è malati. Chiedete a un malato cos’è la salute e vi risponderà, mentre la risposta non sarà facile per qualcuno che è in salute. Se mi avesse fatto questa domanda prima del 2011 la mia risposta sarebbe stata più rapida e facile e mi rendo conto che dopo tutte queste chiacchiere non ho risposto alla sua domanda. E questo è un dato rivelatore…

Tornando alla stampa. Secondo lei perché molti giornalisti si stanno accanendo così tanto contro il Governo?

È piuttosto normale. Un giornalista ha il diritto e forse il dovere di criticare e l’uomo politico ha il dovere di accettare le critiche. Se si tratta di critiche oggettive ciò lo aiuterà a rettificare il tiro e a evitare di fare gli stessi errori, se si tratta di critiche meno obiettive ciò lo aiuterà a controllarsi meglio e a testare la sua capacità di mantenere il sangue freddo.

Molti artisti, intellettuali e giornalisti negli ultimi mesi sono stati aggrediti dai salafiti. Che tipo di dialettica c’è tra il Governo e questi gruppi estremisti?

Nella lingua araba tra la parola esagerare, tah-wil, e la parola minimizzare, tah-win, c’è un’unica lettera di differenza. In questo caso per me non si tratta né di esagerare, né di sminuire. Tra le parole che uso maggiormente nel preparare il procedimento della Giustizia di transizione c’è il termine Verità. Prima di commentare e di trarre conclusioni bisogna prima mettere in luce ciò che sta realmente succedendo. In questi ultimi mesi ci sono stati tantissimi incidenti, cose quasi normali in un periodo di transizione. Ovviamente nessun attacco ai diritti umani, al diritto di esprimersi e al diritto di creare deve essere tollerato. Ma bisogna comprendere che siamo in periodo di transizione e ci sono tre aspetti essenziali da analizzare. Il primo è che l’autorità dello Stato non è ancora del tutto affermata perché si tratta di uno Stato in costruzione, in cantiere, per quello che riguarda il quadro costituzionale e l’edificio istituzionale. Secondo punto: i cantieri politici vanno a braccetto con le sfide socio-economiche che rendono la situazione più instabile e più vulnerabile e che ci obbliga a essere più realisti e più pazienti. Il terzo elemento è che il nero assoluto non esiste e anche le dittature possono avere qualcosa di positivo. Hanno la tendenza di asfissiare le libertà, ma anche di bloccare gli estremismi. Con la libertà le tendenze estremiste hanno più ossigeno e dunque più visibilità. La libertà non può essere a geometria variabile. Il ruolo del Governo, pertanto, non è di fare scelte su base politica, ideologica o culturale, ma di applicare la legge. Ciò è fattibile in tempi normali, ma è molto meno facile nei periodi di transizione. Consideriamo, però, che siamo sulla buona strada. Dopo questa lunghissima introduzione finirò per pronunciare la parola salafita. Sono stato il primo a fare uno studio su questo problema in Tunisia nel 2003. Fra i risultati del mio studio si giungeva alla conclusione che non bisogna assolutamente giocare a farsi paura. Si tratta di problemi complicati di origine politica, ideologica e socio-economica e vanno trattati nella loro complessità. Un approccio completamente gestito con la sicurezza può portare solo alla catastrofe. I gruppuscoli violenti con un retroterra ideologico islamico non hanno visto la luce né nelle moschee, né nelle università, ma nelle prigioni. L’unica cosa che possiamo verso di loro è applicare la legge, ma ovviamente nello stretto rispetto dei diritti umani.      

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