Leggere Habermas a Teheran
Farzin Vahdat 4 December 2007

Questo articolo è stato pubblicato da Logosjournal

Secondo un proverbio della saggezza popolare persiana per essere efficaci una dichiarazione, una relazione, un’analisi, finanche un libro, devono essere concisi. In Iran se una persona si dilunga troppo senza arrivare al nocciolo della questione, si sentirà gentilmente invitata ad essere “concisa ed efficace”. Nel suo Reading Legitimation Crisis in Tehran Danny Postel rende davvero giustizia a questo detto persiano, poiché tratta in modo sintetico alcuni aspetti fondamentali della lotta politica in corso in Iran e dell’atteggiamento delle forze progressiste occidentali.

Sin dalle prime pagine del libro, Postel pone quattro interrogativi cruciali e correlati tra loro, tentando poi di fornire una risposta a ciascuno di essi. Primo, a cosa sono dovuti il disorientamento e i silenzi dei progressisti negli Stati Uniti, e nell’Occidente in generale, di fronte al clamore suscitato dai cambiamenti socio-politici che stanno avvenendo in Iran? Secondo, per quale motivo oggi tra le file degli intellettuali e dei politici militanti è così diffuso il “liberalismo” e non invece il marxismo o qualcuno dei suoi eredi contemporanei, come post-colonialismo? Terzo, come si spiega l’emergere in Iran di un dibattito politico e filosofico così fecondo e vivace, e quali insegnamenti ne possono trarre le forze progressiste occidentali? Infine, come interpretare le idee di Foucault sulla rivoluzione islamica che ebbe luogo in Iran alla fine degli anni Settanta?

Per Postel la barriera linguistica, la distanza geografica e il numero relativamente esiguo di iraniani che vivono negli Usa costituiscono in parte la risposta al primo interrogativo. Ma tali argomenti hanno un’importanza marginale, perché in realtà il motivo principale della riluttanza della sinistra americana e occidentale ad abbracciare la causa degli iraniani, la loro lotta per promuovere un cambiamento nel paese, va cercato altrove: quella riluttanza è dovuta alla tendenza della sinistra americana a sostenere soltanto la lotta di chi combatte contro l’Impero e i suoi lacchè. La sinistra statunitense è affetta da ciò che Postel definisce “visione a tunnel”, una ristrettezza di vedute che porta a pensare che solo i movimenti socio-politici in lotta contro gli oppressori di destra fiancheggiati dagli Stati Uniti, come ad esempio i movimenti nati in America Centrale negli anni Ottanta, siano degni di essere sostenuti. I dissidenti iraniani, invece, combattono contro un governo che è “nemico giurato” dell’Impero.

Per di più, l’opposizione iraniana non attinge al linguaggio del marxismo, del post-strutturalismo, del post-colonialismo, degli Studi Subalterni o a un qualche miscuglio di queste dottrine: per portare avanti la loro causa le forze progressiste iraniane hanno adottato sostanzialmente il discorso liberal-democratico occidentale e i suoi maestri passati e presenti. Sono questi i veri motivi per i quali negli ultimi anni i liberali occidentali, pur non opponendosi al movimento che si batte per un cambiamento in Iran, comunque si sono tenuti a distanza da esso e dalla sua fiera lotta. In Occidente la sinistra radicale considera il liberalismo uno strumento dell’imperialismo e l’incarnazione dell’eurocentrismo, quindi perché dovrebbe appoggiare una lotta che usa un linguaggio che ai suoi occhi rappresenta la quintessenza di tutto ciò contro cui combatte? I riformisti iraniani, quindi, sono gli amici del mio nemico, e di conseguenza se non sono proprio miei nemici comunque non sono miei amici.

Postel si lancia poi in un coraggioso tentativo di stanare i sofismi che si celano in questo tipo di analisi. In primo luogo, dice l’autore, il “liberalismo” nell’Iran di oggi è un concetto alquanto rivoluzionario: la lotta per i diritti umani, per i diritti delle donne, per le libertà civili, per il pluralismo, per la tolleranza religiosa, per la libertà di espressione e per una democrazia multipartitica in realtà non sono altro che un tentativo radicale di portare la libertà alla maggioranza degli iraniani che per secoli è stata sottoposta al giogo di varie forme di tirannia. Secondo poi, come giustamente rileva Postel, i riformatori iraniani sono piuttosto smaliziati quando si tratta di interpretare l’Occidente: sono ben consapevoli, e per questo molto critici, del dominio dell’Occidente e dei risvolti egemonici delle sue teorie, ma sono abbastanza perspicaci da riuscire a cogliere la differenza tra l’imperialismo occidentale e le istituzioni e le teorie emancipatrici che per una serie di circostanze si sono sviluppate in Occidente. E, del resto, è abbastanza sintomatico che la maggior parte dei dissidenti iraniani che si sono trasferiti in Occidente non si siano fatti irretire dai neocon. In realtà su questo aspetto fondamentale Postel nel suo libro si mostra forse un po’ troppo ottimista e indulgente: un’eccezione, e non di poco conto, è rappresentata dal libro Leggere Lolita a Teheran, per non parlare dei vari attivisti in esilio che invece hanno abboccato all’amo dei neocon.

Di tenore simile è la spiegazione che Postel fornisce della posizione paradossale degli occidentali verso l’Iran: il loro anti-imperialismo è esso stesso una forma di imperialismo, dal momento che si ostina a non vedere o a screditare gli sforzi dei riformisti iraniani per cambiare la loro società. A tal proposito Postel cita un esempio davvero illuminante: durante un discorso di Shirin Ebadi un militante di sinistra occidentale ha provato a zittire la Nobel iraniana contestandole che le sue critiche sulle violazioni dei diritti umani in Iran fanno il gioco dei neocon e sono in qualche modo funzionali all’ambizione dei conservatori americani di attaccare l’Iran.

In un’altra sezione del libro Postel spiega perché gli studenti, i militanti, i riformisti e gli intellettuali iraniani sono attratti da certe teorie e non da altre. Attualmente gli iraniani si interessano a Kant, Hegel e ai pensatori della Scuola di Francoforte, come Habermas, Hannah Arendt, Karl Popper, Isaiah Berlin, solo per citarne alcuni; di contro, il marxismo, le teorie post-coloniali, il post-strutturalismo, il post-modernismo o autori come Foucault e Derrida (ad eccezione di alcuni aspetti del loro pensiero) non suscitano il benché minimo interesse in Iran. Il marxismo – per come è stato vissuto in Iran, così come in molte altre parti del mondo – ha portato nel paese solo dogmatismo e tirannia, i soviet e un dominio in stile sovietico. D’altronde, neanche le teorie post-coloniali hanno molto senso in un contesto come quello iraniano (Postel tratta questo argomento solo di sfuggita, laddove a mio avviso è una questione estremamente importante che avrebbe meritato un maggiore approfondimento).

Le teorie post-coloniali, infatti, traggono origine per la gran parte dall’esperienza storica del subcontinente, che tutto sommato è estranea al mondo islamico per svariati motivi. Il post-colonialismo costituisce un tentativo di forgiare un’identità in quelle parti del mondo che hanno subito la brutale colonizzazione dell’Occidente, quindi deve per sua natura contrapporsi all’Occidente; l’Iran invece, al pari di altre regioni del mondo islamico, non ha vissuto questa esperienza: agli occhi degli iraniani l’Occidente non è del tutto negativo, anzi essi ne apprezzano gli elementi di emancipazione. Gli iraniani sono affascinati dai concetti di soggettivismo umano e di rappresentanza, che costituiscono i pilastri della modernità e della democrazia. A differenza di molti paesi con un passato coloniale, in Iran, in quanto paese musulmano, il senso della soggettività e del governo è iscritto nelle sue fondamenta metafisiche. Le teorie post-coloniali, che in fondo nel loro tentativo di decostruire l’Occidente non fanno che minare la nozione di soggettività umana, sono del tutto estranee alle radici metafisiche dell’Iran. Mi sarebbe piaciuto che nel suo libro Postel avesse sviluppato un po’ di più questo aspetto.

Postel comunque tratta una questione molto vicina a questa tematica allorché parla di Michel Foucault e della sua errata interpretazione dell’Iran. Il filosofo francese si trovava a Teheran nel periodo più caldo della rivoluzione, e in quella circostanza dimostrò una certa miopia intellettuale poiché volle vedere nella rivoluzione solo quello che gli serviva vedere per corroborare le sue tesi antiumaniste. Un po’ donchisciottescamente, infatti, agli occhi di Foucault la rivoluzione iraniana rappresentava quella rivolta contro la modernità che egli avrebbe voluto scoppiasse in Occidente.

La sua interpretazione distorta del regime dello Scià, che egli riteneva a torto essere l’incarnazione della modernità, lo portò a travisare completamente il senso della rivoluzione iraniana, considerandola la rivoluzione anti-moderna dei nostri tempi. Non si rese conto che la rivoluzione iraniana era invece la rivoluzione proto-modernista del protestantesimo puritano islamico. Purtroppo, Postel commette lo stesso errore di Foucault, dal momento che come lui anch’egli la rivoluzione iraniana una rivolta contro la modernità, con la differenza che mentre il filosofo francese la celebrava, lui la deplora. Per il fatto stesso che il discorso della rivoluzione islamica degli anni Sessanta e Settanta, da cui è scaturita negli anni Ottanta la Repubblica islamica iraniana, aderiva a una sorta di soggettivismo e di governo indiretti, mediati dalla Soggettività e dal Governo divini, essa ha segnato l’inizio della modernità in Iran e, di fatto, in tutto il mondo islamico. È questo un punto fondamentale che va riconosciuto.

Un’altra questione importante che probabilmente meritava di essere affrontata in un libro come quello di Postel che tenta di difendere alcuni aspetti del liberalismo, è la distinzione tra le varie forme di liberalismo; penso a categorie come “liberalismo borghese” e “liberalismo democratico”: il primo che punta soprattutto alla libertà intesa come libertà di intraprendere un’attività economica senza essere sottoposti ad alcun vincolo, mentre il secondo pone l’accento sui vari tipi di diritti. Nel complesso ritengo che il libro di Postel sia quanto mai attuale, giacché pone una questione fondamentale di questi tempi, ossia la simpatia e la solidarietà che i liberali in Occidente e negli Stati Uniti dovrebbero accordare ai loro omologhi iraniani. Le forze progressiste, le ong e gli intellettuali possono fare molto di più che limitarsi ad opporsi a un’eventuale guerra in Iran: possono e devono sostenere attivamente il processo riformistico nel paese. L’appello di Postel in questo senso è oltremodo utile e persuasivo. È molto costruttivo confrontare l’attuale situazione in Iran con gli ultimi anni dell’epoca sovietica, pensando in particolare alle disastrose conseguenze che il mancato sostegno dei liberali occidentali al movimento popolare nei paesi sovietici ha avuto. In questo risiede il valore del monito e dell’appello di Postel.

Traduzione di Marianna Matullo

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