Turchia, un passo avanti nella questione curda
Nicola Mirenzi 19 June 2012

Sia i giornali conservatori come Star, sia quelli liberal come Radikal hanno sostenuto l’iniziativa di Erdogan, avvertendo però che il diritto di avere dei corsi in lingua curda non può essere considerato come l’apertura di un processo che porterà alla creazione di uno stato etnico dentro la repubblica turca, ma che piuttosto debba essere visto come un segno di democratizzazione della Turchia stessa.

D’altronde la novità rivelata da Erdogan si era già data politicamente grazie a un accordo molto importante siglato tra il partito che attualmente governa la Turchia, il partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) e il maggiore partito di opposizione, quello repubblicano del popolo (Chp). La notizia nella notizia è che l’iniziativa dell’accordo – volto a creare una commissione parlamentare incaricata di redigere una road map per la soluzione della questione curda (sullo sfondo del processo che sta portando alla scrittura di una nuova costituzione per la Turchia) – sia venuta dal partito tradizionalmente più kemalista e nazionalista, quello repubblicano, fondato dal “padre dei turchi” in persona, Kemal Ataturk.

In realtà agli osservatori più attenti non è sfuggito che l’attuale leader repubblicano, Kemal Kilicdaroglu, questo cambio di passo lo porta scritto nella sua biografia. Figlio di madre armena, curdo, di religione alevita, Kilicdaroglu reca sulla sua pelle i segni più evidenti delle ferite che hanno percorso il corpo della nazione turca, per tramite delle discriminazioni che hanno colpito di volta in volta le minoranze che la abitano. Così, il Gandhi turco – così lo chiamano i giornali, per via del suo modo calmo di parlare – non si è fermato a volere un accordo con il partito di governo ma insiste perché siano coinvolti nel processo anche gli altri due partiti rappresentati in parlamento, quello nazionalista (Mhp) e il partito filo-curdo per la pace e la democrazia (Bdp).

Se l’iniziativa di Kilicdaroglu ed Erdogan riuscirà a superare le obiezioni di principio dei nazionalisti (che ancora guardano alla questione curda con gli occhi dell’ideologia) e quelle più circostanziate dei filo-curdi (che invece obiettano che si ancora troppo poco) lo vedremo. Nel frattempo però è un fatto che negli ultimi mesi – complice il caos siriano – la repressione nel sud est della Turchia contro gli indipendentisti curdi del Pkk si è molto intensifica, toccando anche punte altissime di brutalità. A dicembre a Uludere l’aviazione turca ha ucciso più di quaranta civili che stavano attraversando il confine con l’Iraq, scambiandoli per terroristi. Inoltre nelle carceri turche continuano a essere rinchiuse persone che militano nel partito filo-curdo del Bdp con l’accusa di fiancheggiare i terroristi del Pkk. Colpa di una legge contro il terrorismo molto restrittiva che consente di sbattere in prigione delle persone soltanto sospettate di avere relazioni con i terroristi. Gli ultimi a finire in prigione sono stati in ordine di tempo Leyla Zana, parlamentare indipendente curda e due sindaci del distretto di Van,  Abdulkerim Sayan e Murat Durmaz. Per non contare le decine di giornalisti che con l’accusa di fare propaganda al terrorismo curdo sono finiti in galera.

Da parte sua, invece, il Pkk non mostra nessuna voglia di smettere la lotta armata. Nei giorni scorsi otto soldati turchi sono stati uccisi negli scontri a fuoco con i guerriglieri curdi nella provincia di Hakkari, nel sud est del paese, facendo salire il numero di morti negli ultimi dodici mesi oltre quota 500 (161 forze di sicurezza, 270 guerriglieri curdi, 76 civili).

L’apertura di Erdogan al disegno riformatore di Kilicdaroglu si scontra dunque con dei dati di fatto che vanno esattamente nella direzione opposta a quella desiderata dai due leader. Ovviamente c’è la possibilità (e la speranza) che la mano tesa dei partiti turchi inverta la rotta della realtà, riuscendo a sanare un conflitto decennale e sanguinosissimo. Ma è pure possibile che niente cambi. E che anche questa nuova strategia si scontri in definitiva con i lacci mentali e politici che hanno sinora impedito di trovare una soluzione condivisa. Non bisogna dimenticare che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva molto puntato su quella che aveva denominato “iniziativa democratica”. Ossia una politica di apertura ai curdi (tra i principali suoi elettori nelle prime due vittorie elettorali) che però si è conclusa con un nulla di fatto. Oggi c’è di più il sostegno importante degli avversari repubblicani (sempre che l’antico partito kemalista sia davvero sotto il controllo totale del suo leader). Non è la sicurezza del lieto fine. Ma nemmeno l’happy ending è da escludere.

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