La sovranità popolare e le minacce del capitalismo
Andrew Arato 16 January 2008

Questo testo è il primo intervento di Andrew Arato nel dialogo svoltosi tra l’autore e il filosofo Hassan Hanafi, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).

Dall’antichità ellenica ne abbiamo ereditato il termine, l’idea, forse la regola, ma di certo nessuna delle istituzioni. Riguardo alla regola, l’idea della «isonomia», vale a dire «l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge», e anche quella dell’alternanza nel governare e nell’essere governato, sono ancora vive all’interno delle repubbliche democratiche nella condizione di eguaglianza dei cittadini e nel valore della loro partecipazione politica. Noi moderni però rifiutiamo le grandi esclusioni presenti nelle città-Stato, e diffidiamo delle loro forme politiche di partecipazione. Gli occasionali tentativi di ridar loro vita, come quello di Hannah Arendt e quello di Cornelius Castoriadis, sebbene comprensibili, dato il carattere strumentale che hanno oggi le norme, sono tuttavia inutili a causa della complessità sociale. Molto più lungimiranti furono quei pensatori antichi e moderni, da Aristotele a Polibio sino a Machiavelli e ai fautori inglesi del governo bilanciato, che speravano di salvare qualcosa dell’antica democrazia attraverso formule di regimi politici misti.

Per noi moderni il XVIII secolo europeo, definito retrospettivamente «l’Era delle Rivoluzioni Democratiche», è formativo, anche se il termine democrazia fu ancora largamente disprezzato o al massimo fu considerato «un governo adatto agli Dei» (Rousseau). Il concetto chiave era quello della sovranità popolare, anch’esso ripreso dal passato. Ciò che quel concetto voleva indicare era che la democrazia, da allora in poi, sarebbe stata un principio di legittimità politica che avrebbe ascritto o imputato al «popolo» l’origine o la fonte dell’autorità del governo. Non ci si sarebbe più aspettati che il governo, per ciò che attiene ai suoi meccanismi istituzionali, dovesse essere direttamente «democratico», ma solo che fosse rappresentativo. Per i critici, questa democrazia era destinata a rimanere «immaginaria» o quanto meno «formale», e in queste riserve vi è certamente una parte di verità, ma non tutta. Nondimeno la democrazia come principio di legittimità conserva le antiche norme del principio di eguaglianza e della partecipazione politica dei cittadini. Questo significa che il suo rapporto con i reali meccanismi del governo è critico e potenzialmente conflittuale. La politica democratica radicale, perciò, si affianca sempre al distico «legittimità democratica» (oppure «sovranità popolare») e «istituzioni rappresentative». La richiesta è sempre quella di rendere le istituzioni più democratiche o più sensibili alle pratiche istituzionali ritenute più democratiche, più popolari o anche più rappresentative.

La transizione dai regimi costituzionali o dalle repubbliche oligarchiche fondate sulla sovranità popolare ai regimi definiti democratici, fondati sul voto popolare, fu per la prima volta motivata da questo tipo di lotta. Anche in precedenza, si era dovuto risolvere il problema di istituire un governo repubblicano su un vasto territorio e, in quel caso, le soluzioni vennero fornite dalle istituzioni del federalismo, dalla separazione dei poteri (contrapposta all’antico governo misto), e in particolare dal tipo di rappresentanza politica, dai diritti fondamentali, dal costituzionalismo moderno, così come da una sfera pubblica aperta. Soltanto con l’universalizzazione del suffragio e dell’istruzione, tuttavia, queste nuove istituzioni repubblicane poterono soddisfare le minime richieste democratiche. Queste battaglie, in molte parti del mondo, sono continuate con il voto alle donne e con i problemi di inclusione etnica e di classe, ma oggi rappresentano sempre meno il problema centrale della democrazia.

Ciò non si applica ai problemi, tra loro collegati, della partecipazione e della democrazia economica, drammaticamente emersi a partire dal XIX secolo. Essi permangono, anche se in nuove forme globalizzate e notevolmente differenziate dal punto di vista culturale. Da una parte, le implicazioni oligarchiche della rappresentanza basata sul suffragio popolare divennero evidenti molto prima che la «teoria delle élites» correttamente ridescrivesse la democrazia per come essa effettivamente funziona a tali condizioni. Dalla Rivoluzione Francese in poi le sperimentazioni realizzate sulla base di forme di democrazia diretta e partecipativa sono state continue, ma soltanto l’ultima, una variante autoritaria che spesso conduce a dittature cesariste, ha avuto un successo durevole. Tale forma riappare periodicamente nelle lotte populiste a favore dell’inclusione e comporta sempre non soltanto la perdita della democrazia formale, ma anche la soppressione della sua dimensione democratica autocritica. D’altra parte, la debolezza della democrazia rappresentativa rispetto alla potente struttura dell’economia capitalista è stata ben documentata, così come lo è stata l’assenza di qualunque democrazia e di diritti nella sfera direttamente dominata da tali poteri.

Anche in questo caso i tentativi di soluzione che prendevano di mira l’economia capitalista fallirono e, nel XX secolo, ne derivarono dittature particolarmente repressive e di lunga durata, tali da esautorare l’intero processo democratico. Ora che gran parte di esse – non tutte – sono scomparse, il problema iniziale del capitalismo e della democrazia persiste, soltanto marginalmente ridotto dal cosiddetto welfare state democratico. Questo problema diventa particolarmente angoscioso allorché la sfera pubblica, una delle istituzioni fondamentali delle repubbliche di vasta area, è rimessa agli interessi capitalistici privati che possono usarla per privatizzare ancor di più la politica, specialmente quando offre un nuovo genere di politica plebiscitaria. Soltanto una decisa protezione dei mezzi di comunicazione elettronici del servizio pubblico, largamente accessibili a un grande numero di persone, potrà difenderci in modo duraturo da questa calamità.

Con i problemi del potere economico e della democrazia tutt’ora irrisolti, l’intera tematica è stata generalizzata, globalizzata e imperializzata. Generalizzata, perché oggi le sfere che influenzano i sistemi politici e che sono sfuggite al controllo democratico e le cui prassi interne non sono completamente democratiche non sono soltanto quella del grande capitale, ma anche i grandi eserciti, la grande scienza, la grande medicina, le grandi comunicazioni, il grande sport e la grande cultura. Globalizzata perché le istituzioni importanti sono collocate non soltanto all’interno degli Stati nazionali ma in una sfera globale in cui esse oggi sfuggono al controllo dei singoli Stati, anche se questi sono diventati molto più reattivi. E infine possiamo parlare di imperializzazione non nel senso in cui se ne parla nel recente libro, ma in termini di un ruolo aperto ed esplicito della sola superpotenza ancora in grado di manipolare, a proprio beneficio, gran parte delle sfere apparentemente indipendenti attraverso il dominio militare e assumendo una leadership molto più sottile nella sfera economica. Quest’ultima si dimostra particolarmente decisiva, perché la democratizzazione è diventata la posta in gioco nella politica del potere imperiale.

Nel frattempo, le regole della democrazia sono divenute esse stesse internazionali ed è per questa ragione che nel presente saggio ho usato la prima persona plurale «noi». Dall’ultima ondata di trasformazioni democratiche, ancora a carattere prevalentemente locale, dalla Grecia dei primi anni Settanta al Sudafrica degli anni Novanta, a svolgere un ruolo dominante nei processi di democratizzazione è stato sempre lo stesso modello basilare della sovranità popolare. Questo può anche essere visto come un esito della globalizzazione culturale, oppure lo si può considerare, come faccio io, la migliore risposta normativa alle sfide poste dalla globalizzazione e dall’imperialismo, anche se si tratta soltanto di un primo passo. Ciò che tale ondata di democratizzazione non può risolvere è il problema di definire le unità da democratizzare, quando la struttura dello Stato é in se stessa violentemente contestata, solitamente da gruppi nazionalisti etnici, nonché il problema di democratizzare dittature saldamente consolidate in cui specifici dati storici (patrimonio storico postcoloniale, economia basata sul petrolio, minacce esterne, nuovi movimenti antidemocratici, frammentazioni etniche, ecc.) hanno reso deboli le prospettive interne dei movimenti di democratizzazione, rafforzando invece in modo particolare l’elemento della coercizione militare e amministrativa.

Il progetto imperialista, usando slogan democratici ma operando in modo profondamente antidemocratico, all’estero come in patria, si è introdotto in quei contesti segnati o da un grave fallimento dello Stato o da dittature ancora vitali ma sempre più illegittime, ovvero da una combinazione di queste due condizioni, come in Iraq. Questa strategia complessiva, a cui ha partecipato sorprendentemente buona parte della comunità che si batte in favore dei diritti umani, minaccia di svalutare l’idea stessa di democrazia. Se ciò accadesse, ci troveremmo di nuovo indifesi non soltanto di fronte a dittature locali, sistemi sempre più autonomi della società globale, ma in definitiva di fronte allo stesso dominio imperialista. Questo non dovrà accadere!

Andrew Arato, costituzionalista, è professore di Political and Social Theory presso la cattedra Dorothy Hart Hirshon della New School University di New York. Nel corso delle sue ricerche si è occupato della Scuola di Francoforte, di storia del pensiero sociale e di teorie delle società dell’estremo Oriente e dei movimenti sociali. Le sue attuali ricerche vertono sulla sociologia del diritto e sulle teorie delle società modello. È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali Sistani v. Bush: Constitutional Politics in Iraq (2004), The Occupation of Iraq and the Difficult Transition from Dictatorship (2003), Civil Society, Constitution and Legitimacy (2000).

Traduzione di Antonella Cesarini

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