Il senatore nero e la questione della razza
Jim Sleeper 4 April 2008

A dicembre, proprio prima della stagione delle primarie, lo scrittore conservatore e nero Shelby Steele ha pubblicato A Bound Man: Why We Are Excited About Obama and Why He Can’t Win. Il libro parlava in modo istruttivo senza averne però la pretesa: mostrava infatti i pericoli del cercare di forzare gli sviluppi razziali recenti in prototipi che avrebbero potuto fare luce sulle circostanze di 15 anni fa, ma che oggi oscurano le reali opportunità e le sfide che ci troviamo davanti. Studiosi e scrittori sono particolarmente inclini a questa tendenza, forse i più propensi, e soprattutto se sono di sinistra e hanno fatto carriera attuando, promuovendo e difendendo certi paradigmi, di conferenza in conferenza, mentre la terra continuava a girare. Una cosa resa libera ieri, domani sarà già morta. Basta guardare a cosa ne è stato del “terzomondismo romantico” che proclamava “movimenti di liberazione delle genti”, ma si è trovato a soffrire in silenzio dopo l’11 settembre ed è andato a morire a Gaza.

E guardiamo a cosa è successo a una certa linea progressista riguardo alla razza in America e, sulla stessa scia, l’orientamento di Steele riguardo alla sinistra. Ho scritto un paio di libri su questa cosa, ormai vecchi per loro, anche per indurre a una revisione. L’ho fatto anche recentemente su un nuovo sito web, ma le discussioni interessanti e prolifiche di Obama mi hanno spinto ad aggiungere ulteriori osservazioni. Steele aveva ragione negli anni ’90 quando notava che molti rimedi razziali promossi dai liberali antirazzisti, dalla monotona “diversità“ nell’istruzione superiore alla divisione distrettuale operata dal Congresso e operata lungo le linee etniche, erano esercizi di quella che lui chiamava “iconografia”, con le quali si otteneva un risultato simbolico ma non sostanziale.

La giustizia democratica nell’educazione e le elezioni nella repubblica hanno bisogno di un modellamento incredibilmente arduo all’interno della scuola primaria e durante l’iscrizione alle liste elettorali. Non guadagnano nulla dalle “circoscrizioni marce” (il cui elettorato è particolarmente basso) né con la manipolazione dei numeri delle ammissioni ai college che imbarazza e, pertanto, divide troppi dei suoi beneficiari designati. Steele lo aveva capito. Ha notato che i liberali bianchi alla moda,che hanno lavorato bene nella deroga capitalistica aziendale, non avevano intenzione di affrontare le sue ineguaglianze sempre più profonde; ma non potevano nemmeno difenderle con tutto il cuore. Quindi, si aggrappavano a una politica di ostentazione morale e a una quota etnica che li fa sentire meglio ma non pone freni a quelle disuguaglianze che, grazie anche al loro sottrarvisi, ora divide i neri dai neri, così come i bianchi dai bianchi e le donne da altre donne e dagli uomini.

In quanto conservatore, Steele non faceva nulla per queste disparità oltre al semplice esortare i neri a lavorare di più e ad andare a votare. Più le disuguaglianze diventano imponenti, anche negli anni ’80 e ’90, più i liberali e i progressisti superficiali – questi ultimi sono ideologicamente inclini alle sfide di classe più che alla sfida in sé, ma non ne sono scoraggiati – tradiscono la classe (come quella economica) per sventolare bandiere variopinte sull’identità sessuale e razziale, offrendo pertanto obiettivi che risultano redditizi a conservatori dalla lingua lunga, più partigiani di Steele. Nelle dorate zone liberali quali quella di Michelle Obama laureata a Princeton e nella Harvard Law School di Barack Obama si svolgono meeting periodici dove ognuno, dalla matricola al preside, si scioglie con riconoscenza sotto i colpi retorici dei rappresentativi oratori neri che stanno in posa come giudici per i loro pari, attingendo da immense scorte di colpa liberale bianca e da buone intenzioni.

Steele aveva inquadrato questi mercanti di razze. Ha mostrato come abbiano iniziato i bianchi a rituali di penitenza razziale prima di garantire loro l’assoluzione dal razzismo, lasciando che si riassicurassero che una volta era stati cechi, ma che ora ci vedevano benissimo. Di contro, i bianchi, in una convulsione di gratitudine, hanno garantito ai mercanti neri l’assoluzione dalla loro inferiorità ovviamente spaventosa, che non era semplicemente stata riconosciuta. Steel non ha osservato tutto ciò maliziosamente, ma in modo doloroso. Avrebbe tirato fuori la sua saggezza razziale dalle sue viscere, non l’avrebbe fatto freddamente. Nel The closest of Strangers sono stato felice di avvertirlo dei pericoli di quello che lui chiama “shock da integrazione”, il quale, rimpiazzando il marchio razziale con un’amicizia bianca, spaventa alcuni neri ritenendoli responsabili di quei difetti che sono stati cancellati come conseguenza del “razzismo”. La paura produce allontanamento o lotta, non una vera riconsiderazione generale.

Steele aveva ragione ad avvertire che l’imbroglio dello scambiare l’ammissione dell’innocenza della razza bianca per un falso certificato di eguaglianza con i neri non è la giusta via d’uscita dal razzismo. Quello scambio disonesto viola apertamente e sviscera in modo subdolo le virtù civiche repubblicane quali franchezza, verità, ottimismo tosto, richieste dalla vera liberazione, ma che molti progressisti spesso escludono in quanto mistificazioni borghesi di relazioni sociali oppressive. Non mi meraviglio del fatto che Steele fosse ossessionato da Obama, il quale, in quanto editor del periodico Harvard Law Review, aveva tutti i lineamenti di un mercante razziale progressista. E non solo; Steele, come Obama, è nato da madre bianca e padre nero. Inoltre, Obama divenne coordinatore di quella stessa South Side di Chicago in cui Steele è cresciuto; e, ironia della sorte, Obama ha scelto di andare a lavorare lì mentre Steele non lo avrebbe mai fatto, con lo scopo di proclamare un’identità afro-americana come quella di Steele da bambino.

Si può immaginare come Steele avesse pensato di aver inquadrato Obama. Spiegherebbe l’immersione volontaria di Obama nella Southside di Chicago come preparazione calcolata su scala nazionale, per lo scambio razziale fatto con bianchi mossi dal senso di colpa. Steele potrebbe forzare Obama in quel modello poiché, in verità, esso regna ufficialmente e non solo ad Harvard o a Princeton, ma anche tra alcuni supporter di Obama. Il problema è che non governa più tra la maggior parte di essi. Questa falsa strategia di scambio, ancora molto amata da quei presidi senza cervello di quei campus super decorati, è stata spogliata non solo da Obama, ma anche da molti americani ventenni più che dall’orgoglio burbero di Steele, radicato nella sua saggezza conquistata a fatica (e ben retribuita) che glielo lascia notare e riconoscere.

Quello che “l’iconografia” e lo “scambio razziale” rende poco visibile è che Obama ha liberato se stesso, in un certo qual modo, dalle politiche di identità nera che ha esplorato a Chicago. Non lo ha fatto né scappando, né ballando, né rimanendone intrappolato o negandolo, come Steele immagina. Lo ha superato affrontandolo direttamente con una certa introspezione conservatrice, buona e un po’ antiquata, facendo il viaggio del pellegrino che ha verificato la fede in se stesso e nella società superando la palude malarica, il villaggio della legalità e del saggio Mr. Wordly, e tutte le seduzioni della fiera della vanità. L’elefante nella stanza che il paradigma di Steele fa finta di non vedere è che Barack Obama concorre per il lavoro più trans-razziale del Paese, mentre Steele, al contrario, ha scritto, scrive e scriverà sempre saggi sulla razza. È Steele a essere diventato il mercante di razze, offrendo l’innocenza della razza bianca sia alla conservatrice Hoover Institution, dove lui è un collega e un conservatore nero famoso, sia alla pagina editoriale del Wall Street Journal, dove, il giorno dopo il discorso di Obama sulla razza a Philadelphia, ha pubblicato a churlish musing about Obama , una riflessione villana su Obama come mercante razziale archetipico – un saggio che, come ammette, era stato già scritto e assicurato alla stampa prima che egli potesse leggere o ascoltare il discorso di Obama.

Come ha osservato Don Wycliff, un nero di Chicago più anziano di Steele, facendo la recensione di A Bound Man per Commonweal, una settimana prima del discorso, “Steele sembra…un uomo la cui testa è piena di una musica che solamente lui può sentire…se qualcuno è legato, quello è lui…legato a un gruppo di idee e teorie che ha formulato in reazione alle sue esperienze degli anni ’60. Una volta suonavano come saggezza, oggi tintinnano sospettosamente come le campane nella testa di un matto”. Mi dispiace dover aggiungere che gli stessi standard di franchezza, verità e tosto ottimismo che stanno discreditando lo scambio razziale guidato dal senso di colpa, stiano anche invecchiando la critica di Steele per l’attitudine di Obama a contrattare troppo velocemente con i bianchi. Sarebbe meglio riconoscere gli impedimenti di Obama candidato.

Un modo per farlo è quello di riconoscere che anche il New Deal e alcuni elementi della Great Society di Lyndon B. Johnson erano nati da compromessi politici con reminiscenze razziste, come la Costituzione degli USA con i compromessi originali con la schiavitù. Dire che, usando le parole dei progressisti, il razzismo sopravvive e rimane diffusissimo e molto radicato, vuol dire riconoscere, come molti progressisti non fanno, che non è abbastanza tirare su delle barricate – o, più probabilmente, un podio per una conferenza – o, ancora, correre in tribunale per denunciare casi di razzismo. I tempi sono cambiati e possono farlo anche le strategie. Importante è essere realisti più che auto-compiacenti. Alla Constitutional Convention e nelle trattative per il New Deal e la Great Society, dei sudisti potenti dovettero essere accontentati con una clausola costituzionale o uno statuto. Franklin D. Roosevelt dovette giocare un po’ con il “duro sud (democratico)”, i cui rappresentanti erano a capo di importanti comitati congressuali. Negli anni ’50, il senatore Jack Kennedy corteggiò e fece compromessi con i segregazionisti. Fu Richard Nixon, membro del “Partito di Lincoln” a essere anche un tesserato della NAACP.

La speranza che si celava dietro i compromessi degli anni ’30 era che alcuni programmi del New Deal avrebbero fatto almeno arrivare nel campo della solidarietà pubblica quelle categorie nazionali di bianchi, ancora irritabili, spesso belligeranti (chiamate ancora “razze” come la razza slava, la razza ebrea, ecc.). In quel modo, anche il New Deal razzista era provatamente un passo verso la legittimazione dei diritti dei neri, soprattutto dopo la guerra contro il razzismo nazista. Per capire meglio quali fossero i compromessi che la situazione politica richiedeva ai politici, che speravano di deviarli verso un lieto fine, – in altre parole, per distinguere le strategie intelligenti dalle inutili politiche di posizione moralista e ideologica – alcuni storici americani potrebbero beneficiare delle prospettive dello storico britannico Anthony J. Badger, uno studioso di lunga data del New Deal americano e del movimento per i diritti civili che si occupa di entrambi, senza avere quei problemi psicologici che ho appena menzionato. Badger non cede alle semplificazioni del marxismo stranamente apolitico o alle politiche progressiste individuali, che hanno mandato in rovina molto anti-razzismo, grazie alle sconfitte quali gli esempi di extra-razzializzazione, tra cui lo scambio di neri e bianchi all’interno delle scuole, (il cosiddetto “busing”) e “l’integrazione” del vicinato fortemente incentivata, errori che ho commentato nel Liberal Racism. Accademici pomposi cercano di “smontare” delle belle analisi come quella di Badger e la mia, non riconoscendo che la gente motivata ideologicamente e compiaciuta di sé finisce per aiutare degli opportunisti che gettano benzina sul fuoco del razzismo, per un guadagno a breve termine.

Le forze del mercato che intrappolano dei bianchi innocenti quanto i neri amorali e le correnti sociali che generano si radicano così velocemente che è da pazzi sfidarle e gridare al razzismo. Il capitalismo sta dimostrando di essere più subdolo, modificabile e coinvolgente di sesso e razza che anche i suoi difensori conservatori non se lo sarebbero mai aspettato, almeno non nei giorni in cui i progressisti ci assicuravano che il capitalismo era causa di sessismo e razzismo. Al contrario sta mescolando le carte del sesso e della razza e sta spostando i fardelli dell’oppressione altrove, cercando di posticipare la questione. Le difficoltà che Obama affronta, lottando per posizionarsi tra questo reticolato di correnti, dovrebbero essere apprezzate rispetto allo sfondo degli errori commessi in passato. Testimonianze morali, proteste organizzate e decreti sono elementi indispensabili per una strategia più diffusa, ma se sono impugnati in una campagna come questa, sono destinati a fallire. Sia che Shelby Steele lo chiami “scambio razziale”, sia che i progressisti lo definiscano opportunismo, io spero che continui così anche dopo novembre.

Questo articolo è tratto dal sito Talking Points Memo

Traduzione di Federica Campoli

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