“Né Stato né Chiesa, ma auto-governo democratico”
Klaus Eder 18 September 2007

Il termine “post-secolare” indica che il secolarismo non è una peculiarità delle società moderne e che non esiste una tendenza naturale al secolarismo inteso quale telos esclusivo dello sviluppo delle società moderne. Il secolarismo è una costruzione cognitiva del mondo al pari delle Weltanschauung non-secolari. Da un punto di vista sociologico, il secolarismo è infatti una Weltanschauung tra le altre. D’altra parte la rivendicazione di superiorità normativa della visione del mondo secolare è un fenomeno che la sociologia può constatare ma che non può dimostrare né confutare. La sociologia è in grado però di mostrare cosa accade allorché diverse visioni del mondo penetrano nelle relazioni sociali, entrando in conflitto tra loro. Quello a cui assistiamo oggi non è tanto un ritorno della religione quanto una nuova costellazione sociale che regola le relazioni sociali tra le varie Weltanschauung.

Tale fenomeno è caratterizzato dal fatto che nella sfera pubblica le diverse visioni del mondo sono in aperta concorrenza tra loro per la conquista del “riconoscimento”. Ma questa competizione è un’arma a doppio taglio in quanto, nel migliore dei casi, accende il dibattito sui presupposti di base affinché la convivenza tra Weltanschauung divergenti sia possibile. Tale dibattito presuppone dunque l’assenza di incommensurabilità tra le varie visioni del mondo; presupposto questo che deve essere però condiviso dalle diverse Weltanschauung affinché si eviti un conflitto infinito. In caso contrario, infatti, si innescherebbe una spirale di conflitto tra le opposte visioni del mondo, ognuna delle quali rivendica l’accesso esclusivo alla verità e alla rivelazione. Si tratta di rivendicazioni intrinseche alle religioni universalistiche, che sono fondate sull’accesso esclusivo al giusto e addirittura, in certi casi, al vero.

Il secolarismo è quindi una visione del mondo universalistica al pari delle religioni universalistiche poiché, come queste ultime, si basa sulla definizione di premesse cognitive per rivendicare l’accesso al giusto e al vero; ma si differenzia dalle religioni per un aspetto importante: quelle premesse non sono esclusive e non sono mediate dagli interpreti di una tradizione che contiene già in sé il giusto e il vero (tralasciamo per il momento il ruolo degli intellettuali che, in determinate epoche, hanno cercato di arrogarsi il compito di interpretare il mondo per conto degli altri, l’esempio più illuminante in tal senso è Lenin). Tra il secolarismo e le religioni universalistiche esiste quindi un’asimmetria: da un lato queste ultime costringono, nel migliore dei casi, il secolarismo a tenere sempre presenti quegli assunti universalistici su cui si fonda e che talvolta vengono dimenticati; dall’altro le religioni universalistiche devono accettare le premesse liberali che il secolarismo assume quali condizioni della sua esistenza. In questo senso, la sfera pubblica è il vero banco di prova per l’accettazione dei principi formali del dialogo tra le diverse, e talora contrapposte, Weltanschauung. La violazione di tali principi mette in moto una spirale di conflitto incontrollato che genera un classico scenario: visioni del mondo universalistiche che, spinte dallo zelo missionario di realizzare il giusto e il vero contro il “male” presente nel mondo, tentano di eliminarsi e di distruggersi a vicenda.

Il dilemma di Böckenförde solleva un interrogativo importante: chi, in ultima analisi, ha la facoltà di costringere gli altri a rispettare le regole liberali del gioco. Böckenförde propone di puntare sulla sostanza morale degli individui e sull’idea di una società omogenea. In realtà, fare affidamento sull’autoregolamentazione degli individui potrebbe rivelarsi insufficiente, dal momento che si può facilmente incorrere nel paradosso di Hobbes. Tale argomento si fonda sul presupposto secondo cui una società omogenea è un ordine incapace di regolarsi da sé, e che viene quindi definito dall’autoregolamentazione attraverso la coercizione e l’autorità giudiziaria. L’autoregolamentazione fondata sull’autorità presuppone che lo Stato si assuma l’onere di dare una regola all’ordine intrinseco degli individui, il che ovviamente non può avvenire senza incorrere nel paradosso di una libertà generata dalla forza.

Tuttavia, il moderno stato razionale-formale – e la società così ordinata – è sempre stato connesso a una forte rappresentazione simbolica di se stesso, vale a dire all’idea di nazione entro cui lo stato moderno è incastonato. La nazione incarna dunque quella “trascendenza” che fornisce le risorse simboliche dell’attaccamento emotivo e cognitivo allo Stato moderno. Quando nazione e popolo sovrano erano inseriti in un processo di reciproca costituzione, tale soluzione garantiva perfino regimi democratici alquanto stabili. Il vero dilemma delle società moderne è che ormai questa idea di nazione non funziona più. Non esiste più una società omogenea, e forse non è mai esistita. Le società moderne sono sempre più eterogenee da un punto di vista culturale e non forniscono quella risorsa simbolica sulla quale far leva per creare una comunità politica che trascenda i meri interessi individualistici. È qui che entra in gioco il paradosso di cui parla Böckenförde. La situazione attuale esclude una serie di possibili alternative: una religione condivisa, una comune cultura di appartenenza, una cultura condivisa della diversità. Per uscire da questo dilemma abbiamo fondamentalmente tre opzioni.

La prima consiste nel delegare la trascendenza simbolica della comunità politica a una sovranità democratica; ipotesi questa prospettata dai democratici radicali. Una variante di questa opzione prevede che la società civile funga da controllo esterno dello stato per garantire la compatibilità tra l’azione dello Stato e la libertà dei cittadini. La seconda soluzione è fondare lo Stato su un presupposto autogiustificantesi, ossia l’idea di indifferenza verso il popolo, in base alla quale tutti devono essere trattati allo stesso modo in quanto individui. Questo è ciò che Max Weber definiva Stato razionale-formale, ed è fondamentalmente l’idea secolare che assume connotazioni a volte democratiche, a volte meno democratiche.

Giungiamo quindi alla terza opzione, che esclude sia la volontà del popolo fiducioso nella sovranità collettiva, sia la razionalità formale associata al secolarismo, affermando invece la necessità di fondare lo Stato moderno e il moderno ordine sociale su tradizioni dalle quali scaturiscano quei sentimenti di identificazione che creano una società disposta ad accettare le regole del gioco liberale. Si tratta di tradizioni molto forti in quanto frutto di esperienze e di una memoria collettive profondamente radicate nel popolo attraverso l’inculturazione e la socializzazione e che forniscono la risonanza e i legami storici costituivi delle relazioni sociali. Le tradizioni più forti si ritrovano nella religione: la sociologa Hervieu-Leger ha definito la religione la catena della memoria più longeva che gli esseri umani abbiano mai sviluppato. La terza soluzione consisterebbe dunque nel costruire uno spazio a partire dalle tradizioni religiose presenti in un’epoca e in un luogo determinati in cui vivano persone con tradizioni religiose del tutto diverse.

Ovviamente ci sono religioni più inclini a rafforzare i sentimenti sui quali si fondano le regole liberali del gioco, e altre meno, come hanno dimostrato le ricerche di storia comparata sui legami tra le tradizioni (la religione) e la democrazia. Il problema è che oggi queste tradizioni non possono più essere più essere relegate in società separate tra loro, che seguono l’ideale di una società omogenea da un punto di vista religioso e/o nazionale. Tentativi di questo genere hanno anzi fatto emergere l’aspetto peggiore della modernità: guerre nazionali e guerre civili per l’omogeneità culturale in nome della razza, del Volk (popolo), della religione, dell’identità etnica, e così via. Viviamo in società culturalmente eterogenee, in cui ci sono diversi fattori che non possono diventare compatibili da soli; condizione questa per la creazione di una società autoregolantesi. Proprio l’impasse della terza soluzione ha spinto molti analisti politici a tornare alla seconda opzione, quella cioè di uno Stato forte, staccato dalla varietà culturale del popolo e che cerca di imporre un comune riferimento culturale. I costi di tale soluzione sarebbero elevati in termini di non-riconoscimento dei gruppi culturali, il che costituisce l’humus delle guerre civili. Rimane quindi solo la prima soluzione, quella democratica radicale.

Tale opzione esclude l’idea del consenso, promuovendo piuttosto una cultura del dialogo che riunisca tutti i partecipanti al dibattito in una società autoregolantesi. La peculiarità di queste società è il dialogo, non il fatto che se ne conosca già l’esito. Poiché nulla può essere escluso dal dibattito, lo spazio democratico radicale del dialogo deve includere anche e soprattutto la rievocazione critica delle tradizioni che convergono in un luogo e in un momento determinati, collegando così tradizioni religiose, etniche e secolari in un sistema di relazioni comunicative. Il risultato è una storia in fieri, sempre alla ricerca di una storia condivisa: una tradizione allo stadio di creazione permanente.

Un ottimo esempio di questo modello radicalmente democratico di costruzione della trascendenza di una comunità politica è l’Europa con la sua ricerca di identità, di una storia che metta insieme i diversi popoli, le diverse religioni e le diverse ideologie. Una storia che la nuova Europa sta costruendo nonostante le incursioni di tradizioni particolaristiche quali lo statalismo assoluto secolare della Francia o l’universalismo esclusivo del cattolicesimo romano. La nuova Europa è un esperimento, un tentativo di trovare una società che crei la propria trascendenza elaborando la storia della propria diversità attraverso un dibattito permanente, ossia quotidianamente democratico. È questa una soluzione del dilemma: una soluzione non solo compatibile ma anche intrinsecamente legata all’auto-governo democratico del popolo.

Klaus Eder insegna Sociologia presso la Humboldt Universität di Berlino e presso l’Istituto Europeo di Firenze. Studia i movimenti sociali della modernità, il rapporto tra politica e ambientalismo e i problemi legati alla cittadinanza (europea e nazionale) e alla evoluzione sociale in Europa.

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 101.

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