Se la telecamera diventa arena di guerra
Lawrence Pintak 22 September 2008

Questo testo è il discorso tenuto dall’autore alla Conferenza internazionale di Doha, organizzata in Qatar da Reset Dialogues on Civilizations il 26 febbraio 2008.

Quanto negativamente i media possono influire sui rapporti tra il mondo musulmano e l’Occidente? La risposta è ovvia: molto negativamente, come abbiamo potuto constatare negli ultimi sei o sette anni. Ma altrettanto possono fare i politici e altrettanto possiamo fare noi come cittadini comuni. Tutti, infatti, osserviamo il mondo che ci circonda attraverso le nostre «lenti» particolari, attraverso il n o s t ro «prisma» e, nel caso dei media, questa prospettiva si riflette sul mondo, sul l o ro pubblico e anche al di là di esso. La cattiva notizia è che siamo chiaramente e profondamente polarizzati. Il fatto che si parli ancora una volta delle vignette su Maometto, perché ancora una volta sono state pubblicate in Europa, dimostra quanto poco progresso si stia facendo ad alcuni livelli. Allo stesso tempo, stiamo compiendo grandi passi in avanti ad altri livelli: ci sono, per esempio, molte conferenze che parlano di questi temi e, lo scorso gennaio, si è tenuto a Madrid un importante vertice sul dialogo tra civiltà organizzato dalle Nazioni Unite. Ci sono poi considerevoli stanziamenti di fondi per l’istruzione e la formazione nel settore dei media, anche perché si tratta di un proposito assai costoso.

Ma soprattutto c’è una grande consapevolezza di questo problema all’interno dei mezzi di comunicazione: tanti di noi sono impegnati in infiniti dialoghi tra giornalisti occidentali e arabi su cosa abbiamo fatto, cosa siamo facendo, quali sono gli errori e come si possono evitare. Tuttavia la bottom line è che sia Al Qaeda che il Pentagono sono d’accordo sul fatto che i media siano un’arma di guerra e che sia i mezzi di comunicazione che i giornalisti siano uno strumento del conflitto. Non mi sto riferendo qui ai siti web jihadisti, ai canali dei ribelli o, in un certo senso, a Fox News, ma agli organi d’informazione mainstream. Ayman al-Zawahiri ha detto: «Almeno metà della battaglia avviene sul campo dei media». Donald Rumsfeld si diceva d’accordo e, infatti, affermava: «Una sola notizia può danneggiare la nostra causa quanto qualsiasi altro metodo di attacco militare».

In conseguenza dell’essere diventati strumenti di guerra, i giornalisti ne sono divenuti anche obiettivi, come dimostra l’aumento del numero di attacchi contro di essi nel corso degli ultimi anni. È vero che le ragioni dipendono in parte dal fatto che è in atto una guerra di notevoli dimensioni e che in guerra si muore, ma i giornalisti sono diventati degli obiettivi. Di certo, Al Jazeera è ben consapevole di quanto il governo degli Stati Uniti abbia, in determinati momenti, attaccato di proposito i suoi corrispondenti, e tutti ricordiamo Daniel Pearl o i giornalisti di Al Arabiya morti in Iraq. Centinaia di giornalisti sono stati attaccati da una parte e dall’altra perché sia gli uni che gli altri percepiscono il potere dei media e li considerano un’arma di guerra al servizio del nemico. I mezzi di comunicazione arabi sono ritenuti dagli americani, e dagli occidentali in genere, strumenti al servizio dei ribelli o, dalla loro prospettiva, dei «cattivi» e viceversa.

Parte di tutto ciò è naturale: esattamente come noi vediamo il mondo attraverso il nostro «prisma », così fanno anche i giornalisti. Giornalisti diversi affrontano gli argomenti secondo prospettive differenti perché provengono da storie, culture ed esperienze diverse, e i pubblici a cui si rivolgono sono difformi. Esistono tuttavia vari livelli di differenziazione. Guardando all’iconografia dell’Iraq e a come i media occidentali e quelli arabi hanno riportato la guerra, scopriamo che, se nel mondo occidentale si è vista l’immagine della statua del dittatore che cadeva, nel mondo arabo si è vista l’altra parte della storia: l’immagine del colonialismo, dell’imperialismo, degli occidentali che rovesciano un governo. Si potrebbero fare migliaia di esempi, fatto sta che questo tipo di framing (inquadratura) è proseguito attraverso la copertura delle notizie da ambo le parti. Ciò è stato evidente soprattutto agli inizi della guerra per poi diventarlo meno negli anni più recenti, in parte perché i giornalisti «da tutti e due i lati» – se così si vuole dire – sono diventati sempre più consapevoli del ruolo che rivestono e del fatto che spesso vengono strumentalizzati.
Dopo l’11 settembre si è alimentato questo scollamento, questa sorta di «guerra dei mondi»: gli arabi da un lato, gli europei e gli americani dall’altro, hanno visto aspetti differenti del conflitto. Ciò è stato particolarmente vero negli Stati Uniti, dove non si è guardato, in sostanza, a prospettive diverse, ad eccezione delle poche ore di trasmissione di Bbc World. Si pensi, per esempio, che in America Al Jazeera è visibile solo su internet, mentre, se si vuole, al Cairo si può accendere la tv e scegliere tra più di trecento canali satellitari, compresi Bbc, Cnn e Fox News. In Europa è possibile consultare punti di vista differenti più che negli Stati Uniti. Si tratta, comunque, di visuali molto limitate. Questa polarizzazione è stata esasperata dal modo in cui, in Occidente, i media arabi sono stati demonizzati. «La televisione araba non rende giustizia al nostro paese…- diceva il presidente Bush nel 2006 – A volte, tirano fuori una propaganda che semplicemente non è giusta, non è corretta e non dà alle persone l’impressione di cosa stiamo facendo». Fino a relativamente poco tempo fa, c’è stata questa demonizzazione di Al Jazeera e dei media arabi, in generale, un’incapacità di comprendere, che ha alimentato lo scollamento.

Da parte americana, c’è stato poi uno scarso riconoscimento del fatto che i media arabi vedevano le cose in maniera diversa perché percepivano un’altra parte della storia che gli americani non osservavano, perché non c’era spazio per l’idea che l’aspetto della storia proposto dai mezzi di comunicazione arabi fosse valido. È giudizio comune, negli Stati Uniti, che tutti i giornalisti arabi odiano l’America e che vedono in essa la maggiore minaccia. È vero per alcuni giornalisti arabi? Assolutamente. Come il contrario è vero per alcuni giornalisti occidentali. Per illustrare quanto errato sia, però, questo giudizio comune, voglio citare come esempio un sondaggio che abbiamo condotto su 600 giornalisti arabi provenienti da 13 paesi diversi. Una delle cose che abbiamo scoperto è che i giornalisti arabi non sono anti-americani: se è vero che non gradiscono affatto la politica estera statunitense e più in generale disapprovano la condotta degli Stati Uniti, il 62% di essi nutre sentimenti positivi nei confronti del popolo americano.

Allo stesso modo, è vero che essi percepiscono la politica estera statunitense come un’enorme minaccia per la loro regione, ma quasi alla pari con la mancanza di cambiamento politico dei loro stessi governi, seguita da una serie di questioni domestiche che sono importanti ai loro occhi, esattamente come lo è la presenza delle forze militari americane. Essi ritengono, inoltre, che la maggiore minaccia per il giornalismo arabo siano i governi arabi. Pensiamo alla Arab Satellite Charter, su cui la stampa ha molto discusso, che rappresenta un esempio di quanto i governi della regione restino una minaccia per il giornalismo arabo. Lo si può vedere in tutta l’area e, ovviamente, potremmo dire che Al Jazeera è una voce semi-indipendente che lavora anch’essa all’interno di alcune linee di confine, ad esempio, in merito alla politica estera del Qatar.

Tutti gli organi d’informazione del mondo arabo operano all’interno di determinati limiti. Quelli di Al Jazeera possono essere più ampi, ma esistono. Sia che guardiamo al Marocco che allo Yemen vediamo giornalisti che vengono arrestati, subiscono violenze e pressioni. Di certo in Egitto, dove vivo, i giornalisti sono profondamente assediati, e se in anni recenti abbiamo fatto due passi avanti in tempi di elezioni, nel complesso siamo andati tre passi indietro, e questo ha influenzato, in senso più ampio, il dialogo tra civiltà. Come dicevo all’inizio, tuttavia, le cose sono migliorate radicalmente nel corso degli ultimi anni. Esiste un maggiore riconoscimento della necessità di dialogare, anche se troppo spesso c’è ancora una carenza di prospettive. Commettiamo ancora errori, come perdere di vista le voci moderate, vedere solo in termini di bianco e nero, senza nessuna ombra di grigio. Senza lasciare spazio all’idea che esista un altro aspetto della storia. Capita ancora spesso che, tra immagini e slogan drammatici, i cliché prendano il posto dell’analisi.

Se i leader mondiali hanno le loro colpe, anche noi giornalisti abbiamo le nostre. I media hanno il potere di cambiare, come pure di infiammare. Non si tratta di ignorare le notizie, ma dei valori che stanno al cuore della nostra professione: equilibrio, correttezza, responsabilità. Si tratta di fare scelte attente nel linguaggio, nelle immagini, nei soggetti da intervistare. La questione è, in conclusione, se noi giornalisti vogliamo giocare un ruolo costruttivo nel mondo oppure servire come armi nella guerra di qualcun altro .

Lawrence Pintak è direttore del Kamal Adham Center for Journalism Training and Research all’Università Americana del Cairo, in Egitto, editore e condirettore di Arab Media & Society e editore di Mogtamana.org, portale della società civile egiziana.

Traduzione di Martina Toti

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