Islam e democrazia: una terza via
Fred Dallmayr 30 March 2007

Il mio intervento prenderà le mosse dal tema del rapporto tra religione e società aperta, o tra religione e politica. Ma, soprattutto, tra religione e democrazia. Mi pare evidente che i paradigmi siano essenzialmente due, e si caratterizzano per una sostanziale polarità: da un lato una totale fusione, un assoluto amalgama tra religione e politica; dall’altro, una separazione, un divorzio totali. Ora, a quanto mi risulta, non v’è religione che non sia stata allettata dal primo paradigma. In altre parole, ogni credo ha avuto la tentazione di assumere il potere e il controllo politico della società con cui si è di volta in volta trovato a convivere. È successo con il cristianesimo, con l’induismo e con l’Islam. Ed è tentazione che va resistita con ogni mezzo, sempre e comunque, perché gli effetti sono deleteri sia per la religione stessa, sia per la politica. Vedere, nel caso del cristianesimo, le crociate, l’inquisizione – cui si fa continuamente cenno – l’esercizio del potere religioso e i vari episodi di alleanza tra trono e altare. È un topos, se vogliamo, che si ripropone regolarmente nella Storia. E credo che nessuno possa tesserne le lodi.

Idem per il secondo paradigma. Che può avere effetti devastanti sia, di nuovo, sulla religione, sia sulla politica. La quale si vede privata di alcune fondamentali risorse etiche e spirituali. Sottraendo alla religione, di rimando, il diritto a dire la sua e intervenire nel pubblico dibattito. Trovandoci oggi in Marocco, credo che il contesto sia quello ideale per affrontare e discutere il rapporto tra religione, o revival religioso, e democrazia. Con particolare riferimento al credo islamico, che qui assume un risalto particolare. Di nuovo, a mio avviso, vanno ravvisati due paradigmi, sempre polarizzati, ma entrambi assertori di una sostanziale incompatibilità tra Islam, o la religione in generale, e democrazia. Da un canto, la democrazia annienta e nega l’Islam; dall’altro, l’Islam nega e annienta la democrazia. Non è affatto una dicotomia teorica. L’abbiamo vista sin troppe volte in azione.

Chi sostiene che la democrazia sia incompatibile con la religione islamica, quindi, può puntellare le sue tesi con una nutrita serie di esempi. Penso ad alcuni leader politici nel mondo islamico, che possono contare su un folto gruppo di seguaci, soprattutto tra i giovani. E che, come l’egiziano Sayyid Qutb o il pakistano Ala Maududi e molti altri, a voce o su carta stampata, hanno sostanzialmente condannato la pretesa, da parte dei fautori della democrazia, di attribuire agli uomini quella che è la saggezza o l’erudizione di Dio, l’unica autentica. La democrazia come riscatto del popolo. In altre parole, chi sceglie la democrazia negherebbe la sapienza di Dio. Il che, secondo Qutb e Maududi e tutti quanti si rifanno al loro pensiero, apre le porte a una nuova era di Jahilia, sapientemente debellata dal profeta Maometto. Al ritorno ai tempi bui del peccato e dell’ignoranza, della negazione della verità religiosa. Ai loro occhi, dall’ellenismo, all’Impero romano, al rinascimento, all’illuminismo, alla Rivoluzione francese, la Storia è costellata di graduali tentativi di affermazione di una generale quanto deleteria Jahilia, che va osteggiata con ogni mezzo.

Due, quindi, i paradigmi. L’islam va restaurato e la democrazia debellata. Oppure, la democrazia è risorsa imprescindibile e l’Islam, o la religione in genere, vanno cancellati, o quanto meno rigorosamente ridimensionati nella sfera privata del singolo. Proprio come l’Occidente ha tentato di fare con il cristianesimo. Sono, queste, le tesi propugnate dai fautori della secolarizzazione o del laicismo radicali, e dagli agnostici. Un teorico e osservatore politico metà algerino e metà americano, Lahouari Addi – ma si potrebbero fare molti altri esempi – ha pubblicato un saggio intitolato Islamicist utopia and democracy (Annals of the American Academy of Political and Social Science 2002) in cui mette in risalto proprio questo scontro, quest’insanabile contraddizione. Giungendo alla conclusione che è l’Islam a dovere fare le valigie. Secondo Addi, l’utopia islamista consiste proprio in questa politicizzazione dell’Islam, assolutamente incompatibile con il modello democratico. Un Islam politico – sostiene – rappresenterebbe un ritorno al Medioevo. Per questo occorre fare mostra della nostra modernità politica. Che è incompatibile con la presenza del fenomeno religioso nella sfera pubblica. Infatti – asserisce Addi – la cifra della modernità è la depoliticizzazione (o riduzione a fenomeno privato) della religione. Da un lato, quindi, l’Islam deve trionfare sulla democrazia; dall’altro, la seconda deve avere la meglio sul primo.

Ora, la domanda che pongo è: esiste una “terza via”? E credo sia questo il tono giusto da cui partire per una proficua discussione. È questa, tra l’altro, la direzione verso cui si sta muovendo un nutrito gruppo di intellettuali e filosofi del mondo islamico, e che il nostro pregiato ospite di oggi, Mohammed Abed Al-Jabri, sta cercando di teorizzare e diffondere nei suoi libri. Assieme a Mohammed Arkoun e, per certi versi, a Hassan Hanafi in Egitto. Ma mi preme soprattutto citare il filosofo iraniano Abdulkarim Soroush, e non solo perché è un mio caro amico. Egli ha, a mio avviso, prospettato in maniera eccellente la possibilità di una terza via, ossia la prospettiva di una democrazia che ospiti pacificamente una (o più) religioni. È questa la direzione che siamo chiamati a esplorare, e – lo dico da filosofo politico e sociale – occorre fare di tutto per valorizzare la cosiddetta società civile, ossia quello spazio d’azione compreso tra lo Stato e la sfera privata del cittadino. È all’interno della società civile che alla religione può e deve essere garantita la libertà di espressione e di movimento, senza che interferisca nell’autonomia del governo e dello Stato. Non si tratta, pertanto, di cancellare la neutralità dello Stato liberale, ma di garantire, nell’arena della società civile, maggiore libertà ai credenti delle varie fedi. Nelle scuole, nelle associazioni, nelle chiese.

Lo si è fatto in America, dove vige la separazione tra Stato e chiesa, che rende il primo non un’istituzione religiosa, ma un ambito che lascia alle varie fedi e confessioni la libertà di esprimersi. Nessuno vuole ritornare alle religioni di Stato o agli Stati confessionali. Soroush definisce “democrazia religiosa” uno Stato che non si fa portavoce di alcuna religione e, al contempo, garantisce la libertà di culto a tutti i cittadini. Non si tratta di un modello di democrazia confessionale. Solo, dà voce alle più disparate forme religiose o di religiosità non dottrinaria (come, ad esempio, la religiosità Sufi). Credo che questa nuova prospettiva sia la soluzione ottimale per salvaguardare politica, democrazia, identità religiosa e libertà civili, scongiurando il rischio di pericolose derive. E, a mio avviso, tale modello è perfettamente compatibile con la religione islamica.

Questo testo è la trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore alla tavola rotonda organizzata da Reset Dialogues on Civilizations “Il risveglio della religione e la società aperta”, che si è svolta nell’ambito della Giornata mondiale della filosofia dell’Unesco (Rabat – Marocco, 16 novembre 2006). All’incontro hanno partecipato il ministro dell’Interno Giuliano Amato, i filosofi Abdou Filali-Ansary (Marocco), Fred Dallmayr (Usa), Sadik Al Azm (Siria), Sebastiano Maffettone e Alessandro Ferrara (Italia), il direttore di Reset Giancarlo Bosetti e l’amministratore delegato di Reset DoC Nina zu Fürstenberg.

Traduzione di Enrico Del Sero.

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