“Io li ho visti lottare. Hanno perso una battaglia, ma non la guerra”
Tony Birtley, inviato di Al Jazeera, con Alessandra Cardinale 23 October 2007

Per due settimane sei stato gli occhi di milioni di telespettatori che attraverso le tue immagini e i tuoi racconti sono stati in grado di vedere in diretta cosa stesse succedendo a Myanmar. Che parole sceglieresti, ora, per descrivere la rivoluzione nell’ex Birmania, a chi quelle sequenze non le ha viste?

Ho visto decine di migliaia di persone scendere nelle strade per protestare, l’esercito ha brutalmente cercato di sedare le proteste, picchiando i manifestanti, arrestandoli e sparando sulla folla. C’era molta confusione, penso che per tutta la durata della contestazione siano stati sparati almeno 9 o 10 colpi di mortaio vicino e sopra di noi. Ho visto una persona, di fronte a me, cadere per terra, probabilmente colpita da una pallottola, poi non sono più riuscito a vedere che fine avesse fatto.

Qual è, secondo te, l’immagine più rappresentativa e che meglio riassume il significato di questa protesta?

Ho in mente quel giorno in cui un’immensa folla di monaci circondò la Shwedagon Pagoda. D’un tratto i militari intervennero con violenza contro i manifestanti per bloccarli, molti di essi furono arrestati e picchiati. Da quel momento ho capito che l’esercito non nutre nessun rispetto per i monaci, nonostante siano trattati in tutto il Paese con grande reverenza, quasi quanto il Papa. Le persone si inchinano di fronte a loro quando li incrociano per strada. In questo senso è stato un vero shock vedere come venivano trattati dai soldati e dalla polizia.

Quali erano i sentimenti che spingevano le persone a scendere nelle strade? Erano reticenti a parlare di fronte alla telecamera oppure avevano voglia di denunciare gli abusi e le violenze che da anni subiscono?

Ho notato che gli stati d’animo della popolazione si sono gradualmente modificati nel corso delle due settimane: all’inizio si percepiva chiaramente quanto la leadership dei monaci fosse forte e avesse il sostegno della gente, che mano a mano prendeva sempre più coraggio. Ma con il passare dei giorni e l’intensificarsi delle repressioni da parte dei militari, le persone sono diventate più reticenti nel rispondere alle domande. Appena arrivato, riuscivo con una certa facilità a ottenere dichiarazioni che descrivessero la brutalità del regime militare, ma alla fine delle due settimane, nessuno aveva più il coraggio di parlarmi. Erano seriamente spaventati dalle ritorsioni. Un uomo mi ha detto: “Se lei commette un errore nel suo paese viene arrestato, se lo commetto io vengono arrestati mia moglie, i miei figli, i miei genitori, la mia intera famiglia”. E’ chiaro quanto la paura sia profondamente radicata nella popolazione.

La forza dei monaci sta nel fatto che sono riusciti, seppur per pochi giorni, a scalfire quella cortina di paura con cui i birmani convivono da anni…

Sì, i monaci hanno guidato la rivoluzione, ma per capire fino in fondo la portata dell’evento è necessario inserirlo nel contesto storico: niente di simile si era verificato da 20 anni a questa parte. Bisogna tornare al 1988 quando la popolazione si sollevò contro il governo, e un’altra volta fu repressa con terribile violenza causando circa 3000 morti. In realtà, ancora oggi, non si hanno dati precisi sul numero delle vittime. Dunque la popolazione birmana ha ben in mente le angherie e le repressioni messe in atto dai militari. Quando la forza delle manifestazioni di settembre è iniziata a scemare le persone hanno ricominciato a chiudersi in loro stessi, spaventati dall’idea che si potesse ripetere quello che era già successo nell’88. Detto ciò, alcuni mi hanno detto: “Questa non è la fine, continueremo, non ora, ma non ci fermeremo”. Penso che i problemi nel Myanmar siano così profondamente radicati che molto probabilmente la rivoluzione riprenderà. Fino al giorno, speriamo, in cui il paese conoscerà la democrazia.

Durante queste due settimane hai avuto l’impressione che la fiducia della popolazione andasse montando oppure la gente iniziava ad avere la sensazione di combattere una guerra persa?

Penso che il sentimento diffuso sia stato quello di aver perso una battaglia ma non la guerra. Abbiamo assistito ad una energia che in pochi giorni ha contaminato quasi tutti i birmani, ma questa è la dimostrazione che lo spirito e la forza ci sono, sono solo assopiti, e sono certo che prima o poi risorgeranno. Parlando con loro, i sentimenti erano confusi: all’inizio avevano fiducia che questo movimento popolare potesse portare un cambiamento e confidavano nell’operato della comunità internazionale, ma dopo gli ennesimi episodi di violenza si sono rapidamente convinti che gli organismi internazionali potranno fare ben poco…Non mi pare nutrissero grande speranza quando l’ambasciatore Onu Ibrahim Gambari è venuto qui in missione.

Sui giornali alcuni esperti hanno scritto che Myanmar potrebbe finire come l’Iraq dopo l’invasione degli Usa, vale a dire governata da potenze straniere. Cosa ne pensi?

In giro si fanno operazioni di propaganda e di contro-propaganda. E’ importante avere in mente la storia di questo paese. Quando ottenne l’indipendenza, Myanmar era frammentata dalle continue lotte interne tra le 10 tribù etniche stanziate sul territorio. All’inizio, la popolazione accolse di buon grado l’arrivo della giunta militare che prese il controllo del paese e portò stabilità. Ma ora le cose sono andate peggiorando. Sarebbe sufficiente fare una visita nella nuova capitale Naypyidaw, questa sorta di “Isola che non c’è”, per accorgersi dell’opulenza in cui i generali birmani vivono. L’anno scorso si è sposata la figlia del generale Than Shwe (capo della giunta militare, ndr); la quantità di diamanti e di gioielli che la sposa indossava era indescrivibile. Poi giri lo sguardo verso la gente “normale” a Rangoon e il quadro è totalmente diverso. Myanmar, è bene ricordarlo, era una paese prosperoso, con infinite risorse naturali, in grado di essere il maggior produttore di riso in Asia ma ora si trova allo sbaraglio ed è facile capire perché la popolazione non si fermerà a queste due settimane ma continuerà a lottare.

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